Le quattro giornate di Amburgo

Un contributo di Agire nella Crisi dopo le mobilitazioni contro il G20

12 / 7 / 2017

Le orecchie hanno fatto fatica ad abituarsi di nuovo ai rumori normali di una città europea. Tornati dalle “quattro giornate di Amburgo”, sembra strano non sentire il suono incessante delle eliche degli elicotteri sopra i palazzi, le sirene assordanti delle camionette della polizia e delle forze speciali, lo stridere delle gomme sull’asfalto. Una serie di suoni che non fanno parte della quotidianità della vita metropolitana, ma richiamano piuttosto una situazione da stato di guerra e assedio. Non c’è parola più calzante per descrivere lo svolgimento del vertice del G20 che quella di “guerra”, da non intendere soltanto nel senso militare e muscolare del termine, ma nella sua accezione più ampia e metaforica di tensione costante, di diffidenza e di fronteggiamento. Sia all’interno dei palazzi del potere che all’esterno l’aria che si è respirata ha assunto, secondo sfumature diverse, un sapore bellico. Poco importa che la stampa si sia concentrata sulla presenza di Ivanka Trump al tavolo dei leader o sulla polemica contro le “fake news” intavolata da Putin, Trump e  Duda: dietro l’ossessione mediatica per i dettagli c’è il fallimento politico e sociale dei contenuti del G20 e del suo modello. Come militanti che hanno partecipato attivamente alle giornate di contestazione del vertice, vogliamo provare a dare una lettura di questo fallimento concentrandoci, appunto, sul “dentro” e sul “fuori” del G20.

 

Dentro il G20. Il nuovo “disordine” globale

 

Come noto, la stampa più liberale e progressista ha incentrato la sua restituzione della discussione del vertice sulla “scheggia impazzita” Trump: sarebbe il nuovo Presidente degli Stati Uniti con la sua opzione populista e nazionalista a minacciare l’intesa tra i “venti potenti”. Se da una parte il Tycoon ha indubbiamente ostacolato la mediazione su libero mercato e sul clima, dall’altra è innegabile che le cause dell’inutilità del vertice non vanno ricercate (solo) nelle “trasgressioni” di Trump, in quanto è saltato il ruolo che l’Europa, nella fattispecie la Germania, voleva assumere. La decisione di accogliere il G20 ad Amburgo è stata pensata strategicamente per rimettere in piedi la leadership europea nel tentativo di legittimare nuovamente il progetto-Europa con una funzione trainante a livello mondiale, occupando il vuoto lasciato dagli Stati Uniti di Trump.

Il nuovo ordine globale che sarebbe dovuto uscire dalla due giorni di discussione, sarebbe stato la sintesi di diversi interessi, pesi e contrappesi rappresentati dalle vecchie élites neoliberali (Merkel, Macron, Rajoy, Gentiloni/Renzi, ecc…), dalle nuove –ben mascherate da un’operazione chirurgica di restyling in chiave populista – potenze che si rifanno a nazionalismo, protezionismo ed in generale alle identità chiuse (Stati Uniti, gruppo Visegrad, Russia) e dai Paesi asiatici. Nelle intenzioni dell’Europa, uscita per il momento vincitrice sui populismi reazionari alle ultime scadenze elettorali, questa sintesi sarebbe dovuta essere suo compito, dalla questione delle guerre in Medio Oriente e in Ucraina fino ai trattati di libero scambio, la lotta al terrore e il cambiamento climatico.

Quello che è sfuggito ai leader del Vecchio Continente, però, è che nella frammentazione storica delle cosiddette potenze mondiali la guerra per l’egemonia non è mai prerogativa di un solo attore; e, men che meno, gli Stati Uniti o la Russia hanno ripiegato per una strategia volta al mero interesse nazionale o alla politica interna. That’s globalization, baby, nella quale ogni Paese non può assolutamente rifiutarsi di agire sulla scena internazionale per garantire la valorizzazione del capitale di cui rappresenta gli interessi. Pertanto, Trump non ha mai voluto ritirarsi a casa propria, bensì ha visto nel G20 la possibilità di estendere in altre forme e con altri termini l’egemonia americana. La presa di posizione unanime contro la Corea del Nord, il bilaterale con Putin sulla cessazione del fuoco in Siria senza passare per gli altri interlocutori, l’inserimento della clausola sui combustibili fossili in aperta contraddizione con gli accordi di Parigi e la possibilità di ricorrere a “strumenti di difesa nazionale” nel contesto del libero commercio sono lì a dimostrare tutto questo.

