Riflessioni sulla sentenza di appello sul G8 di Genova 2001

L'incomprimibile resistenza dell'essere

9 / 10 / 2009

La procura generale aveva chiesto condanne aumentate del doppio per tutti. 208 anni per 25 persone. Trasformando tutte le posizioni in “devastazione e saccheggio” si sarebbero evitate prescrizioni, in vista per coloro le quali condanne in primo grado erano state inflitte sulla base dei reati di resistenza, lesioni, danneggiamento. Oltre al fatto tecnico, un fatto politico ovviamente. Che sta tutto nella volontà, da parte di questi giudici accusatori, di mantenere e rafforzare l’impianto punitivo nei confronti di chi è stato scelto come capro espiatorio per i fatti di Genova, ma appesantito su un punto: la negazione, piena, di qualsiasi “attenuante”, derivata dalla violenza esercitata, indiscriminatamente a Genova dai corpi dello Stato. Ancor più, con questo intento, si puntava a separare completamente i fatti l’uno dall’altro: la Diaz dagli scontri di piazza, Bolzaneto dal massacro del lungomare, le cariche al corteo del Carlini dalla resistenza dei manifestanti. Come dire che nessuna giustificazione, nessuna implicazione ambientale, può consentire di violare la legge.

La sentenza di oggi non ha assunto questa impostazione. Le dieci pesantissime condanne certo, aumentano gli anni di galera a persone che sono accusate di aver danneggiato “cose”, e non vite umane. E’ nello stesso solco tracciato dal primo grado, lo conferma e carica ancora di più il peso della sanzione. E’ un esempio, questa parte del giudizio, dell’assurdità di una impugnazione del codice penale come fosse il vangelo ( diciamolo pure ai giustizialisti democratici che circolano in questo periodo ), escludendo circostanze, contesti e soprattutto conseguenze: i neonazisti che hanno ammazzato di botte Nicola Tommasoli a Verona, hanno preso meno. Danneggiare cose, dopo questa sentenza, può essere come uccidere. Una assurdità evidente, che tralaltro risiede dal primo momento all’interno della scelta del reato ascritto agli imputati: “devastazione e saccheggio”.

Ma nella seconda parte della sentenza, quella che riguarda direttamente altre 15 posizioni, non solo si resta nel solco tracciato dal primo grado, e cioè quello di attribuire ai manifestanti di Via Tolemaide la scriminante prevista dall’art. 4, quella cioè relativa all’illegittimità delle cariche al corteo del Carlini, ma anche aggiungendo attenuanti  che “prevalgono” sulle aggravanti, consentendo quindi la prescrizione del reato. Prescrizione che significa anche materialmente la cancellazione del reato, e quindi annulla gli effetti di pericolose recidive.  Anche questa, come la decisione di aggravare le pene ai manifestanti accusati di devastazione, è una scelta politica. Ma come possiamo “usare” una sentenza come questa? Che cosa dunque rappresenta? Ovvio, la prima cosa che uno può pensare, ed è legittimo e giusto, è che lo Stato non solo non processerà mai sé stesso, in particolare nella forma dei suoi corpi separati che gestiscono il monopolio dell’uso della forza, ciò non è mai avvenuto né per stragi, né per altre incredibili nefandezze, ma anche non sarà mai disposto a rinunciare a vendette contro coloro che mettano in discussione questo principio.

Quelli che pensavano che commissioni parlamentari, tribunali nazionali e sovranazionali potessero essere la risposta alla violenza statuale di Genova, sbagliavano. La ragione dell’assoluzione di De Gennaro, dei vertici della polizia, del non processo per l’omicidio di Carlo sta tutta lì, nell’impossibilità di vedere lo stato che processa sé stesso. Poi, gli stessi giudici che danno 15 anni per l’accusa di aver danneggiato qualcosa, decidono di mandare in prescrizione quelli che invece sono accusati di aver resistito in Via Tolemaide. Perché? Sono schizofrenici dissociati, o si sono trovati in una contraddizione enorme? Io credo in questa seconda ipotesi, e non perché qui siano giudicati comportamenti “radicali” da una parte e “moderati” dall’altra.

I tentativi di rinchiudere la disobbedienza, che in Via Tolemaide ha esercitato il suo diritto di resistenza nei confronti dell’attacco dei carabinieri, a mero comportamento “criminoso”, non hanno funzionato. Ci hanno provato, e testimonianza ne siano le richieste della Procura Generale per questo appello, ma quell’articolo 4, l’llegittimità delle cariche, l’ha impedito. Anzi, l’aver legato i comportamenti illegali di massa a quella situazione, ha obbligato il giudice a riconoscere, formalmente e de facto, lo spazio politico che quel corteo a Genova ha conquistato. E non solo. La diversità di atteggiamento dei giudici è frutto, abbiamo detto, di un dato politico. Ma, fatta salva la completa non processabilità di ogni imputato di quel maledetto processo, al di là dei reati ascritti dall’accusa, poco provati e sanzionati comunque in maniera vergognosa, vi è un dato politico anche dal punto di vista dei movimenti da riconoscere.

La scelta di stare nel movimento, e non sopra, a fianco, a lato, o altrove, è stata sacrosanta e giusta. La decisione del corteo del Carlini di essere una parte e non un’alternativa al Genoa Social Forum, pur conservando la propria autonomia, si è rivelata fondamentale. L’aver saputo costruire un’interpretazione dello spazio e delle forme del conflitto che potessero mantenere in piedi le relazioni tra tanti e diversi, non è stata una condizione di limitazione o di riduzione, ma l’unico modo per impedire che il diritto di resistere alla violenza dello stato non venisse sepolto con anni di galera tra il consenso generale. Questa sentenza dice queste cose, anche. E credo che possa servire anche per il presente e forse per il prossimo futuro.

La radicalità si misura nel livello di crisi che noi riusciamo a provocare allo Stato, impedendo che ci isoli, che ci faccia apparire come dei criminali, e che infine mandi in crisi noi. Rimane, e questo per chiunque sia garantista e democratico, lo schifo delle condanne. Ma anche la lezione delle prescrizioni.

Da questo dobbiamo, ognuno come crede, trovare le nostre strade e metterci di nuovo in cammino.