Le città invisibili: dieci tesi contro il deserto che avanza.

12 / 12 / 2017

Pubblichiamo un documento di Partenope Ribelle, network di comitati, attivisti, realtà di base, amministratori locali e singoli cittadini che operano sull'area metropolitana di Napoli. Il testo è un contributo al dibattito che si è aperto sull'attuale fase politica che rischia, da qui a poco, di essere congestionata dal solito teatrino partitico della campagna elettorale.

1. La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni. Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.

Napoli è una città divisa. Il suo racconto, essendo il racconto di una città divisa, è diviso anch'esso. Esiste il racconto luminoso, inedito, della cosiddetta rinascita napoletana, dell'incremento dei flussi turistici, dell'arte, della cultura, della città riscoperta e sottratta alla sua razzializzazione stereotipica. Esiste però parallelamente il racconto oscuro della povertà che non arretra, anzi aumenta (come dimostra la lettura del rapporto Svimez 2017), delle periferie che subiscono gli effetti dei tagli alla spesa pubblica, del disastro ambientale, delle camorre. Luce ed ombra non si distribuiscono geometricamente sul territorio. Nelle pieghe illuminate del centro antico ad esempio si nascondono le ombre delle nuove frontiere invisibili di una città che si sviluppa sempre più a misura solo di chi se la può permettere. Gli abitanti di Napoli sono costretti in questa trappola a sparire o a scimmiottare se stessi, a diventare folklore, che è un'altra forma, forse peggiore, di razzializzazione. Intanto serpeggia anche qui, in questa città che qualcuno racconta come una enclave, il cancro devastante della guerra tra poveri, dell'odio del povero verso il più povero. Succede proprio qui, in una città che non ha nessun privilegio bianco da difendere e che nonostante ciò sembra stare cedendo a quell'intolleranza che sostituisce quei legami solidali che hanno sempre caratterizzato il tessuto sociale della città. Resistono però le luci di un immenso numero di realtà di base, di comitati, di presidi, che su ognuna delle più importanti battaglie sociali tengono alta una tensione che fa di Napoli un posto dove ancora la vita prova a dire l'ultima parola sul potere.

2. Nella mappa del tuo impero devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte.

La sfida delle città avviene ai confini dell'Impero. La confederazione delle città d'Europa ha senso secondo noi quindi se non si limita a discutere le leggi (o i trattati) dell'Impero, ma se rifiuta il meccanismo stesso della decisione imperiale. Eludere il campo di gioco, non riconoscerlo, sarebbe un errore che questa fase politica non ci perdonerebbe. Con questo spirito d'altra parte abbiamo scelto di occupare, in occasione delle scorse elezioni amministrative napoletane, con ciò che rappresenta la storia delle nostre realtà in movimento, le istituzioni più prossime della città. Siamo ancora convinti, infatti, che nella dismissione dell'autonomia dei comuni, nella sostituzione coatta degli stessi con dei meri organi di ragioneria e ratifica dei tagli e delle dismissioni, lo spazio della disobbedienza e della conflittualità sociali passi anche dalle città come luogo di contropotere. Con lo stesso spirito siamo convinti che solo attraverso un attacco sinergico che dalle città punta al vertice della catena di comando, un attacco mosso dalle realtà politiche conflittuali europee, accomunante da una discontinuità radicale nei confronti della religione socialdemocratica dell'austerità, si può effettivamente erodere le basi dell'Impero, torcere verso i popoli lo scettro della decisione. La sfida della città è d'altra parte la sfida della sovranità erosa verso il basso contro il sovranismo che comanda dall'alto. Il sovranismo parla la lingua della finanza, della banca centrale, del mercato, delle nostalgie nazionaliste. La sovranità delle città parla invece la lingua del neomunicipalismo, delle comunità, dei bisogni. Questa sfida non nega l'Impero e non guarda quindi alla Nazione come rifugio in cui ricondurre il vuoto di democrazia. La sfida delle città è una sfida di confederazione che revoca l'oggettività dei confini nazionali. Radicalmente li rifiuta. In questo senso diciamo la sfida delle città è una sfida europea perché non oppone ai Trattati dell'UE i confini della pace di Westfalia. L'Europa individua infatti l'orizzonte minimo all'interno del quale una presa di parola è possibile: è su questa scala che matura la decisione politica che poi impatta sui territori ed è, dunque, su questa scala che dovremo trovare gli strumenti collettivi per intervenire e far sentire la voce dei senza voce nel cuore della bestia. La resistenza deve essere commisurata all'attacco e individuare una geografia politica dei conflitti: è l'Europa che ce lo chiede.

3. Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge.

