L’eccezione che conferma la regola

Note e riflessioni sulla manifestazione di ieri a Parigi e sullo stato di emergenza

30 / 11 / 2015

Cominciamo da ieri, da Place de la République. A Parigi, come in tante città del pianeta, i movimenti sociali e le opposizioni al COP21 (XXI Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) hanno invaso le strade con marce e mobilitazioni partecipatissime.
A Parigi, città destinata prima del 13 Novembre ad essere centrale nella geografia delle mobilitazioni di ieri perché sede dell’imminente vertice, ieri è accaduto comunque  un fatto straordinario, potente, che dà speranza. Questo ci pare il punto di partenza.

Nel pieno di quel coprifuoco imposto a chi dissente chiamato état d’urgence, circa 4500  manifestanti hanno scelto di scendere in strada nonostante i divieti, hanno attraversato la piazza ermeticamente isolata dal resto della città da un dispiego di circa 85000 unità del corpo di Polizia. Non è un segnale di poco conto. Indica di sicuro una disponibilità collettiva a rompere l’ordine di discorso che strumentalizza la paura per occludere le libertà.  A farlo in nome di urgenze sociali ed ecologiche che non possono essere derubricate dall’agenda dei movimenti a causa di assurde prescrizioni alle piazze. La crisi climatica è qui ed ora e se non si agisce collettivamente per sollevare la questione è a rischio la sopravvivenza degli ecosistemi, del mondo come lo abbiamo conosciuto. Se ci fosse uno ”stato d’urgenza” da dichiarare questo sarebbe certamente il climate change ed è chiaro che gli attivisti che ieri hanno manifestato a Parigi avevano esattamente questa certezza ad animare la determinazione della piazza.

Ieri, bisogna essere onesti, non era affatto semplice violare i divieti. Ogni passo in più verso i cordoni di polizia era un passo che sanciva la volontà di non rispettare l’eccezione, ed era pure però un segno di indisponibilità a leggere i fatti del 13 Novembre come vorrebbero i governi europei. E quando la tua città piange centoquaranta morti innocenti, le violazioni delle retoriche dominanti sono un’operazione di verità che rischia l’isolamento, la marginalizzazione.

Eppure è successo e questo forse è il segno che c’è, a Parigi ma non solo, lo spazio per generare una prassi della rottura del divieto in grado di deflagrare questa assurda coltre di retorica securitaria che recita datemi la vostra libertà e vi restituiremo pace e sicurezza. Un mantra che ha incantato la Francia  e che si sta espandendo in tutta Europa con una impressionante rapidità.

La gestione dell’ordine pubblico messa in campo in piazza a Parigi ieri pomeriggio aveva di fatti già il sapore di un esperimento in questo senso. L’utilizzo incessante degli spray al peperoncino sulla folla, colpevole semplicemente di “stare” in strada invece che a casa propria, le cariche continue volte  a disperdere caparbiamente il concentramento, sono alcuni dispositivi utilizzati dalle forze dell’ordine francesi per sfiancare i manifestanti, ridurne il numero per poi alla fine accerchiare gli ultimi rimasti e chiudere la giornata con quasi trecento fermi. Un messaggio chiaro. Chi disobbedisce rischia e se ne assume la responsabilità.

Così la piazza di ieri ci restituisce l’immagine plastica  dello spazio che ha l’esercizio di potere coercitivo totalmente arbitrario se autorizzato dall’eccezione.

Il COP21 e soprattutto i movimenti di opposizione ad esso non hanno nulla a che fare con lo Stato d’emergenza, è fin troppo ovvio. Lo stato di emergenza dovrebbe riguardare il pericolo di subire nuovi attentati ed invece rapidamente finisce per legittimare assurde incursioni a casa di attivisti della sinistra radicale,  sequestri, sgomberi, intimidazioni, violenze. Si pensi ai 58 manifestanti identificati e denunciati dalla Polizia, due dei quali in libertà vigilata, in seguito alla manifestazione tenutasi in solidarietà ai migranti domenica 22 Novembre,  o ancora, al coprifuoco dichiarato nella banlieue di Conakry. Come se lo stato cercasse vendetta e l’obiettivo diventa tutto ciò che non “contiene”.