La tensione è stata fortissima, le divergenze e i punti sui quali non è stata trovata mediazione sono molti, a partire dalla questione delle migrazioni di massa. Insomma, niente accordo tra populismi sovranisti e neoliberalismo. Il solo desiderio è stato velleità di chi pensava di tornare in auge e guadagnare un rinnovato consenso da parte della cittadinanza, facendo vedere che solo le forze moderate liberali possono negoziare tra interessi diversi e arrivare alla mediazione favorevole a tutti. I passi indietro e lo stallo risultati dal vertice rompono completamente il futuro a cui stavano guardando le nostre vecchie élites. Il G20 non consegna altro che una immagine del mondo presente caratterizzata da un “disordine globale” che non trova né equilibrio né un credibile asse di mediazione e composizione degli interessi dominanti.

L’unico argomento su cui si è data convergenza unanime è stata la sicurezza. In un mondo in cui quest’ultima è paradigma che include ogni singolo problema, la lotta al terrore non ha parlato soltanto di prevenzione degli attacchi terroristici: ha riguardato i confini, il cyberspionaggio e le nuove tecnologie di guerra. Del resto, se attraverso il paradigma della sicurezza vengono sacrificate le libertà personali e collettive, non c’è da sorprendersi di fronte al modello di gestione dell'ordine pubblico dispiegato contro i manifestanti. Su questo torneremo più avanti.

 

Dentro il G20. Che fine farà Merkel?

 

Nel quadro brevemente descritto sopra, bisogna soffermarsi sul ruolo della Cancelliera Angela Merkel. La Germania, sotto la cui influenza e per il cui profitto si sono costruiti i pilastri dell’Unione Europea, sta guidando la campagna per la rifondazione del Vecchio Continente a più velocità basato sulla centralizzazione della decisione e sull'intensificazione dell’imposizione politica ordoliberale. Merkel incarna questa missione a trazione tedesca sulla base della sua provvidenziale capacità (molto cristiana) di unire ogni posizione sotto il “grande centro”. Possiamo riconoscere questa funzione anche nella scelta di Amburgo come luogo del G20: Merkel voleva dimostrare non solo di saper mediare con i leader, ma anche con la città che tradizionalmente esprime maggiore conflittualità nei confronti dei governi e che è apertamente schierata “a sinistra”. In questo modo avrebbe portato a casa “due piccioni con una fava”. Da una parte, avrebbe fatto risplendere le virtù dello Stato di diritto e della Costituzione tedesca che garantiscono il dissenso (è impensabile che non avesse previsto proteste), al contrario dei governi autoritari di Erdogan, Putin, Trump. Dall’altra, avrebbe dato prova di saper contenere questo stesso dissenso rendendolo compatibile con il gioco del pluralismo democraticistico. Inoltre, la città anseatica ben presenta le caratteristiche della metropoli nordeuropea ricca e benestante nella quale vivono forti i valori delle società liberali come la tolleranza e il multiculturalismo, uniti però ad un’etica del lavoro e ad un’economia fondata sul terzo settore e sulla logistica portuale. Questa mossa era forse stata pensata anche per gli effetti positivi che avrebbe potuto avere in vista delle elezioni tedesche del prossimo autunno. Inutile dire che il gioco le è esploso interamente tra le mani a seguito dell’eccedenza delle manifestazioni moltitudinarie, facendo crollare parallelamente il revival del progetto europeo.

Staremo a vedere quanto le giornate di Amburgo peseranno sulle elezioni federali di ottobre. Il dato certo, con cui nessuno dei leader vuole fare i conti, è però l’irruzione sulla scena pubblica di un terzo attore non considerato: i movimenti sociali.

 

Fuori dal G20. Quella moltitudine tra il locale e il globale

 

I movimenti sociali sono stati l’ospite indesiderato che ha letteralmente fatto saltare la tavola imbandita dei “venti grandi”. Fin dal corteo “Welcome to Hell” di giovedì sera è stata chiaro come la gestione e il contenimento del dissenso avessero fatto male i conti, sottostimando l’incisività del lungo processo di mobilitazione curato dalle realtà politiche tedesche e amburghesi nonché il loro radicamento locale e la loro capacità di relazione con le altre realtà di movimento attive nello scenario europeo. La potenza espressa dall’organizzazione del contro-vertice ha messo in scacco tutti gli apparati che volevano impedire le azioni più radicali o determinanti.

