Lavoro e Covid: una prospettiva transfemminista, verso l'8 marzo

5 / 3 / 2021

L'ultimo sciopero globale transfemminista dell'8 marzo è coinciso con il primo giorno di lockdown totale in Italia: il mondo si è fermato, la lotta no, anzi è stato proprio durante quel periodo che alcune rivendicazioni hanno trovato ancora più urgenza di essere discusse. Al giorno d'oggi su 101 mila posti di lavoro persi 99 mila erano di donne, stando a questi dati è ben evidente che il lavoro di cura molto spesso è ad appannaggio delle donne in piena carenza di tutela e spesso anche di reddito. Essenziale è questo sciopero globale transfemminista per distruggere la cultura patriarcale dilagante sui nostri territori, per la quale abbiamo visto solo a febbraio un femminicidio al giorno, per la quale il Miur decide che l'educazione sessuale a scuola non si deve fare perché spinge le nuove generazioni a fare sesso e per la quale abortire in sicurezza in una pandemia globale diventa sempre più difficile e meno garantito. In seguito, proponiamo la trascrizione dell'intervento di Cinzia Brunati, compagna di Nudm Treviso.

Volevo iniziare questo intervento ponendo un quesito apparentemente molto semplice: perché lavoriamo? Di solito si dice “lavorare per vivere”, giusto? Ecco, eppure questa pandemia ha rotto irrimediabilmente il nesso fra i due termini della questione, dimostrando che lavoro e salute, lavoro e vita non vanno necessariamente di pari passo: per tantissimi di noi, andare a lavorare ha significato (e significa tutt'ora) rischiare il contagio e mettere in pericolo la nostra vita o quella delle persone a noi più vicine. Al contempo però non abbiamo mezzi per vivere senza il salario, senza essere “produttivi”. Mai come questa volta salario e salute si sono dimostrati antitetici.

Sembra che il dibattito pubblico oscilli fra due poli: tutela delle esigenze produttive a scapito della vita e salute di alcune fasce della popolazione e tutela delle esigenze sanitarie a scapito del lavoro e della produttività. Ma davvero la nostra vita può dipendere unicamente dal salario, anche a fronte di una pandemia? È possibile pensare un reddito sganciato dalla produttività e dal lavoro?

Ma ancora di più, allargando i termini della questione, cosa intendiamo per “lavoro”?

Lavoro è solo quello che viene svolto in fabbrica o in ufficio o in luoghi di produzione? Esistono delle attività necessarie che sono a tutti gli effetti “lavoro” ma non vengono considerate produttive?

Il problema è che il perimetro di ciò che noi normalmente consideriamo “lavoro produttivo” è fissato dal sistema capitalista e patriarcale nel quale ci troviamo a vivere, e fissato in base alle sue esigenze: ne resta fuori quello che il sistema economico e sessista ha interesse a non considerare lavoro produttivo e quindi a non retribuirlo (penso innanzitutto al lavoro di cura e al lavoro domestico svolto per la stragrande maggioranza dalle donne, così come al lavoro sessuale).

Ma come femministe intersezionali non possiamo fermarci a questa definizione. Dobbiamo allargare la prospettiva comprendendo tutte quelle attività che sono lavoro produttivo a tutti gli effetti anche se marginalizzato o non retribuito.

Questa analisi del sistema socioeconomico va calata sulla situazione di pandemia nella quale ci troviamo, nella quale il capitalismo si pone sia come la causa scatenante della pandemia, sia come contesto nel quale la pandemia agisce.

Infatti da un lato l'erosione degli ecosistemi ai fini della produzione capitalista ha permesso il salto di specie del virus e il contagio nell'uomo. Dall'altro la pandemia va pesare esattamente sugli anelli più deboli della catena, quei soggetti resi più fragili e quelle situazioni più critiche che lo stesso capitalismo ha creato o ha contribuito a creare: a scapito di donne, soggetti razzializzati, soggettività queer, migranti, sex worker, disabili. Insomma, il Covid è andato ad accentuare le diseguaglianze che già c'erano: ha fatto esplodere le contraddizioni già insite nel modello sociale ed economico.