D’altra parte in Italia sappiamo bene come si possono utilizzare i dispositivi di controllo e di repressione del “terrorismo” spalmandoli efficacemente su qualunque forma di opposizione popolare, frontale, collettiva ad un progetto scelerato che ad un certo punto arriva a scontrarsi con i cordoni di polizia. Quei cordoni, quelle camionette, quei presidi di occupazione dei territori scelti per questa o quella grande opera di devastazione, diventano simbolicamente il corpo dello Stato. Chi attenta a quel corpo è, secondo un uso del lemma arbitrario e strumentale messo in opera dalla magistratura, un terrorista. Non solo. In realtà è a partire dall’undici settembre 2001 che in occidente tutti i programmi di prevenzione e contrasto di quella che in gergo securitario si chiama “radicalizzazione” propongono maglie sufficientemente larghe da comprendere agilmente anche le forme del dissenso. Non importa se queste si organizzano e si propongono nella società attraverso linguaggi, pratiche, azioni assolutamente opposte alla pratica di reclutamento clandestino tipica delle organizzazioni terroristiche. Non importa se la stessa dimensione pubblica dovrebbe di per sé smentire i teoremi, perché si sa, quando si maneggia la paura collettiva, la ragionevolezza non ha più quasi nessun ruolo nella formazione della pubblica opinione.

Torniamo a Parigi.  Lo stato d’emergenza approvato da Hollande dopo gli attentati  è un dispositivo contenuto in una legge votata il 3 aprile 1955, e che fino ad ora non aveva mai visto attuazione sull’insieme del territorio francese. Tra i vari, esso consente al prefetto di ciascun dipartimento di vietare la circolazione o permanenza di persone nei luoghi e alle ore stabilite tramite ordinanza, autorizza le autorità amministrative menzionate nell’articolo 8 ad eseguire perquisizioni domiciliari di giorno e di notte, e vieta ogni forma di aggregazione pubblica o privata che possa costituire fonte di disordine. Facilita in ultima istanza l’assegnazione della libertà vigilata a coloro i quali violino le decisioni trasmesse tramite ordinanza dalle suddette autorità. 

L’”état d’urgence” è pratica in realtà da sempre connaturata, incorporata e complementare all’esercizio ordinario del potere sovrano, anche se la Francia non ne aveva mai conosciuto un utilizzo così “complessivo”. Esso si presenta storicamente nella forma dell’eccezione alla norma costituita dall’ordinamento giuridico, conferendo allo Stato un potere potenzialmente illimitato. Si tratta di un’eccedenza del politico sul giuridico, che pone come legale ogni intervento ritenuto necessario dall’istituzione statale. La bussola che nella modernità ha orientato il suo utilizzo è la salvaguardia della ragione di stato a ridosso di qualunque potenziale o effettivo rischio della sua messa in crisi sotto i colpi sferrati da qualunque forma di destabilizzazione. La modernità mostra una opacizzazione sistematica del potere direttamente proporzionale alla necessità di mettere a riparo la stessa Ragion di stato e, in questo senso, l’eccezione come forma straordinaria di governo non è un’anomalia contemporanea.

