La valle che resiste e le battaglie che si intrecciano

Migliaia di persone alla marcia verso il cantiere Tav di Chiomonte

28 / 7 / 2019

È un fiume in piena quello che ieri pomeriggio ha inondato le strade e i sentieri della Maddalena, in Val di Susa. Fortunatamente non stiamo parlando della piena del torrente Cerniscia – che pure ha tenuto per ore in apprensione gli abitanti del luogo e le tante persone giunte al Festival dell’Alta Felicità – o di altri fenomeni “estremi” causati dalla crisi climatica. Parliamo di migliaia di bandiere, corpi e voci che all’unisono cantavano: «la Valsusa paura non ne ha!».

No Tav

Quante volte abbiamo sentito intonare questo coro che – insieme ad altri – descrive al meglio lo spirito di una battaglia che da venticinque anni non si scalfisce e non arretra. L’obiettivo dichiarato della marcia No Tav partita dal Festival dell’Alta Felicità era quello di entrare nel cantiere di Chiomonte. Un cantiere fantasma, che dal 2017 ha portato a termine la sua “missione” di costruire il tunnel esplorativo. Il passo successivo dovrebbe essere l’inizio del tunnel di base ed è qui che si gioca la battaglia oggi, con le dichiarazioni del premier Conte della scorsa settimana, che segnano forse lo spartiacque definitivo dell’approccio governativo su quest’opera, le pressioni di una governance europea che sta ridefinendo i propri assetti post-elettorali e la lettera d’impegno del Ministero dei Trasporti a Bruxelles, guarda caso inviata proprio la notte prima della manifestazione.

Ma la Valsusa non ha paura, non teme i tanti giochini di potere, i 500 agenti inviati da Matteo Salvini, le scorie mediatiche di un dibattito sempre più inquinato dai grandi interessi in gioco. Quello al cantiere di Chiomonte è un assedio di massa; a pochi metri dai primi sbarramenti l’enorme corteo si divide in spezzoni che vogliono circondare “il mostro”. La prima recinzione va giù in pochi minuti, nonostante la pioggia di lacrimogeni che vengono sparati dalla polizia. Si entra nella “zona rossa” e in breve il cantiere è circondato da migliaia di persone; all’altezza della seconda cinta protettiva il getto di lacrimogeni diventa più intenso e la polizia non si fa scrupoli nel lanciarli dall’alto, dalla strada verso la valle. Ma ormai il cantiere è violato e la sua “sacralità”, più volte dichiarata da Salvini, solo un ridicolo simulacro per pennivendoli assetati di sangue e manette.

No Tav

Il corteo torna al Festival, il cui titolo "Alta Felicità" descrive l’umore collettivo per una giornata di lotta importante. Certo, la Val di Susa ci ha abituati a questo tipo di battaglie: non è la prima volta e non sarà l’ultima che in valle assistiamo ad azioni di disobbedienza di massa, a manifestazioni partecipate e intense. Quello che c’è di diverso rispetto a prima è la percezione comune che questa lotta sia parte di un conflitto più grande contro l’attuale modello di sviluppo, che proprio nelle grandi opere ha uno dei suoi perni.

Un conflitto che si sta ampliando nel tempo e nello spazio, composto dai piccoli e grandi comitati territoriali, da resistenze storiche contro il capitalismo estrattivo, ma anche da nuovi movimenti giovanili che in tutto il mondo scendono in piazza contro la crisi climatica. Dal blocco delle miniere di carbone in Renania alle alle azioni contro l’industria fossile sulla dorsale adriatica in Italia, dai climate camp disseminati in ogni parte d’Europa - che dal 4 all’8 settembre vedranno il primo appuntamento italiano al Lido di Venezia – alla Climate March verso la Mostra del cinema di Venezia programmata per il prossimo 7 settembre, il legame tra le varie lotte è sempre più indissolubile e passa per una consapevolezza: invertire la rotta di questo modello di sviluppo è possibile solo a partire dai movimenti sociali.

Non c’è parlamento nazionale, governo o istituzione sovranazionale che possa sostituirsi in questo passaggio epocale e necessario: vale per il Tav, come per tutto il resto.