Sappiamo tutti ormai che la quasi totalità dei posti di lavoro persi causa Covid hanno riguardato le donne: si parla di 99 mila posti di lavoro persi per le donne su un totale di 101 mila [dati ISTAT]. Questo perché più spesso impiegate in contratti a termine, precari o a p.iva (quindi estranei al blocco dei licenziamenti) con un reddito inferiore rispetto al partner e quindi anche più sacrificabile nell'ottica della complessiva economia familiare.

Allo stesso tempo, le donne hanno subito un sovraccarico di lavoro poiché è alle donne che viene demandato il lavoro di cura, sia in casa sia fuori casa. Così quelle che hanno mantenuto il proprio lavoro hanno lavorato di più degli uomini perché impiegate in attività essenziali fortemente femminilizzate (ad esempio la scuola primaria e la sanità, delle multiservizi). [Dati della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro].

D'altro canto, le donne hanno continuato a svolgere tutto l'abituale lavoro produttivo e riproduttivo che sfugge alla nozione capitalistica e patriarcale di “lavoro”: il lavoro domestico e il lavoro di cura a figli e familiari, essenziale per mantenere efficiente la produzione capitalista eppure naturalizzato, spoliticizzato e non retribuito. Lavoro di cura che è ulteriormente aumentato durante la pandemia sia in favore dei familiari più fragili sia nell'assistenza dei figli impegnati nella didattica a distanza.

Anche il lavoro da casa (impropriamente detto smartworking) che apparentemente consentirebbe una maggiore conciliazione di lavoro e vita familiare, può rilevarsi un'arma a doppio taglio soprattutto per le lavoratrici. Infatti, oltre a far gravare sul lavoratore i costi che prima sopportava il datore di lavoro (per esempio la corrente elettrica e gli strumenti di lavoro come il pc), la mancata regolamentazione del diritto alla disconnessione fa sì che il lavoratore non abbia orari e sia sostanzialmente sempre disponibile o reperibile, crea iper-sfruttamento. Questo rende ancora più gravosa la posizione delle lavoratrici alle quali è demandato il lavoro domestico e di cura perché il lavoro da casa accresce e non diminuisce la difficoltà di conciliare lavoro per il datore di lavoro (retribuito) e lavoro domestico (necessario ma non retribuito): ancor di più la casa diventa un luogo di produzione e riproduzione del capitale.

Ma oltre che luogo di estrazione di lavoro, la casa può diventare una prigione per le donne. Sappiamo che le violenze domestiche sono durante il lockdown sono aumentate stante la convivenza forzata h24 con i partner abusanti. Come ci hanno raccontato i Centri Antiviolenza del nostro territorio, anche le richieste d'aiuto al Numero Antiviolenza sono aumentate esponenzialmente (è il numero 1522!!!!) con anche maggior rischio di venire scoperte dall'abusante, dato che non ci si poteva allontanare da casa.

Ma la casa non è un luogo sicuro nemmeno per le persone trans e le soggettività queer e non binarie che possono subire anch'esse la violenza di conviventi omotrasfobici e questo in particolar modo se si tratta di persone giovani o adolescenti.

Proprio per questo, e mi ricollego a quanto detto all'inizio, è necessario un reddito sganciato dalla produzione: noi chiediamo l'istituzione di un reddito di autodeterminazione immediato per permettere la fuoriuscita dalla violenza, che spesso viene esercitata anche con lo strumento del ricatto economico.

La violenza economica sistemica si è acuita a causa della pandemia anche nei confronti di coloro che svolgono un'altra categoria di lavoro svilita dal sistema patriarcale: il lavoro sessuale. Come diciamo sempre: sex work is work, il lavoro sessuale è lavoro a tutti gli affetti, se svolto volontariamente da persone maggiorenni e consenzienti. Per i sex worker la pandemia e il rischio di contagio ha significato perdere la propria fonte di sostentamento, condannandole ad una marginalità ancora maggiore.

A condizione di ulteriore marginalità sono state condannate le persone migranti senza permesso di soggiorno, già normalmente impiegate in nero senza tutele sanitarie ed oggi ancora più esposte al contagio; oppure con permesso di soggiorno (che è connesso al rapporto di lavoro) dove il ricatto datoriale a lavorare senza DPI e misure di sicurezza può essere ancora più pressante. E il ricatto del datore di lavoro può tradursi per le lavoratrici migranti anche in molestia sessuale.