La storia del potere statuale moderno è una storia di concatenate eccezioni che hanno progressivamente costruito lo spazio extra-normativo per nuove stabilizzazioni. Vero. Eppure siamo convinti che l’utilizzo dello stato di emergenza oggi assuma dei tratti inediti,  legati alla crisi radicale del concetto stesso di ragion di stato come  punto di equilibrio tra ethos e kratos, e alla sua sostituzione con un coacervo di poteri amministrativi ed economici che in era neo-liberale utilizzano costantemente lo spazio extra-legale per afferrare e sedimentare i propri interessi privati. L’eccezione è un paradigma sistematico che non sembra più affannarsi per la stabilizzazione in nessuno dei casi del suo utilizzo eclatante. Piuttosto esso mira a farsi permanente e a normalizzare tale morfologia del potere straordinario. Gli accidenti diventano delle occasioni di universalità della pratica governamentale sperimentata nella crisi e così lentamente l’occlusione degli spazi del dissenso (o di semplice “eccedenza” anche individuale alle pratiche normative) si attesta su una fase di costante emergenza che giustifica qualunque azione di contenimento. Basti pensare, restando solo sul tema della sicurezza anche se gli esempi sarebbero davvero infiniti, al caso britannico e a quanto, a partire dagli attentati del 2001 negli Stati Uniti, lo stato ha organizzato dei programmi di controllo che entrano nei luoghi della formazione (a partire della scuola primaria!!) e monitorano stabilmente il linguaggio e le attitudini dei bambini, in modo da poter arginare i segnali di possibile “radicalizzazione”. Questa pedagogia dai tratti autoritari, che consente agli insegnanti di chiamare la polizia ogni volta che un ragazzino dice o fa qualcosa considerato fuori posto, non solo non ha trovato opposizione nella pubblica opinione in nome del mantra della sicurezza, ma non è un programma straordinario legato a eventi straordinari. E’ piuttosto una prassi, fondata sull’individuazione di alcuni stigma sociali che mette a sistema proprio grazie al procedimento retorico che dalla universalizzazione e generalizzazione delle emergenze, la normalizzazione delle sue contromisure straordinarie.

Ecco perché, in questo senso l’indisponibilità a rispettare i divieti a cui abbiamo assistito ieri a Parigi diventa importantissima. Essa è una ribellione sana a un dispositivo che dietro la retorica eccezionale mira a trasformare la Francia in una democrazia dell’emergenza, ove l’esecutivo ha poteri discrezionali e l’esercizio dell’autorità è assolutamente arbitrario.

Sono stati gli attivisti e le attiviste che hanno attraversato le strade di Parigi in questi giorni, ad aver costituito l’unico limite opponibile a tale arbitrarietà, attraverso l’esercizio libero del dissenso, nelle forme conflittuali ma collettive e pubbliche che da sempre riconosciamo come efficaci. Probabilmente, nel caso di ieri, non si è trattato neppure di un’opposizione di principio allo stato di emergenza, quanto  piuttosto di pratiche che esprimono desideri e istanze politiche che, al contrario, alcuno stato di emergenza potrà mai arginare. Una indisponibilità radicale e profonda che dovremmo contribuire a rigenerare e riprodurre ovunque. Sotto il cartello delle coalizioni dei “buoni” che lottano “la barbarie” del terrorismo, si nascondono cinici interessi politici ed economici che utilizzano le vittime di Parigi e lo stato di guerra in cui siamo precipitati dal 13 Novembre, per attentare alla nostre  libertà.  Dire chiaramente che non siamo disposti ad alcun sacrificio per alimentare la giostra degli interessi dei governi che hanno prodotto e costruito meticolosamente la destabilizzazione odierna che ha generato, tra le altre cose, anche l’avanzata e la diffusione della fascinazione jihadista.

Si può avere paura. La paura è legittima quando succedono fatti come quello della notte parigina, ma non bisogna regalare la gestione di un sentimento così privato a quella macchina infernale che lo trasformerà in alibi per la costruzione di nuove gabbie e di nuovi confini. Bisogna restare con lo sguardo fisso a terra.  Bisogna guardarle quelle scarpe che ricoprivano ieri Place de la République e dirsi che quelle scarpe, poste là come immagine di indisponibilità a farsi silenziare, come beffa nei confronti di una piazza in assetto di guerra, sono le nostre scarpe, sono le scarpe di una generazione che rifiuta di tornare a casa, che rifiuta il coprifuoco perché innanzitutto  non riconosce di essere in guerra.

La guerra, ammesso che questo sia il nome più adatto alla barbarie di questo tempo, non sarà mai nostra e ogni divieto impostoci in nome della sua perpetuazione vedrà, come accaduto ieri, l’assedio di migliaia di corpi pronti a denunciare che la democrazia dell’emergenza ha costruito un’emergenza democratica alla quale bisogna porre rimedio prima che sia troppo tardi e prima di finire  a rendere tutti omaggio collettivo alle domeniche delle salme, quella in cui all’ora dell’aperitivo non si odono fucilate e c’è solo il gas esilarante a presidiare le strade.