L'epilogo (del maschio italico e altre riflessioni)

7 / 2 / 2011

Se il tema è la sessualità sicuramente non si parla di politica. Anzi, semmai è la politica, quella seria, ad essere messa da parte. Quando si parla di sesso, di converso, occorre dare la parola alle donne, di certo gli uomini, siano essi “di partito” o “di movimento”, hanno cose più importanti a cui pensare. Se questo è un luogo comune, dotato di una straordinaria potenza pratica, vale la pena provarci, da maschio, a prender parola. Proverò a farlo, consapevole della debolezza del mio discorso, non fosse altro perché poco nutrito dalla riflessione collettiva (e ogni discorso che non vive nella carne relazionale del comune è sempre un discorso fragile). E cercherò di non scomodare troppo Foucault, per riempire il vuoto o semplicemente per essere all'altezza dell'accademia de noiantri.

Primo punto: Berlusconi e le notti di Arcore non affermano la rinnovata potenza del maschio italiano (e di potere), semmai testimoniano il carattere virulento di un epilogo. Indubbiamente nella vicenda arcoriana c'è un maschio anziano, “ferito” dall'operazione alla prostata e dalla fisiologica impotenza senile. Più che D'Avanzo bisognerebbe leggere Everyman  (o L'animale morente) del grande Roth per capirci qualcosa! Altrettanto, nella scena cyborg della “pompetta” di Mr B. (metafora sessuale dell'«effetto leva» dei derivati nei mercati finanziari) c'è qualcosa che va oltre il delirio di onnipotenza del «flaccido» raìs in declino. C'è una fottuta paura. Paura di invecchiare, certo. Di più e meglio, una paura, generalizzata e meno situata generazionalmente, di non farcela, di non essere all'altezza della “sfida sportiva”. È interessante riflettere, al di fuori degli specialismi (gli andrologi e gli psicologi italiani se ne occupano con insistenza da almeno 5-6 anni), sulla diffusione del Viagra e del Cialis tra i giovanissimi in età compresa tra i 16 e i 30. Viagra che si aggiunge a cocaina (la cocaina da sola, in “caduta” ansiosa, farebbe disastri), a garanzia di una super-erezione con tanto di euforia e impeto cardiaco: “sono Dio”, il pensiero che accompagna la scopata, occasionale o meno. L'ossessione prestazionale è il punto di arrivo della riflessione (?) del maschio sulla nuova scena del desiderio femminile. Laddove il desiderio femminile inventa nuove condotte, diventa discorso e rompe l'ordine simbolico patriarcale, il maschio decodifica: “devo essere imbattibile, altrimenti sono cazzi, ogni fallimento mi costa la carriera amorosa”. Una sorta di violenta sessualizzazione dell'orizzonte produttivo contemporaneo: la performance come norma, il successo come imperativo. Peccato, però, che ci passa di mezzo un corpo, meglio, un incontro tra i corpi. È questo incontro, con la sua esteriore e ruvida contingenza, a fare problema, ad essere respinto con forza. Il Viagra non risolve una patologia, ma consegna alla necessità l'esito delle proprie scopate. Ad assumere massimo rilievo non è più la combinazione (sia essa affettiva o puramente sessuale, senza alcuna gerarchia, intendiamoci!), ma ciò che l'individuo nella sua solitudine può fare per rispondere adeguatamente all'imperativo prestazionale. Il passaggio dall'adeguatezza al “numero da circo” è breve, i confini si confondono. Ma è sempre l'individuo, irrelato e competitivo (oltre che spaventato e ansioso), che conquista la scena, distruggendo quella sessuale, sempre esteriore, contingente, relazionale. Ciò che spaventa è la combinazione prima che si sia fatta abitudine (intendendo il corpo come un rapporto differenziale tra incontro e abitudine) dunque meglio evitare brutte sorprese, preferibile la pompetta o l'additivo. E mentre viene sconfitta la contingenza si afferma la rivincita del maschio ferito: super-erezione in risposta ad un desiderio, quello femminile, che si è fatto parola e sperimentazione. Non si tratta, in questo caso, di esprimere dal punto di vista maschile un moralismo speculare a quello di Di Gregorio & co, non è di certo la protesi macchinica o la variazione chimica a fare problema (almeno per quanto mi riguarda), ma l'uso individualistico e risentito che se ne fa. Anche quando si parla di sostanze psico-attive non ho mai avuto dubbi, il gioco vale se si riesce a fare esperienza di sé come singolarità, puro processo produttivo e relazionale, il resto è torsione identitaria e compulsiva: “sono sempre Io, con il mio fottuto piacere”. È possibile per i maschi perdere di vista la prestazione e fare esperienza del desiderio, nominandolo? Questo mi sembra il problema che abbiamo di fronte tutti, anche chi non si è applicato pompette e non organizza il Bunga bunga.

