L'alternativa c'è, su la testa

23 / 1 / 2011

 Qualcosa si sta muovendo. Richiede attenzione e un po' di sensibilità rinnovata per i cambiamenti. Perché c'è un travaglio reale nelle «anime» che stanno convergendo in questo processo sotto lo striscione «Uniti contro la crisi». Si ascoltano sortite inaspettate fino a poche settimane fa. Come «la fine delle illusioni sul capitalismo cognitivo», a lungo scambiato per «la possibilità di un progresso lineare senza più crisi», dove sparivano la fatica e la distinzione tra figure produttive (e non).
Detto da «padovani» storici o da leader dei ricercatori precari, fa sicuramente effetto.

Così come sentire da Maurizio Landini, segretario generale dei metalmeccanici, avanzare l'obiettivo del «reddito di cittadinanza», con cui «per molto tempo non mi sono trovato d'accordo». Ma quando una fetta crescente e rilevantissima di popolazione si trova stretta tra disoccupazione, precarietà, ricatti espliciti, ecco che la necessità di «far vivere tutti» richiede proposte nuove sul piano del welfare. E siccome la ricchezza non nasce sotto i cavoli, la crisi stessa - «sistemica», non occasionale o solo finanziaria - si incarica di far vedere la necessità pratica di un «sistema alternativo», in cui ci si chiede di nuovo «cosa, come, perché produrre».


Il centro sociale Rivolta ospita un popolo di attivisti proveniente da esperienze molto diverse. Ma che, come spiega Gianni Rinaldini (coordinatore dell'area «La Cgil che vogliamo»), sono qui per «individuare percorsi di discussioni e approfondimento»; un «luogo, uno spazio comune, per promuovere iniziative e formulare proposte».
Il punto di partenza è questa crisi che non passa, che ha rotto il vecchio cliché «crisi-lotte-nuovo sviluppo».

E la via d'uscita individuata dal capitale è «la riproposizione del modello che ha prodotto la crisi». Ma con «un salto di qualità» che punta esplicitamente alla «precarizzazione di massa, l'aumento delle disegualianze, un rapporto distruttivo con la natura, demolizione delle reazioni sociali e contrattuali, delle tutele e dei diritti». In Italia è evidente il filo nero che unisce «il collegato lavoro, la riforma Gelmini, la finanziaria che toglie risorse ai servizi sociali e ai territori, la cancellazione delle libertà sindacali». Evidenti anche le risposte (studenti, metalmeccanici, movimenti per l'acqua, ecc). Il tentativo, qui, è di «costruire un percorso complessivo che tenga insieme in modo sistemico i temi del lavoro, istruzione, diritti, ambiente» e quant'altro, e con «la democrazia come elemento centrale». Un percorso di «fuoriuscita dal perimetro della politica» presente in questo parlamento e che «si autorappresenta» per mettere davanti i «problemi della vita di tutti».


Neanche Luca Casarini è una new entry, ma prova a disegnare il salto di qualità che qui si cerca di fare. «Si è partiti da un appello fra soggetti, non fra organizzazioni», e «non cerchiamo di seguire il paradigma della ricomposizione» perché «la centralità non sta oggi in un soggetto, ma nella crisi». Insomma, è «la pratica del comune» a tracciare la strada di «una nuova storia». Far convergere anche la retorica da centro sociale con la durezza del conflitto di fabbrica non è semplice, ma un terreno comune è già chiaro: «Quale rapporto tra giustizia e legalità»? Nella crisi, i criteri di gestione diventano quelli della «governance», autoritaria e senza ricerca del compromesso. E quindi «giustizia non è uguale a legge» (i cultori della «legalità» astratta si trovano già ora in grave difficoltà), ed anche lo sciopero - diritto messo in mora dal «modello Marchionne» - deve essere reinventato investendo «il funzionamento della circolazione». L'ambizione che muove il percorso stacca decisamente «con il passato che ognuno di noi rappresenta» e punta a far diventare l'alternativa «nuovamente centrale nel paese, parlando e muovendo milioni di persone». Perché se «il futuro ce l'hanno già tolto, dobbiamo costruircelo noi».
La concretezza metalmeccanica di Landini avverte subito che «se stanno realizzando ora, in modo lucido e pensato, quel che c'era nel Libro Bianco di Maroni, ai tempi di Genova 2001, vuol dire che nel nostro modo di contrastarli qualcosa non ha funzionato». Ora «siamo di fronte a una svolta epocale, sia nel modo di produrre che nelle relazioni sindacali». Non è infatti in gioco solo «l'esistenza della Fiom e o della Cgil, ma il diritto delle persone che lavorano di decidere di organizzarsi collettivamente e contrattare la condizione di lavoro».

E non c'è da fermarsi a pensare: «Azione e analisi vanno di pari passo; rischiamo di fare errori, certo, ma se ci fermiamo un attimo ci fanno fuori tutti». Proprio «la radicalità dell'attacco della Fiat, che supera e spiazza la normale dialettica sindacale» è alla base della reazione dei lavoratori di Pomigliano e Mirafiori. I quali hanno potuto opporre quella reazione al ricatto perché «hanno sentito una solidarietà vera, e hanno capito che non stavano lottando soltanto per sé». Intorno a loro, intorno allo sciopero del 28 gennaio («dove ci conteranno dentro ogni fabbrica»), quanti scenderanno in piazza «ci staranno per dire che non si è disposti ad accettare, in ogni posto di lavoro e nella vita sociale, condizioni come quelle che la Fiat vuole imporre».

E sarà una tappa, non la fine della battaglia.