Venerdì mattina, in occasione delle azioni e dei blocchi programmati in vari punti nevralgici per i flussi produttivi della metropoli, la capillarità degli attivisti ha ecceduto qualsiasi tattica della polizia, che non riusciva a garantire le famigerate kettle e le successive traduzioni nelle carceri preventive. Il confronto netto della polizia con i manifestanti, che con i propri corpi spingevano e resistevano alle cariche, si è prolungato per tutta la mattinata riuscendo a rallentare e bloccare il traffico cittadino. La posticipazione degli inizi della discussione, e il blocco del porto, è la prova dell’efficacia delle azioni, che hanno saputo adeguare le pratiche alle condizioni oggettive e soggettive presenti sul campo. Questa compresenza di pratiche e di forme di organizzazione diverse è saltata all’occhio in particolare durante il venerdì pomeriggio, quando trentamila persone si sono concentrate in uno stesso punto per prendere d’assedio il luogo dove era prevista la cena di gala, la Philarmonie. Qui abbiamo potuto vedere in azione una vera moltitudine di soggetti eterogenei, nel loro discorso politico e nelle azioni di piazza, ma allo stesso tempo unita da un obiettivo comune: rovinare la festa ai potenti che si volevano imporre sulla città. Era impossibile non cogliere la straordinaria immagine nella quale i militanti vestiti di nero condividevano la piazza con altri vestiti di blu e rosso; le bandiere femministe e queer si confondevano con quelle dei comitati ambientali e i volti travisati delle prime file; i militanti curdi marciavano fianco a fianco alle assemblee di quartiere cantando gli slogan delle tifoserie del St. Pauli. Uno spaccato della società metropolitana che non si piega ai valori liberali come avrebbe voluto Merkel: al contrario, esprime tutta la sua forza costituente, liberante e di movimento contro ogni riduzione ad una forma di vita pacificata.

Effettivamente, il lungo anno di preparazione delle mobilitazioni contro il G20 ha dato l’opportunità di far convergere percorsi e identità politiche diverse grazie al contenitore largo che lo stesso vertice offriva. La presenza simultanea di tutti i leader del mondo, infatti, ha offerto a qualsiasi sensibilità e orientamento politico di movimento di ritrovare temi come l’antirazzismo, l’antisessismo, l’opposizione all’austerità e ai regimi autoritari, i diritti del lavoro e quelli legati all’ambiente. Ma la convergenza tra le diverse anime della moltitudine si è data grazie al profondo lavoro di coalizione che si è radicato a partire da percorsi veri, quotidiani e risalenti ad una longeva tradizione di lotta. E’ qui che emerge il piano locale come determinante fondamentale di quanto si è dato ad Amburgo, un’anomalia all’interno del panorama dei movimenti europei e tedeschi. Il tessuto sociale della metropoli, infatti, è permeato dall’attivismo, dalla partecipazione della cittadinanza alle esperienze di auto-organizzazione, dalle relazioni aperte e fondate sulla reciprocità tra tanti e diversi. Questo sostrato, unito alle strutture di movimento che hanno offerto la piattaforma organizzativa del contro-vertice, sono stati la ricetta per il successo della mobilitazione, la quale si è diffusa per interi strati e quartieri della società amburghese. La coalizione tra pezzi eterogenei non si è fermata ad un richiamo generale alla protesta contro il G20 in quanto tale. Per questo motivo le pratiche più radicali di conflitto sono state compatibili con quelle più pacifiche, con l’effetto di produrre un quadro dai colori diversi ma facenti parte di un unico schema. L’obiettivo della zona rossa non  è stato il frutto solamente di una scelta dei movimenti, ma anche di una volontà dichiarata di tanti abitanti che hanno vissuto l’imposizione del G20, ed in suoi effetti sulle forme di vita urbane, come una limitazione degli spostamenti, delle relazioni, della socialità.

Il consenso che si è sviluppato attorno al conflitto è stato conseguenza del contenuto delle lotte territoriali, non di una valutazione a priori sulla forma delle pratiche. E tutto ciò è stato possibile perché il contesto sociale si è “sincronizzato” grazie al lavoro di migliaia di attivisti che hanno saputo interagire con l’eredità politico-cultrale della città.