Da qualche tempo proprio i cantori epici dell'Europa ci dicono che la crisi è finita. Le percentuali del prodotto interno lordo, i numeri del reddito pro-capite e le statistiche di impiego e consumi sono la parola di Dio che conferma questa nuova litania del progresso. Se la crisi è finita, però, a Sud non ce ne siamo accorti. Sappiamo bene che quella minima percentuale di crescita non è altro che un numero drogato dalla crescita del nord. Sappiamo leggere la realtà oltre i numeri della governamentalità neoliberale europea, per i quali anche la ripresa serve a sostenere altra macelleria sociale. Ci ricordiamo bene, piuttosto, la geografia razzista del 2008 contro i maiali spendaccioni su cui doveva abbattersi l'austerità mitteleuropea. I PIIGS che erano i colpevoli del disastro, del debito che pesava sull'Europa dei ricchi, bianchi e responsabili, ora servono come complici del corporativismo europeo contro la barbarie che verrebbe da fuori, contro "l'invasione" migrante. Per cedere a questo corporativismo grottesco dovremmo fingere che la crescita del nostro paese fa arricchire tutti e non solo il produttivismo settentrionale. Dovremmo fingere che le sorti della nazione sono le nostre sorti. Dovremmo fingere che i capitali gonfi dell'imprenditoria meridionale non siano dannatamente lontani dalla nostra terra. Dovremmo credere che l'aumento di ricchezza sia automatica redistribuzione della stessa. Non è così e finché non sarà così continuate a considerarci terroni e terrone indisponibili all'ennesima messa in scena che racconta la ricchezza di altri.

4. Così la città ripete la sua vita uguale spostandosi in su e in giù sulla scacchiera vuota. Gli abitanti tornano a recitare le stesse scene con attori cambiati. Sola tra tutte le città dell'impero, Eutropia permane identica a se stessa.

Il terremoto dell'80 e la crisi dei rifiuti del 2008 sono l'eterno presente di Napoli. I debiti di quella stagione, le politiche scellerate che arricchirono gli affaristi del mattone e della munnezza presentano eternamente il loro conto. Un conto che non è composto solo dal disastro ambientale e dai danni sulla salute delle donne, degli uomini e dei bambini campani, ma anche da una cifra effettiva che la nostra città restituisce a chi ha speculato e allo Stato, complice di quei disastri. Una beffa questa che diviene l'esempio plastico della necessità di ricontrattare pubblicamente un debito pubblico che non hanno prodotto i cittadini che devono pagarlo.

La ragioneria dell'Impero non conosce alcun tempo verbale che non sia il presente: il passato del debito e il futuro della disperazione sociale non possono essere declinati. L'unica forma verbale è il presente del pareggio di bilancio. L'articolo 81 che ha cancellato con un colpo di spugna i principi di una Costituzione animata dalle spinte e dagli ideali di giustizia sociale dell'Italia partigiana. Il pareggio di bilancio viene prima delle persone e dei diritti, le norme contabili prima della giustizia. Se la politica è l'arte dell'immaginazione collettiva del possibile allora, a Napoli, la politica è un'arte impossibile. La forma di vita nella quale tutti siamo immersi in questo momento è quella di un vero e proprio debito di cittadinanza. Il rifiuto di questo assoggettamento è la prima battaglia ed è una battaglia della città contro lo stato. Dentro questa battaglia oggi Napoli ha l'occasione di federare tutti i comuni (soprattutto meridionali) in dissesto e di affrontare efficacemente l'annoso tema della crisi delle autonomie. Questa battaglia viene prima di ogni altra: invertire i nessi cause-effetto trasforma la politica in perenne contabilità delle miserie dell'esistente.

5. A ottanta miglia incontro al vento di maestro l'uomo raggiunge la città di Eufemia, dove i mercanti di sette nazioni convengono a ogni solstizio ed equinozio.