Le misure che verranno adottate in futuro come ad esempio, il passaporto vaccinale, rischiano di aumentare ulteriormente le discriminazioni sulla base della nazionalità e di aumentare ancora di più marginalità e ricattabilità dei migranti.

A fronte dei problemi economici e sociali emersi con la pandemia, sappiamo che la soluzione dovrebbe essere il famoso Recovery Fund, ovvero il finanziamento erogato dall'Europa ai vari Stati per mettere in campo delle misure strutturali per far fronte alla situazione.

Come saprete, le somme del Recovery verranno erogate solo dopo che ciascuno Stato avrà presentato all'Ecofin il c.d. Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (nome orribile). Per l'Italia, il Piano è oggi nelle mani di Draghi e del c.d. governo dei tecnici – anche se abbiamo visto che c'è stata una marcata spartizione politica delle cariche sia ministeriali che dei sottosegretari. In ogni caso, appare evidente che gli aspetti più propriamente economici Draghi li voglia gestire da sé assieme ai suoi collaboratori tecnici. Sappiamo però che i c.d. tecnici non sono mai neutri rispetto alle questioni ma celano sempre una sostanza politica perché la stessa tecnica non può non essere infusa del presupposti politici e ideologici di cui è portatore chi la mette in campo.

Ad esempio, i fondi che si vorrebbero mettere in campo per superare la disuguaglianza di genere sono ancora legati a strumenti capitalisti: gli sgravi fiscali per l'assunzione di lavoratrici si sostanziano in regali alle imprese; gli aiuti all'auto-imprenditorialità femminile rientrano sempre in uno schema di produttività capitalista che non appiana le disparità per tutte.

È una misura che rientra nella logica del debito perché, seppur a tasso molto basso, quelle somme dovranno essere restituite.

Proprio per questo temiamo che il Recovery Fund non sia altro che uno strumento di ristrutturazione capitalista e patriarcale, come sempre avviene ad ogni crisi del modello economico. Ma se così è si tratta soltanto di un accanimento terapeutico su un sistema che non solo è fallimentare, ma che ha causato il problema (ecologico, sanitario, economico, sociale, culturale) che ci ha portato qui.

Considerazioni simili possiamo fare sul c.d. Family Act, ossia la legge delega per l'adozione di “misure per il sostegno e la valorizzazione della famiglia”.

Il provvedimento prevede sicuramente delle misure utili come l'assegno mensile per le famiglie con figli, il congedo parentale obbligatorio e il congedo di paternità.

Ma se prima ci siamo chiesti “cosa si intende per lavoro” adesso dobbiamo chiederci “cosa si intende per famiglia”. Così come il sistema capitalista patriarcale considera lavoro solo quello che gli fa comodo, fa lo stesso quanto al concetto di famiglia:

Così fa anche il Family Act che di quella cultura è figlia: ne sono escluse tutte le famiglie che non rientrano in questo modello e nello schema della genitorialità cisgender eterosessuale. Esclude inoltre i migranti senza permesso di soggiorno.

E poi punta ancora sul lavoro da casa e sul lavoro flessibile per permettere la conciliazione del lavoro di cura con il lavoro non di cura, con tutte le criticità che questo comporta, come abbiamo visto prima.

Ma noi non vogliamo la conciliazione: vogliamo la socializzazione del lavoro di cura. Vogliamo il reddito di autodeterminazione. Non vogliamo un Recovery Fund appiattito sulle esigenze delle imprese: vogliamo una patrimoniale che possa operare una vera redistribuzione della ricchezza in favore delle categorie più fragili e delle soggettività più marginalizzate, fuori dalla retorica e dal ricatto della produttività.

Essenziali non sono quelle imprese che fanno furbescamente cambiato il codice ATECO per restare aperte in piena pandemia. Essenziali non sono le richieste di Confindustria. Essenziale non è il ricatto di non potersi sottrarre al lavoro nonostante il rischio per la salute.

Essenziale è il nostro lavoro non retribuito o svilito: se ci fermiamo noi si ferma il mondo.

Essenziali sono le nostre vite libere e autodeterminate: essenziale è la nostra lotta.  

** Pic Credit: Columna Ursula