L’imprevedibilità del mare.

Su Sardine, politicismi stroncati e una sfida che nessuno sa cogliere

26 / 12 / 2019

Riceviamo da un nostro lettore e pubblichiamo un commento e alcuni interrogativi sulla manifestazione delle Sardine tenutasi a Roma lo scorso 14 dicembre.

Sono passate quasi due settimane dalla manifestazione nazionale delle Sardine a Roma. In realtà non so se è giusto chiamarla così, forse sarebbe meglio trovare appellativi più moderni, ma il lessico dei “vecchi” militanti a volte rimane un po’ limitato.

Mi sono approcciato a quella giornata mosso dalla più banale delle motivazioni: la curiosità. E come me – credo – migliaia di altre persone. Prendo l’autobus che ci porta a Roma accompagnato da un mio collega, uno dei pochi con cui riesco ancora a parlare di politica sul posto di lavoro, nonostante abbiamo età e biografie completamente diverse. Lui nei centri sociali ci andava solo a fare serata, quando i sabati non offrivano nulla di meglio. Io in quei posti ci sono nato, cresciuto e pasciuto: a pane, birre e assemblee, per citare la frase di un vecchio compagno romano che non vedo ormai da tanti anni.

Conosco poca gente di quelle salite sull’autobus, e non so se la cosa sia un bene o un male. Spesso proprio negli sguardi rassicuranti e complici delle persone fidate si trovavano le forze per le imprese storiche di alcune trasferte romane, avvenute in anni passati. Tutto sommato il viaggio è piacevole e riesco a conversare con molte più persone di quanto immaginassi all’inizio, quando mi sentivo sopraffatto dalla diffidenza.

Di “truppe cammellate” di Pd e Cgil francamente non ne è ho viste molte, ma forse perché dalle mie parti – uno dei tanti, troppi “feudi rossi” ormai saldamente in mano alla destra – a questi signori non sono rimaste né truppe né cammelli. Ho rincontrato anche una compagna che non vedevo da anni, abbiamo scambiato alcune battute e mi ha detto che non va a una manifestazione a Roma dal 15 ottobre 2011: il resto della conversazione meglio non raccontarlo.

Arrivati in piazza San Giovanni ci si sente un po’ spaesati, soprattutto per chi – come me – è abituato ad arrivare in quella piazza dopo aver percorso almeno qualche chilometro di corteo nel centro della Urbis Aeternae. Ma l’atmosfera non è brutta, anzi: l’entusiasmo è palpabile, le persone sembrano realmente convinte di poter frenare questo flusso della storia che corre in senso reazionario, impetuoso quanto inquietante. Parlo con una signora sulla sessantina, mi racconta di essere stata una militante della storica sede del Pci di Villa Gordiani, di aver fatto a botte con i fascisti nelle periferie romane, di sentirsi orfana di un partito di sinistra realmente di massa. «Ora le racconto del 7 aprile e di quanto il Pci fosse una merda» ho pensato per un attimo, ma poi ho glissato perdendomi nel suo racconto appassionato dei tempi che furono.

Non solo nostalgia, ma anche tanti giovani che del Pci e dei partiti di massa non ricordano neppure gli echi. Non so se sono gli stessi che stiamo vedendo negli scioperi per il clima, ma senza dubbio è quella componente che sta genuinamente trasformando il modo di essere dei “movimenti”; forse sono loro che stanno realmente facendo il lavoro della “vecchia tapa”, senza che i “grandi” se ne stiano accorgendo. Speriamo sia davvero così.

L’oggetto delle attenzioni dei più è senza dubbio Matteo Salvini: è lui che incarna quella “politica dell’odio” che i presenti vorrebbero rigettare e cancellare. Sia chiaro, sul concetto di “odio” bisognerebbe aprirci un capitolo a parte perché io, ad esempio, voglio sentirmi in diritto di odiare il mio datore di lavoro, quelli che si arricchiscono mettendo i poveri gli uni contro gli altri reinventandosi una retorica “nazionalista” , quelli che inquinano e che da 5 anni non riescono a firmare neppure uno straccio di accordo sul clima, per farci estinguere almeno un po’ più tardi del previsto. Ma quello che mi sembra emergere in questa piazza non è un concetto asettico di “odio”: è mirato, antifascista, antirazzista; forse un po’ ingenuo, ma di sicuro genuino.

