Che cosa lega i risultati dei referendum - se
riusciranno a scavalcare i cavalli di frisia della Corte Costituzionale e
del quorum - al "vento che cambia" delle ultime elezioni amministrative
(un vento sempre più simile a quello che riempie le piazze di Atene e
della Spagna contro l'azzeramento di ogni aspettativa per le nuove - e
le vecchie - generazioni, ma che ha un preciso riscontro nelle rivolte
che stanno cambiando il panorama politico del Mediterraneo e del Medio
Oriente)? Per rimanere in Italia, con un occhio però ai paesi vicini, e
al di là del ripudio di un modo di governare e di uno stile di vita che
si è imposto per due decenni e più a tutto il paese, uno dei punti su
cui tenere gli occhi puntati sono le opportunità che si aprirebbero con
l'abrogazione dell'art. 23 bis della finanziaria 2008 (la norma che
impone privatizzazione e svendita dei servizi pubblici locali),
restituendo a sindaci e amministrazioni comunali le leve di una politica
economica e industriale: quella che governo e opposizione, prigionieri
del pensiero unico secondo cui non ci sono alternative al dominio dei
mercati e della finanza, hanno da tempo rinunciato anche solo a
formulare. Il quesito referendario restituisce ai sindaci - se lo
vogliono - la possibilità di disporre di un insieme di "bracci
operativi" per realizzare il loro mandato: che non è svendere il
territorio per incassare oneri urbanistici al posto dell'Ici, o "salvare
l'ordine pubblico" minacciato dai migranti musulmani; ma mettere in
grado di governarsi tutti coloro che abitano su un territorio.
Il
quesito investe tutti i servizi pubblici locali e non solo l'acqua,
anche se l'acqua esemplifica bene la svolta possibile. Perché si tratta
di trasformare migliaia e migliaia di cittadini che hanno promosso o
sostenuto la campagna referendaria il referente obbligato di una nuova
modalità di gestione delle risorse: bilanci trasparenti, dibattito
pubblico sugli indirizzi a livelli quanto più decentrati, diritto di
ispezione e controllo su tutti gli aspetti della gestione. A queste
forme di bilancio partecipativo dovranno essere chiamati tutti i
soggetti che disposti a mettere a disposizione le competenze necessarie
alla gestione della risorsa: non solo competenze specialistiche
(indispensabili, ma ormai largamente presenti in tutte le aggregazioni
di cittadinanza attiva, cioè nei comitati); ma anche, e soprattutto, le
competenze generiche di chi sul territorio ci vive ed è interessato a
una sua corretta manutenzione: quindi oltre alle associazioni, anche i
sindacati, le organizzazioni datoriali e professionali, le Asl, le
Università e i centri di ricerca, le strutture del decentramento. Un
modello del genere è riproducibile per tutti i servizi pubblici locali.
CONTINUA|PAGINA15 Prendiamo il caso dell'energia: si tratta di imporre
standard di efficienza energetica per tutti gli edifici di nuova
costruzione o suscettibili di ristrutturazione (come a Bolzano);
obblighi di installare impianti solari termici e fotovoltaici in tutti i
contesti adatti (come a Barcellona) e impianti di micro cogenerazione
in sostituzione delle caldaie da dismettere (come sta facendo in
Germania la Volkswagen, diffondendo tramite un'azienda di distribuzione
dell'energia elettrica un impianto ricalcato su quello messo a punto
quarant'anni fa dalla Fiat - il Totem - e poi abbandonato). Ma si tratta
soprattutto di accompagnare con team di professionisti convenzionati e
la partecipazione dell'utenza il check-up degli impianti e degli
edifici, la progettazione degli interventi, l'accesso ai finanziamenti,
la riscossione e l'utilizzo degli incentivi. È un'attività di assistenza
tecnica, ma anche e soprattutto di aggregazione della domanda (di
consulenza, di progettazione, di impiantistica, di installatori e
manutentori, di forniture) che l'amministrazione che se ne fa carico può
poi orientare al potenziamento o alla riconversione di una quota
consistente del tessuto produttivo locale oggi in crisi: lo fa - in
senso inverso - la Volkswagen con il suo microcogeneratore; non si vede
perché non possano farlo anche un Comune o un gruppo di comuni.