Secondo punto: le notti di Arcore ci consegnano o riconfermano la miseria dell'immaginario sessuale dei maschi italiani. Confesso, sono cresciuto negli anni Ottanta e guardavo Italia 1. Sì, non ho letto il Capitolo VI inedito del I Libro del Capitale da infante, me ne vorranno a male gli operaisti più raffinati, ma tant'è. Italia 1 era Bim Bum Bam, i Puffi alle otto di sera, ma anche e soprattutto Drive in la domenica sera, un vero must, Supercar o Automan (primi e goffi esperimenti cyborg), i film di Banfi in seconda serata. Insomma, quando ho letto le ricostruzioni minuziose delle serate di Arcore ho colto, nello pochezza, qualcosa di assolutamente familiare: le supertettone del Drive in vestite da poliziotte, Banfi che fa la puntura “di prova” alla sua infermiera con perizoma mozzafiato. Un catalogo di immagini che ci hanno bombardato per decenni trasformate in esperienza reale, attraverso la formula esotica del Bunga bunga. Viene davvero da ridere a pensare che il premier non riesca ad affrancarsi dalla commedia sexy anni Settanta, così distante dalla raffinatezza, che pure potere e denaro potrebbero garantirgli, delle scene di Kubrick e del suo Eyes wide shut! Ma forse – ed è questa la cosa che conta ‒ il premier è l'espressione più matura dell'immaginario sessuale dei maschietti italici. Pecoreccio e turismo sessuale, con minorenni, ciò che non fa scandalo, e che sicuramente non smuove Bertone & co (che di queste cose se ne intendono), è ciò che segna i comportamenti e la miseria di milioni di (maschi) italiani. Non è così? la faccio facile? E perché allora oltre allo sberleffo o all'approfondimento voyeristico, alla solidarietà politically correct nei confronti delle donne o allo sdegno moralistico in salsa patriarcale (“mia figlia non te la prendi”, cartello esibito nella prima manifestazione del Pd dopo la riesplosione del Rubygate), i maschi non sono riusciti a dire o a fare nient'altro? Su questo penso che le donne e femministe (mi riferisco a Dominijanni o a Muraro, ma non solo) che hanno scritto in questi giorni – in aperta critica dell'appello Se non ora, quando? ‒ abbiano ragione da vendere: ad essere afasici sono in primo luogo gli uomini e non le donne. Un'afasia radicata, a copertura di miserie a volte ancora più profonde: come leggere diversamente il ritiro spirituale e cattolico di Marrazzo al seguito dell'inchiesta che lo ha visto protagonista assieme ad un gruppo di trans, quasi tutti rigorosamente uccisi nei mesi successivi, senza gli onori delle cronache? Ma se l'afasia dei maschi di partito è segno di ipocrisia e di grettezza, quella che riguarda i movimenti, “al maschile”, non è meno inquietante. Eppure l'afasia, oltre ad essere un blocco insopportabile, può anche essere occasione di invenzione linguistica. Costruire un nuovo immaginario sessuale non è compito esclusivamente femminile, è un problema che riguarda le lotte biopolitiche del nostro tempo! E non capire questa cosa è segno di debolezza, non c'è retorica della serietà (della lotta di classe) che tenga.

Conclusione provvisoria. Da dove si potrebbe partire? Intanto dalla piazza, dal 30 novembre, dal 14 dicembre, dalle rivolte autunnali, da quelle romane a quelle londinesi o tunisine o egiziane. Nel tumulto che ci ha visto protagonisti abbiamo ricominciato a fare esperienza del corpo come potenza e come relazione. E quando dico potenza la intendo nelle sue variazioni. La potenza non è (solo) coraggio o, peggio, tensione testosteronica, ma è anche paura, consapevolezza della propria fragilità: un eroismo sobrio e impersonale, quello delle passioni comuni, che la rivolta porta con sé. Lieta inquietudine della contingenza, dei corpi e della loro composizione, sotto gli scudi e tra i lacrimogeni che tolgono il respiro, sopra i binari e nell'occupazione della facoltà. Saremo in grado di trasformare questa rinnovata esperienza in discorso sul desiderio e sulla sessualità? Sapremo nominare i sentieri di una ricerca pratica tutta da fare? Questo non lo so, intanto, forse, non è esercizio ozioso, o vanitoso, prendere parola.