Pubblichiamo un interessante contributo di Marco Bascetta sulla strage di Monaco, pubblicato su Il Manifesto dello scorso 24 luglio. In questi due giorni sono accaduti altri fatti di sangue (l'attacco alla Chiesa di Rouen, l'attentato kamikaze ad Ansbach, nei pressi di Berlino, la strage di Kabul) legati, in forme diverse, al terrore fondamentalista. L'articolo ci aiuta a riflettere su come fodamentalismo, securitarismo e xenofobia si auto-alimentino all'interno di un panorama in cui la guerra, diffusa e permanente, sta radicalmente mutando nelle sue forme e nei sui effetti sula vita di miliardi di persone.
Cosa avesse davvero in testa il
giovane attentatore di Monaco di Baviera non lo sapremo mai. La conclusione
suicida della sua avventura non lascia spazio che al gioco delle illazioni
analitiche. Ma in fondo non è poi così rilevante.Quello
che è certo è che, come il diciassettenne accoltellatore afghano (forse
pachistano) del treno di Wuerzburg, rappresentava nella sua persona la
complessità, l’indistricabile intreccio e i fragili equilibri delle società
europee in cui viviamo.
Iraniano di origine, musulmano, orgogliosamente tedesco, a quanto sembra,
nemico giurato di non si sa quali stranieri, vendicatore di non si sa quali
torti l’uno; profugo da un paese in guerra, adottato e improvvisato guerriero
del Califfato, l’altro, ci hanno mostrato entrambi, senza troppi complimenti,
cosa accade quando queste vite multiple e burrascose entrano, per le più
diverse ragioni, in cortocircuito.
Qualcosa di non molto diverso da quanto accade nel più ampio contesto della
vita collettiva: aggressioni, pogrom, sprezzo o soppressione dei diritti,
legislazioni di emergenza, identità fittizie che digrignano i denti additando
questo o quel nemico. La democrazia in cortocircuito genera la stessa
irrazionalità omicida che muove l’azione del singolo giustiziere. Il
risentimento per i torti subiti (reali o immaginari) colpisce alla cieca,
ispirandosi a quanto il mercato ideologico offre in quel momento. Diversi
governi europei non fanno molto di meglio.
L’odio, covato nell’ombra, dal giovane pistolero di Monaco non sembrerebbe poi
così diverso da quello dei ragazzi americani autori della strage di Colombine e
di tanti altri imprevedibili sterminatori scolastici. Sono il tempo e il
contesto a essere diversi. Nel clima che ci circonda, pur non essendo in nessun
modo riconducibile all’Is, anche il pluriomicida di Monaco fa la sua parte: ha
origini islamiche e uccide a casaccio. Quanto basta per rinfocolare l’odio
xenofobo.
Ogni tempo e ogni società dispongono di una rappresentazione «privilegiata» del
Male che esercita sui «perdenti», le vittime e gli emarginati una potente forza
di attrazione. A queste figure, così diverse tra loro ma accomunate da un
sentimento di sconfitta che esige di essere riscattato, Hans Magnus
Enzensberger aveva dedicato alcuni anni fa uno scritto illuminante, intitolato,
appunto «Il perdente radicale».
Oggi, nel mondo e soprattutto in Europa, questa rappresentazione ha preso forma
nel Califfato e nelle sue ramificazioni occulte. E non certo senza fondamento.
Ma questo conferisce allo Stato islamico un formidabile vantaggio: quello di
incarnare lo «spirito di vendetta» in generale, il quale non conosce confini
territoriali né organigrammi organizzativi. Quella che potrebbe apparire una
limitazione, e cioè la fede islamica interpretata nella maniera più rigida, in
realtà non è che un’identità fittizia e provvisoria a disposizione di chiunque
intenda portare a termine la propria personale «vendetta». Ai vertici del
Califfato nessuno lo ignora ed è cinica consuetudine non andare troppo per il
sottile. Del resto, come sappiamo, i «precetti della fede» incidono ben poco
sui costumi e le abitudini di molti che si scoprono e si proclamano combattenti
dello Stato islamico in Occidente. Questo fenomeno consente al Califfato e ai
suoi organi di propaganda di intestarsi «a posteriori» anche quelle esplosioni
di violenza che intrattengono un assai labile (a volte inesistente) legame con
la sua dottrina. Quel che conta è, infatti, che il moltiplicarsi dei
cortocircuiti individuali determini un grande cortocircuito sociale. A fronte
di questa strategia le misure adottate dai governi europei rientrano in una
sorta di decalogo dell’impotenza.
Gli «obiettivi sensibili» sono ormai un’espressione priva di qualunque senso.
Se vi è qualcosa che non è mai stato toccato, dopo l’irripetibile attacco alle
torri gemelle, sono proprio i luoghi e i simboli del potere politico ed
economico. Che si tratti di cellule organizzate o di giustizieri improvvisati,
l’obiettivo resta colpire nel mucchio. Cosicché tutti e ciascuno possano
considerarsi potenziali vittime del terrorismo.
L’unica forma di protezione possibile è impedire che le nostre società si
imbarbariscano, finendo col condividere la patologia vendicativa che anima gli
autori delle stragi.