Sul teatro di queste macerie gli attori sono sempre gli stessi. Ci avviciniamo alle elezioni politiche italiane, elezioni nazionali in un'Europa in cui le nazioni moderne, le vecchie signore del continente, sono animate sempre più dalle spinte contrastanti del nazionalismo paranoico e dell'indipendentismo, delle cittadinanze incompiute e subalterne e della difesa dei privilegi bianchi, o del feticcio degli stessi. Qui da noi il presente ripropone un triste deja vù del passato recente, dimostrando ancora una volta quanto sia abissale lo spazio che divide i rappresentanti dai rappresentati e quanto siano lontani dal porsi il problema della rappresentanza parlamentare le espressioni della conflittualità reale che hanno animato questo paese negli ultimi due decenni. Tornano così le scorie umane dei governi Berlusconi, Prodi, Renzi, Gentiloni, che oggi si affacciano sullo spazio politico contendendosi la proposta della novità politica. Addirittura, per gli appassionati di archeologia politica personaggi come Antonio Bassolino impartiscono, sul pulpito della sinistra di quelli che non si faranno da parte mai, lezioni sul rinnovamento della classe dirigente. Di contro il Movimento 5 Stelle potrebbe scegliere i propri candidati a caso dall'elenco telefonico e avrebbe vita facile a dimostrare di essere la reale novità che sostituisce una casta completamente delegittimata, per altro sulla base di programmi scritti sugli umori di un paese allo sbando. Bisognerebbe ricordare che quella classe politica è delegittimata già perché decine di migliaia di persone, negli anni passati, la loro sfiducia la testimoniavano fuori dal parlamento mentre un manipolo di parlamentari corrotti rinnovava la fiducia al governo Berlusconi, votava la riforma universitaria o le riforme Fornero e Poletti sul lavoro. Quegli anni e quella conflittualità collettiva sono meno lontani di quanto l'accelerazione narrativa del presente vuole farci credere, ed in ogni caso gli effetti dei disastri di decenni di mala-politica giocata sulle vite delle persone, che fanno oggi dell'Italia un paese depresso e senza speranza, sono troppo vivi perché si possa pensare di riciclarsi così alla leggera. Proprio per questo, però, la partita che crediamo vada giocata non è quella dei giovani bravi e volenterosi contro il vecchiume della politica: la radicalizzazione del discorso politico oggi individua uno spazio da aggredire solo là dove si è in grado di orientare questa radicalità verso idee di emancipazione collettiva e non di guerra orizzontale tra poveri.

6. Ogni città, come Laudomia, ha al suo fianco un'altra città i cui abitanti si chiamano con gli stessi nomi: è la Laudomia dei morti, il cimitero.

La confederazione è un metodo, non è una soluzione. Bisogna fare molta attenzione alla retorica. Ciò che si confedera non sono spazi geografici, punti dello spazio individuati da coordinate di latitudine e di longitudine. Ciò che può confederarsi è ciò che, in quei territori, esiste e resiste. Ciò che costruisce barricate per opporsi al massacro. Perché si confederino città ribelli è necessario che ribellioni singolari si sviluppino e si moltiplichino sul tessuto metropolitano. Se a confederarsi non sono territori d'insorgenza, ma ceti politici, dirigenze accreditate, allora si sta confederando la città dei morti, non quella dei vivi. La confederazione delle città non è interessata alle isoipse della geografia fisica: essa costruisce alleanza sfrangiate tra quanti, in città, insorgono in nome della democrazia. Oggi la barbarie ci richiede, prima di tutto, di essere irriducibili ad essa, radicali nel modo in cui ne rifiutiamo le imposizioni. All'interno di questo spazio di irriducibilità e di conflitto ognuno riconosce i suoi: ci alleiamo con chi ha costruito barricate dal nostro stesso lato, non nella speranza che, alleandoci, troveremo il coraggio di costruire barricate.

7, Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone: e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra i due deserti.

In questo senso i beni comuni restano la più preziosa indicazione per navigare sul presente. Recuperare, prima di tutto, il significato proprio con cui la nozione stessa si è imposta nulla storia, sottrarla alle mani che negli anni l'hanno privata della sua potentissima carica sovversiva. Bene comune era ciò che veniva difeso dalla predazione, ciò che una comunità giudicava non alienabile (dunque non deturpabile, non privatizzabile, non vendibile). Ciò che faceva di una risorsa un bene comune era il fatto che una comunità fosse disponibile a perimetrare il suo spazio con le trincee della guerriglia. Nelle lotte a difesa dell'ambiente, contro la devastazione, contro le grandi opere, contro i presidi militari, contro i commissariamenti: lì abbiamo visto tratteggiato il profilo dei beni comuni. I beni comuni hanno cominciato a perdersi quando sono diventati la lista della spesa che qualche giurista illuminato si proponeva di scrivere per spiegare alla gente quali erano i bisogni necessari per cui doveva lottare. La difesa dei beni comuni non ha a che fare con il neocostituzionalismo perché le verità dei beni comuni non stanno in un libro: l'ansia normativa è, anzi, così terribilmente perdente contro la capacità che ha il neoliberismo di produrre normazione funzionale agli espropri e al saccheggio, che rischia di essere una strategia terribilmente inefficace. I beni comuni stanno sulla linea di frontiera in cui combatte chi si oppone al deserto e chi vorrebbe imporre la desertificazione.

8. Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m'avevano annunciato le cose che cercavo: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in selle con le cosce nude e i gambali sui polpacci.