Quando le comunità territoriali esprimono la capacità di tradurre i legami sociali in progetto politico, il rapporto tra processo ed evento non subisce strozzature o sovradeterminazioni. Per questo la considerazione del contesto locale è essenziale, perché ci restituisce la visione di una parte maggioritaria della città che ha assunto nelle sue forme di vita la contrarietà al G20 e a ciò che rappresenta. Nessuna pratica di piazza negli eventi previsti durante il giorno è stata imposta, perché la relazione tra soggettività non si dava sul piano della competizione, bensì su quello della composizione plurale.

A riprova dell’anomalia di Amburgo, basti pensare al coinvolgimento del corpo sociale di interi quartieri, come St. Pauli e Schanzeviertel (dove risiede il Rote Flora), nella mobilitazione. Il vicinato solidale ai manifestanti ha aperto la settimana precedente alla due giorni aprendo le proprie case e le sedi delle proprie associazioni ai manifestanti, esponendo striscioni contro il G20 dai balconi, assicurando sostegno, assistenza e riparo ai manifestanti in fuga dalla polizia durante i cortei. La presenza del vertice è stata vissuta in tutto e per tutto come un’imposizione politica, una forzatura economica per le spese pubbliche e sociale per la gentrificazione che ha causato. Questo piano del discorso politico è detonato assieme a quello delle varie lotte specifiche mobilitando migliaia di cittadini contro l’occupazione diurna e serale dei vari quartieri da parte della polizia. Non per niente, in seguito alla brutale repressione il sabato pomeriggio quella stessa moltitudine si è moltiplicata invadendo le strade di Amburgo con più di 100.000 corpi che hanno sfidato la paura, il securitarismo, l’arroganza dei “grandi”. Il meticciato metropolitano ha consegnato un messaggio di potenza a chi lo voleva in silenzio, ha fatto vedere che era compatto di fronte agli attacchi della controparte. Ha imposto la sua presenza laddove era indesiderata dicendo chiaramente che la contrapposizione tra neoliberali e populisti è falsa, che la vera alternativa e soluzione alla crisi mondiale si trovano nelle iniziative di autorganizzazione e di conquista dei diritti presenti nel basso ventre della società. Se le autorità pubbliche e i leader mondiali hanno diretto una guerra ai movimenti, questi hanno saputa vincerla interferendo con le attività del vertice e imponendo la propria voce alla sua agenda autoreferenziale. Non è secondario che il Ministro dell'Interno abbia dichiarato che la Germania non ospiterà più summit mondiali. 

Fuori dal G20. La guerra al dissenso e lo Stato di polizia

 

Sicuramente i movimenti tedeschi hanno portato a casa una vittoria nelle “Quattro giornate”. Ma non possiamo sottovalutare l’estensione della macchina repressiva dello Stato e le azioni di polizia durante tutti questi giorni. Quando abbiamo descritto Amburgo come una città presa d’assedio non ci riferivamo ai 19.000 agenti impiegati per contenere e reprimere i vari appuntamenti di movimento. L’affidamento della gestione di piazza al Capo della polizia di Amburgo Harmut Dudde è stato fin da subito il segno del pugno di ferro che avrebbero tenuto le autorità. Con una modalità a metà tra le tecniche italiane di polizia e l’attitudine più decisamente nordeuropea, Dudde ha coordinato azioni di sgombero preventivo (nonostante l’autorizzazione legale) dei campeggi degli attivisti, fermi, arresti, cariche a piedi, cariche con idranti, irruzioni in case private. Le operazioni della polizia sono state sclerotiche nel tentativo di appagare le critiche dell’opinione pubblica, inizialmente aspra verso la dura repressione preventiva della domenica precedente al vertice e, successivamente, spietata per l’incapacità di contenere il dissenso nelle giornate di giovedì e venerdì. Ciononostante, la strategia di spezzare i cortei e di separarne le parti non ha funzionato a causa di quel lavoro di coalizione di cui parlavamo, che ha creato complicità tra i vari pezzi del corteo. Inoltre, la folle rincorsa all’ordine ha fatto reagire in maniera indiscriminata i reparti antisommossa, che hanno investito passanti, malmenato giornalisti e abitanti del quartiere, condotto pesanti cariche che hanno provocato diversi feriti gravi, tuttora in condizioni critiche. Il tutto applicando il dispositivo della “legalità derogabile”, quello spazio nel quale la sicurezza pubblica ed i suoi attori si autolegittimano bypassando garanzie formali e disposti costituzionali.