Prendiamo
ora il mercato ortofrutticolo: può essere trasformato progressivamente
in un grande farmer's market e in una sede di collegamento e diffusione
dei Gas (Gruppi di acquisto solidale), senza con questo dissolvere la
loro peculiarità, che è quella di aggregare piccoli gruppi fondati su
solidarietà e conoscenza reciproca. Ma con interventi del genere si
potrebbe cambiare l'intero volto dell'agricoltura periurbana di molte
città; creando convenienze a trasformare molte monoculture in aziende
multifunzionali, condotte con criteri ambientali e, soprattutto, in
grado di offrire opportunità di impiego, assistenza tecnica, formazione e
mercato a un movimento di ritorno dei giovani alle campagne, peraltro
in parte già in corso.
Rifiuti: la soluzione
Prendiamo poi la
gestione dei rifiuti, che non è che la "coda" velenosa di una cattiva
gestione delle risorse. Si tratta di garantire ai rifiuti urbani, ma
anche a quelli della piccola impresa, una raccolta porta a porta
efficiente, che garantisca per lo meno il raggiungimento degli obiettivi
prescritti dalla normativa europea e italiana (50% di riciclo e 65% di
raccolta differenziata); non c'è attività che richieda maggiormente
coinvolgimento e partecipazione dell'utenza e presenza capillare del
"braccio operativo" del Comune; lasciando una frazione residua
scarsamente combustibile, che non giustifica la costruzione di nuovi
inceneritori. Anche perché esistono ormai esempi di riciclo totale del
residuo economicamente sostenibili e fonte importante di nuova
occupazione. La raccolta differenziata richiede poi la moltiplicazione
degli impianti di selezione, trattamento e utilizzazione lungo tutte le
filiere delle frazioni raccolte - compresa quella organica, fino a
promuovere l'utilizzo del compost presso le aziende agricole.
Ma si
tratta soprattutto di intervenire a monte: con politiche di riduzione
degli imballaggi, dell'usa e getta, degli sprechi alimentari, dell'acqua
imbottigliata (e con una logistica di ritorno per imballaggi e prodotti
dismessi, che insieme alle consegne a domicilio, in città liberate
dalla congestione) può rivelarsi strumento di rivitalizzazione del
commercio di vicinato. E infine, promuovendo il riuso, che richiede
moltiplicazione e trasformazione delle stazioni ecologiche - quelle dove
si conferiscono i rifiuti ingombranti - in centri di selezione
riparazione e rimessa in circolo dei beni durevoli ancora utilizzabili o
facilmente riparabili; affiancando a ogni stazione attività di
formazione rivolte (mettendo a disposizione l'attrezzatura necessaria)
sia a coloro che vogliono riparare i loro beni guasti; sia a una nuova
leva di artigiani riparatori in grado di garantire alle comunità in cui
sono inseriti che i beni oggi scartati perché guasti o obsoleti possano
essere riparati, rinnovati e utilizzati ancora dai loro proprietari,
rimessi in circolo a costi accettabili. Si tratta di una grande
operazione culturale; perché nella professionalità di chi ripara oggetti
o attrezzature si combinano tre caratteristiche che definiscono i
parametri di un modo di lavorare in grado di portarci oltre il fordismo:
manualità; competenza tecnica e attenzione (e a volte anche amore) per
gli oggetti del proprio intervento: sempre uno differente dall'altro, a
differenza di ciò che esce in serie da una catena di montaggio.