Qualcuno, tra i tanti opinionisti di movimento scatenatisi in queste settimane, ha fatto riferimento a una sorta di reiterazione dell’antiberlusconismo, mettendo in guardia dalle proteste ad personam e dalla loro capacità di fagocitare qualsiasi altro istinto di mobilitazione sociale. Tutto quasi vero, o quantomeno lo è stato nella seconda Repubblica, ma qui girotondi e popoli viola non c’entrano nulla, qui la posta in gioco non è circoscritta all’Italia o a un politico che flirtava organicamente con il malaffare. Qui stiamo parlando di un pendolo della storia che ha virato fortemente a destra, e non lo ha fatto solo per colpa della sinistra che non è stata in grado di fare la sinistra, ma perché al capitalismo globale fa comodo mantenere l’establishment sociale emerso dalla crisi rafforzando la propria postura autoritaria, razzista e patriarcale.

Per questa ragione, i fenomeni di massa non vanno mai sottovalutati, soprattutto quando riescono a far emergere un discorso dichiaratamente ostile alla deriva autoritaria. Possiamo analizzarli, scomporli, ricomporli, valutare se possono essere in grado di trasformarsi, di diventare veri e proprio movimenti. Ma non possiamo e non dobbiamo mai prenderci beffa di chi scende in piazza, solo perché riteniamo che Mattia Santori, sedicente leader delle Sardine, sia una testa di cazzo.

È innegabile che dietro le Sardine ci sia un’operazione politicista, questo lo sanno anche i muri oramai. Un’operazione nata un po’ per caso, che ha avuto la furbizia di usare bene la rete, sia in senso di cyberspazio sia di reti sociali reali. E questo ce ne accorgiamo non tanto perché Santori balbetta sul Decreto Salvini (che poi i decreti sarebbero due e sono anche diventati legge, purtroppo) o lancia un happening a Bologna con il chiaro intento di fare un endorsement collettivo a Stefano Bonaccini, ma perché ha scientemente scelto di blindare la sua creatura. Se c’è qualcosa che connota ontologicamente i movimenti è proprio l’autodeterminazione di uno spazio pubblico, che si manifesta essenzialmente nel carattere aperto delle assemblee, locali o territoriali che siano. Santori, o chi per lui, sceglie accuratamente di non percorrere questa strada, di ancorare le Sardine ai dettami della pre-politica, di usarle solamente come massa di manovra. Per farne cosa non si sa, e probabilmente non lo sa neppure lui, o attende sornione la tanto attesa “fase 3”, quella successiva alle elezioni emiliano-romagnole.

Qualcuno può pensare che sia solo una differenza semantica, quella tra riunione e assemblea, qualcosa di talmente sottile da sfumarsi nei meandri del superfluo. Ma le cose sottili talvolta sono taglienti, e in questa differenza c’è tutta la debolezza del politicismo, quando si scontra con la realtà. Chiariamoci, nelle piazze delle Sardine non c’è nulla di rivoluzionario. Ma c’è una disponibilità a schierarsi contro l’ideologia reazionaria che è qualcosa in più di semplice opinionismo.

Chi ha frequentato le piazze in questi ultimi anni, quantomeno da quella di Macerata dopo la tentata strage di Traini, sa benissimo che quella delle Sardine non è stata la prima mobilitazione di massa contro il populismo xenofobo: poco più di un anno fa – sempre a Roma – c’è stata quella degli Indivisibili, poi le diverse manifestazioni organizzate da Majorino a Milano, e probabilmente qualcos’altro che ora mi sfugge. Manifestazioni diverse tra loro, con obiettivi spesso divergenti; ma che hanno in comune lo stesso humus culturale, la stessa molla che è in grado di mobilitare persone, di disatomizzarle e farle sentire meno sole contro quelle che ritengono ingiustizie. È qualcosa di primordiale, ma allo stesso tempo di potente e assolutamente non scontato per la fase che stiamo vivendo. Certo, mancano i cosiddetti “temi sociali”, ma il compito di chi ha una visione complessiva dovrebbe essere proprio quello di annidare il dubbio in chi si mobilita: il razzismo non è solo l’odio vomitato da Salvini e dai suoi fans, ma è assenza di reddito e diritti, inclusione differenziale, attacco al Welfare.

Chi è in grado di farlo? Di certo non chi fa prediche e vittimismo dall’alto del suo “zero virgola”. Di certo non Mattia Santori – o chi per lui, lo ripetiamo – che si ferma al politicismo. Lui sceglie consapevolmente di non organizzare questa disponibilità, lui vorrebbe solo dirigerla. Ma l’eccedenza – che, per carità, non è quella di un 14 dicembre di 9 anni fa, ma riguarda comunque la rottura di una routine – è quella cosa che per antonomasia non si dirige. Sardine o non Sardine, qualcuno è in grado di porsi all’altezza di questa sfida? Qualcuno è in grado di tuffarsi in questo mare e surfare sulle onde della sua imprevedibilità?