L'alienazione dell'intellettuale

A partire dal primo numero di Alfabeta2 una riflessione sulla mutazione della funzione intellettuale nella scena produttiva contemporanea

11 / 8 / 2010

E’ da qualche anno che si discute del ruolo dell’intellettuale, seppur in ambiti ancora molto ristretti e senza grande enfasi sui media di larga diffusione. Per intellettuale intendiamo, non chi fa lavoro intellettuale (attività oggi tutta da ridefinire), ma chi - per dirla con Eco - “ricopre la funzione intellettuale, svolgendo un’attività critica e creativa”. E’ grande merito del primo numero di Alfabeta2 a domandarsi se nel dibattito culturale contemporaneo abbia ancora senso parlare di funzione intellettuale. Il secolo XX – il secolo degli intellettuali – è terminato, infatti, nel segno di un strutturale cambiamento sociale, economico e valoriale, al cui interno le categorie sociali, culturali e antropologiche novecentesche sono in buona parte saltate. Per rispondere a tale domanda, è dunque necessario partire, direi marxianamente, proprio dalle mutate condizioni materiali e soggettive della produzione e del lavoro.

La crisi del paradigma fordista-industriale è stata anche conseguenza di una nuova soggettività che erompe nella scena della valorizzazione: l’intellettualità diffusa o di massa, prodotta dalle lotte degli anni Settanta. Avrebbe potuto e dovuto (almeno nelle nostre intenzioni) essere il trionfo della creatività e della coscienza critica, quindi il terreno ideale perché dieci, cento, mille intellettuali fiorissero. Vi erano tutte le premesse perché ciò potesse avvenire, soprattutto dopo l’eruzione del 1977 che aveva definitivamente spazzato via l’idea togliattiana di ”intellettuale organico”. Invece nulla si è verificato, anzi, la funzione intellettuale si è progressivamente marginalizzata, inizialmente costretta all’esodo per sfuggire alla repressione, successivamente travolta dalle nuove forme di comunicazione, imposte proprio dall’avvento dell’intellettualità di massa.

Nel corso del XX secolo lo “status” di intellettuale che interveniva nella scena pubblica, a partire dal famoso “J’accuse” di Emile Zola sino all’engagement sartriano, è stato giustificato da un riconosciuto accesso al sapere e alla cultura, o tramite il ruolo professionale svolto o tramite la capacità di leggere criticamente la modernità contemporanea. L’elemento critico-creativo è sempre stato fondamentale e ciò può spiegare la forte acredine che le forze reazionarie e conservatrici hanno sempre avuto verso gli intellettuali, pur non mancandone al loro interno.

La netta separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tipica della disciplina sociale fordista, faceva sì che l’accesso alla cultura fosse comunque limitato e che il controllo del processo di valorizzazione capitalistica si attuasse nell’attività di produzione materiale grazie all’espropriazione macchinina del sapere umano (leggi operaio).

Con il passaggio al capitalismo cognitivo, il sapere e il linguaggio diventano funzioni produttive di plus-valore e su di essi si instaura la nuova divisione cognitiva del lavoro. Formazione, competenza, conoscenza, sapere, cultura: parole che solo apparentemente sono sinonimi, ma che indicano precise gerarchie in grado di controllare la funzione di creazione e di diffusione della conoscenza come nuova base della valorizzazione capitalistica. Creatività e capacità critica tendono sempre più ad essere sussunte al processo di produzione, oggi sempre più immateriale. L’intellettualità di massa, il general intellect, deve essere compatibile con le esigenze imposte dal processo di accumulazione.

L’innovazione comunicativa-linguistica dell’underground sociale degli anni ’70, che tanto fastidio aveva dato agli assetti di potere dell’epoca sino a richiedere l’intervento manu miltare, si trasforma in servilismo acritico tipico dei media contemporanei o in creatività di immaginari idioti e proni: be stupid! Dall’economia della sovversione si passa all’economia della deficienza.

L’insegnamento universitario – principale, ma non unico, bacino nel XX secolo della funzione intellettuale - diventa oggi il prototipo della normalizzazione e solo pochi gruppi di studenti cercano disperatamente di non farsi fagocitare nel processo di lobotomizzazione /taylorizzazione culturale e cerebrale che oggi caratterizza il ciclo degli studi.

La stessa opera letteraria e artistica con l’inizio del nuovo millennio si trasforma sempre più in merce, sia grazie ai processi di concentrazione editoriale, sia al ripiegamento “individualistico-mediatico” degli stessi scrittori-artisti. Aldo Busi che partecipa all’Isola dei Famosi, Paolo Nori che accetta di scrivere su qualsiasi testata giornalistica, Alessandro Piperno che teorizza la solitudine dello scrittore e il giusto rifugiarsi nella torre d’avorio sono solo alcuni esempi: ben lontano dai Pasolini, dai Sciascia o dai Tabucchi degli ultimi decenni del secolo scorso!

La digitalizzazione e la standardizzazione delle pratiche di comunicazione e di linguaggio, il loro divenire produttori di valore, svuota la funzione culturale dell’intellettuale sino a farla diventare funzionale e compatibile con il processo di messa a lavoro (e quindi a valore) della vita e delle sue pulsioni più creative. E’ con l’avvento del capitalismo cognitivo e la sua necessità di asservire la conoscenza e la cultura alla logica del profitto e della rendita che la funzione dell’intellettuale si spegne. Se tale funzione viene oggi ancora riconosciuta è solo quando si fa ancella del potere. E non è un caso che oggi siamo in piena egemonia culturale di destra.

Nel capitalismo cognitivo, il mezzo di comunicazione e di linguaggio definisce la potenza pseudo-culturale e ne stabilisce il “diritto di esistere”, a differenza del XX secolo, quando erano la potenza culturale a definire le modalità e le forme di comunicazione.

Questa trasformazione non è avvenuta solo sul piano culturale. E’ stata anticipata dalle trasformazioni che hanno materialmente e soggettivamente interessato il rapporto capitale lavoro. Due sono i punti rilevanti: da un lato, l’emergere della precarietà come condizione generalizzata, esistenziale e strutturale, con il suo carico di ricattabilità ma anche di consenso (indotto dagli immaginari stereotipati forniti dagli stessi mezzi di comunicazione), dall’altro, il controllo dei processi di formazione e di educazione che hanno favorito la segmentazione del sapere a vantaggio della specializzazione codificata (usa e getta) e a danno della capacità critica e culturale vera e propria. Siamo al contempo nell’era dell’intellettualità di massa e dell’ignoranza (nel senso etimologico di “non-conoscenza”).

La funzione intellettuale, a differenza del passato, è così oggi totalmente alienata, come era ed è alienata la funzione lavorativa. Ma non è morta. Nel XXI secolo, essa presenta comunque quell’eccedenza, pur limitata ma comunque irriducibile, che non può essere totalmente sussunta alla logica della commercializzazione e del servilismo contemporaneo. Di certo, sic rebus stantibus, non si svilupperà nei luoghi dove finora si era diffusa: le università o i salotti. Ma fiorirà in quella moltitudine nomade che ancora resiste e propone.