Le maglie della repressione, a fronte della loro inefficacia del venerdì, hanno anche assunto i tratti del vero regime autoritario, come ben rappresentano i rastrellamenti, armi automatiche alla mano, degli uomini delle forze speciali antiterrorismo. Sabato sera è andata in scena una spasmodica caccia allo straniero durante la quale gli agenti hanno rincorso, accerchiato, perquisito e arrestato tantissimi attivisti italiani, francesi e spagnoli nel tentativo di scaricare la colpa dei disordini agli invasori venuti da fuori. L’assenza di capi d’accusa formali e la giustificazione degli arresti sulla possibile partecipazione agli eventi di protesta sono inequivocabilmente i segni distintivi di un regime autoritario che sostituisce lo Stato di diritto con il processo alle intenzioni. La presunta minaccia per l’ordine pubblico limita preventivamente la libertà di manifestazione, di radunarsi pubblicamente e di movimento intaccando i diritti personali; anche gli stessi accordi di Schengen sono stati sospesi e la loro interruzione proseguirà nei prossimi giorni su decisione del Ministro degli Interni. Il partito liberale FDK ha invocato la persecuzione degli attivisti di estrema sinistra. Il governo tedesco ha annunciato di voler intensificare gli strumenti per il controllo dei movimenti di estrema sinistra, sacrificando una parte del proprio bilancio. Insomma, una vera e propria guerra ai movimenti è stata protratta e viene pianificata dal governo tedesco, sulla scia di quanto sta già avvenendo in molti Paesi europei, tra cui l’Italia con il pacchetto Minniti. La torsione dello Stato di diritto in uno Stato di polizia è dunque compiuta sotto l’egida della guerra al dissenso, trattato alla stregua di qualsiasi elemento che destabilizza l’equilibrio politico e la sicurezza pubblica. Il discorso politico subisce un’inversione di causa/effetto perché identifica il problema nei manifestanti e non nella limitazione della libertà di dissenso. Questo è il compimento dello stato di emergenza permanente, che giustifica la guerra dall’alto contro il basso per la conservazione dei blocchi di potere

 

Portare Amburgo in Europa?

 

Le mobilitazioni di Amburgo possono dare spunto per diverse interessanti ipotesi di lavoro per l’immediato futuro. In primo luogo, queste hanno consentito ai movimenti sociali di riprendersi un piano pubblico, riconformandosi come opzione politica reale in una fase in cui il dibattito “a sinistra” è stato egemonizzato esclusivamente da una possibile alternativa elettorale all’attuale governance, come dimostrano in particolare il caso francese con Melenchon e quello inglese con Corbyn. In secondo luogo, il livello inedito di contrapposizione ai dispositivi del potere restituisce un senso di possibilità reale rispetto al fatto che – anche nella transizione post-democratica – i movimenti siano in grado di rigenerarsi. Quanto questa cosa possa incidere in chiave di costruzione di uno spazio di movimento europeo è tutto da indagare, anche perché, di fatto, il peso numerico delle realtà internazionali ad Amburgo non è stata la prerogativa determinante dell’evento. Sarebbe velleitario pensare di riprodurre in termini meccanicistici quanto accaduto sulle sponde dell’Elba in altri contesti, ma di certo va raccolta l’indicazione che non è possibile costruire mobilitazioni che siano all’altezza della fase senza processi di attivazione territoriale. La sfida vera, che vale il futuro, sta nell’espandere lo spazio d’azione di questi legami sociali, nel confederare i tanti conflitti che nell’Europa contemporanea agiscono localmente o su singoli piani del rapporto produttivo e riproduttivo del capitale. Una sfida ambiziosa quanto necessaria perché, come dimostra il G20 di Amburgo, le crepe e le tensioni che attraversano il campo avversario producono disequilibri all'interno dei quali i movimenti e le realtà di auto-organizzazione sociale possono ritrovare la capacità di un'azione efficace e restituire credibilità e attualità ad una prospettiva di trasformazione radicale dell'esistente.

 

Agire Nella Crisi