Non si può pensare la città se non si pensa al femminile. La città, in questo senso, è ciò che si oppone alla cittadinanza. La cittadinanza è il privilegio sempre revocabile del maschio bianco, del maschio cattolico, del maschio eterosessuale, del maschio padrone. Dove le donne hanno ottenuto diritto alla cittadinanza, quella è sempre stata cittadinanza modellata sul maschile: votare come gli uomini, votare per uomini, accettare tempi della politica modellati sugli uomini. Il femminile, però, ha sempre saputo opporsi a questo stato di minorità senza mai smettere di essere minoranza. Anche gli uomini più illuminati si sono sempre atteggiati a tribuni della plebe, intendendo la loro come la lotta universale che avrebbe riscattato tutti. Le donne combattono in quanto donne, perché vedono che il potere insiste sui loro corpi a partire da quella differenza. Più di centomila persone, il 25 novembre, hanno messo i loro corpi in gioco in nome della prospettiva femminista. Pensare la città al femminile vuol dire imparare che il femminismo non è un tema: è la cornice all'interno del quale va riscritta la democrazia facendola finita per sempre con la neutralità della maggioranza. Il punto non è allargare abusivamente lo spazio della casella maschile per far entrare, ai lati, la vita femminile, la vita omosessuale, la vita migrante, la vita differente. Il punto è far esplodere l'unità di misura della politica e riscrivere lo spazio delle città a partire da una differenza senza centro e senza periferie.

9. La città sognata conteneva lui giovane: a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c'è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù: lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi.

Tutto questo, ci rendiamo conto, ha poco a che fare con la sinistra. Ma forse, a costo di bestemmiare, ci concediamo il diritto di dire che noi non abbiamo alcun 'bisogno di sinistra'. Non crediamo che la politica sia orientata come la segnaletica stradale. Non crediamo, soprattutto, che esistano spazi vuoti. Il "popolo della sinistra" che avrebbe un disperato bisogno di trovare qualcuno a cui dare mandato, se esiste, possiamo almeno dire che non lo conosciamo. Conosciamo invece chi ogni giorno sente sulla propria pelle le ferite delle ingiustizie, della sofferenza sociale, dell'emarginazione, del razzismo e prova a costruire rimedi collettivi contro quelle ferite. Se questo patrimonio sfrangiato, multiforme, spesso sotterraneo si colloca a sinistra lo fa probabilmente suo malgrado, senza porsi il problema di quale posizione gli calzi meglio, ma costruendo a partire dalle pratiche una posizione che è quella del basso contro l'alto, di chi è oppresso contro chi opprime. Vogliamo partire da questo pieno, nelle difficoltà che incontra – ma senza utilizzare queste difficoltà come autoassoluzione psicanalitica – e non dalla ricerca del Soggetto che deve rappresentare il popolo che manca.

10. Da questi dati è possibile dedurre un'immagine della Berenice futura, che ti avvicinerà alla conoscenza del vero più d'ogni notizia sulla città quale oggi si mostra. Sempre che tu tenga conto di ciò che sto per dirti: nel seme della città dei giusti sta nascosta a sua volta una semenza maligna.

Se questa è la sfida, Napoli, con tutto il carico simbolico che in questo momento le pesa sulla testa, può rappresentare un laboratorio privilegiato di preparazione alla battaglia. Napoli oggi non è una città qualunque gettata sul planisfero. Ciò che di migliore Napoli esprime, lo esprime quando sa essere avamposto di resistenza a tratti impermeabile al peggio che il nostro presente produce. Lo esprime quando decide di non comportarsi da capitale del Regno, contrattando al ribasso con il governo per qualche privilegio e una norma ad-hoc per salvare la città, ma sceglie di allearsi con le altre città sorelle per rivendicare giustizia collettiva. Lo esprime anche quando decidere sperimentare forme inedite di governo del territorio. Quando manda a casa la partitocrazia paramafiosa nelle urne e quando, con la stessa determinazione, i politici che hanno depredato il nostro territorio li caccia nelle piazze, nelle strade, opponendo corpi a manganelli, partecipazione a dispositivi securitari, orgoglio ribelle alla lunga mano del Ministero degli Interni. Tutto questo rappresenta l'energia potenziale di Napoli. Ma la partita bisogna giocarsela veramente, le buone pratiche diffonderle sul serio, il diritto a resistere difenderlo sul serio. Per questa sfida noi ci siamo. Vogliamo esserci, anzi, al di là di ogni steccato, al di là di ogni rifugio nell'identità d'organizzazione: crediamo sia il momento di essere coraggiosi e, insieme, responsabili. Di fronte a noi ci sono tempi bui, sta arrivando la tempesta e dovremo saperci prendere con mano con tutti quelli che ad essa si oppongono. Trovare forza in chi è accanto a noi. Difendere la città, prima di tutto. Tutto il resto verrà dopo e in bocca al lupo a chi vuole affrontare prima quello, ma oggi il tema è essere all'altezza di ciò che la storia chiede al nostro territorio.