Mobilità pubblica
Prendiamo
infine il tema della mobilità (ma ce ne sono molti altri di cui qui non
si parla). Liberare le città dalla congestione richiede certamente
introduzione o rafforzamento ed estensione delle tariffe di ingresso
(senza illudersi che basti a liberarci dall'inquinamento: per questo
all'estero le chiamano congestion charge e non pollution charge, che è
stato il grande equivoco dell'ecopass milanese); ma richiede che i fondi
raccolti, e altri ancora, vengano destinati alla mobilità pubblica su
tre direttrici, tutte e tre in grado di alimentare ampi bacini di
occupazione e di assecondare una parziale riconversione del settore
automotive: il potenziamento del trasporto di massa lungo le linee di
forza della mobilità (liberando le sedi stradali dal traffico privato);
l'introduzione del trasporto a domanda rivolto alle categorie deboli, a
target aziendali specifici e nelle ore serali e notturne (il che
richiede che le zone di entertainment siano raggiungibili solo con
questo sistema); la promozione del car-pooling dinamico (con gli
equipaggi formati in tempo reale, per disaccoppiare il viaggio di andata
da quello di ritorno, che per molti non possono coincidere) e il
car-sharing, con migliaia di posteggi e decine di migliaia di vetture a
prezzi accessibili. Ma non è possibile riformare la mobilità senza avere
in ogni quartiere, in ogni circoscrizione, in ogni isolato (oltre che
in ogni azienda), un mobility manager in grado di raccogliere e tradurre
in proposte le esigenze del vicinato: cioè, anche qui, un bacino di
cittadini attivi e di occupazione qualificata. Anche in questo caso
l'interlocutore è l'azienda "tranviaria" o, meglio, un'agenzia di tutti i
comuni dell'hinterland, in grado di dialogare con i cittadini in modo
articolato e differenziato.
Privato non è obbligatorio
Veniamo ora
alle obiezioni, monotone e fruste, contro le implicazioni
dell'abolizione dell'art. 23 bis. 1°: non è consentito dalla normativa
europea; falso. Basta che lo statuto del Comune dichiari che questi - ed
altri - servizi pubblici locali sono attività non a valenza economica
per legittimare la gestione pubblica del servizio. 2°: le gestioni
pubbliche riempiono le aziende controllate di parenti e clienti inetti
quanto costosi. Vero; ne abbiamo sotto gli occhi nuovi esempi ogni
giorno. Ma sono le stesse amministrazioni che, se il servizio è
privatizzato, gestiscono con criteri altrettanto arbitrari gli
affidamenti e le gare di appalto (e ne abbiamo sotto gli occhi esempi
altrettanto clamorosi). Il fatto è che soltanto pubblicità e trasparenza
(di bilanci e stipendi), potere di indirizzo e controllo da parte della
cittadinanza attiva possono garantire le gestioni dei servizi pubblici
dal malaffare e trasformarli in qualcosa che non rientra né nella
proprietà privata né in quella pubblica. 3° (ed è la cosa più
importante): la gestione privatistica - la SpA - versa alle
amministrazioni degli utili indispensabili a integrare i loro bilanci.
Già; ma non è per fare utili, né per fare cassa, che cent'anni fa (nel
1903, sotto Giolitti) erano state istituite le municipalizzate. E poi da
dove ricava quegli utili l'azienda? Dalle tariffe; che peraltro,
essendo le Spa società di diritto privato, possono essere e vengono
destinate ad altri scopi; per esempio annettersi altre imprese,
diventando sempre più grandi; ma anche sempre più lontane dai cittadini:
di qui la loro preferenza per i grandi impianti (inceneritori, centrali
a carbone o nucleari, nuove metropolitane, ecc.), trascurando la
qualità del servizio di prossimità, affidato, ovunque possibile, a finte
cooperative e a lavoratori precari. 4°: il pubblico non ha le risorse
per effettuare gli investimenti necessari all'adeguamento, al
potenziamento e neppure alla manutenzione dell'infrastruttura; i privati
sì, perché hanno accesso al credito bancario e possono poi recuperare
con le tariffe il valore dell'investimento.
Ma questa è la
conseguenza di un falso federalismo che negli ultimi vent'anni ha
strangolato sempre più la finanza locale per ingrassare le clientele
della Cricca e della malavita organizzata, ormai presente al Nord quanto
al Sud. È ora di riprendere in mano, come cittadini, il governo dei
nostri territori.
L'acqua inonda la politica
7 / 6 / 2011
Tratto da: