L'ipocrisia del governo nella gestione dei fenomeni migratori

26 / 3 / 2023

A un mese dalla strage di Cutro riprendiamo una riflessione del Centro Sociale Pedro di Padova. Domenica 26 marzo, molte città del Nord-Est hanno risposto all’appello della Rete 26 febbraio, per tenere ancora viva la memoria e la lotta politica.

La necessità di ripopolare le strade e le piazze non nasce unicamente in segno di cordoglio e solidarietà con i familiari delle vittime, ma dalla necessità di prendere posizione di fronte a quanto accaduto: una vera e propria strage di Stato.

Quanto avvenuto a febbraio non costituisce un fatto isolato, né una tragedia inaspettata: è un problema sistemico, volutamente creato dalle istituzioni europee, oltre che nazionali.

 La presenza della nave colma di persone era stata già segnalata da Frontex, l’agenzia europea che “difende” i confini esterni e che respinge ogni giorno con violenza chi cerca di oltrepassarli.

Nonostante la segnalazione, ogni azione di soccorso è stata ritardata. La decisione di non agire ha condannato a morte 86 persone, a cui ogni giorno si somma il numero di corpi che il mare ci restituisce.

Al mancato intervento sulle coste italiane, si aggiunge quello avvenuto in seguito: le salme dei defunti verranno condotte al cimitero di Borgo Panigale, lasciando inascoltate le voci dei parenti che ne hanno richiesto il rimpatrio immediato.

Tuttavia le vittime, come spesso si ripete, non si limitano esclusivamente a chi non ce la fa, ma anche a chi riesce a raggiungere il suolo italiano: coloro che non hanno incontrato la morte in mare, devono ora sopravvivere affidandosi a quelle stesse istituzioni che hanno scelto di farli morire.

 Chi arriva e riesce a rimanere in Italia, sfuggito a respingimenti e rimpatri, è sottoposto al ricatto del tortuoso rilascio dei documenti che abbandona le persone nel baratro della vulnerabilità, della precarietà e dello sfruttamento lavorativo, non lasciando spazio ad un reale riscatto personale e sociale.  

L’approccio securitario e la politica repressiva e mortifera avviati dai Decreti Sicurezza Salvini, ha prevalso ancora. Tali Decreti, risalenti all’ottobre 2018, puntavano infatti a limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale e prevedevano sanzioni elevate per i/le comandanti che avessero violato tale provvedimento. Sulla stessa linea, si muoveva il governo Giallo-Verde facendo leva sulla chiusura dei porti nonostante non esistessero leggi e normative che ne vietassero l'apertura: le navi-soccorso venivano bloccate e lo sbarco delle persone non veniva autorizzato.

 Nonostante le varie modifiche avvenute negli anni, sempre a titolo emergenziale e per questioni di ordine pubblico, le condizioni di operabilità delle navi-soccorso rimangono altamente limitate. 

L’anno 2023 è stato inaugurato dal nuovo Governo con un Decreto-legge, detto anche “codice di condotta delle ONG”, che tra le condizioni pone l’obbligo di raggiungere il porto assegnato “tempestivamente” e “senza ritardo” impedendo in questo modo che la stessa nave possa compiere più soccorsi in caso di necessità.

  Come ha reagito il governo a quanto successo a Crotone? “In Italia non conviene entrare illegalmente, non conviene pagare gli scafisti, non conviene rischiare di morire”, sono queste le parole pronunciate da Giorgia Meloni durante la conferenza stampa, svoltasi a Cutro in data 9 marzo.

 Quello che ne emerge è una disumana indifferenza nei confronti delle morti avvenute sulle coste italiane, una vittimizzazione delle istituzioni e un fallimentare tentativo di convincere l’opinione pubblica dell’impossibilità da parte del Governo di agire diversamente da quanto fatto. 

Viene così trasmessa l’idea che l’unica azione possibile sia un invito, successivo alla strage, a Palazzo Chigi dei parenti dei defunti e di alcuni sopravvissuti al naufragio.

 Un'operazione a freddo, dove le parole che vengono rilasciate dai parenti, sono queste: "Fateci andare nei Paesi europei dove stanno le nostre famiglie e fate seppellire lì i nostri cari a chi lo vorrà. Ma se davvero volete aiutare la gente che fugge dall'Afghanistan, dalla Siria, andateli a prendere con i corridoi umanitari".

 Per rispondere a quanto avvenuto, il 9 marzo è stato indetto un Consiglio dei ministri nella città di Crotone per adottare un nuovo decreto: “Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare”. È evidente, già dal titolo, come l’unico ingresso ammissibile sia quello di lavoratori e non di persone in quanto tali: le persone migranti vengono ancora una volta ridotte a capitale umano da sfruttare secondo le necessità del mercato.

 Il decreto introduce poi un inasprimento delle pene degli scafisti con reclusione fino a 30 anni: questo tentativo che si discosta da ogni responsabilità istituzionale e che punta il dito è evidentemente la risposta di una politica populista e securitaria.

Una linea d’azione disumana e priva di concretezza che non si occupa della questione nella sua complessità e che non permette la costruzione di effettive vie legali e sicure per raggiungere l’Europa. Il decreto compromette il diritto di richiesta di protezione speciale, con l’intento dichiarato di volerlo abolire definitivamente, senza considerare gli obblighi internazionali (Convenzione di Dublino, Convenzione di Ginevra) a cui l’Italia non può sottrarsi.

 In questo modo la possibilità di regolarizzarsi in Italia si complica ulteriormente dati i tempi estesi prima del rilascio o meno di un PdS. 

Il decreto, inoltre, impartisce direttive di potenziamento e ampliamento della rete dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR): veri e propri buchi neri del sistema in cui le persone vengono detenute per un tempo indefinito, in condizioni inadeguate che provocano gravi danni alla salute psicofisica. Si tratta di una violenta e disumanizzante reclusione, che blocca la possibilità di movimento e acuisce la forza delle barriere fisiche e burocratiche.

 La pratica delle espulsioni è stata inoltre accelerata da questo decreto che ha eliminato la necessità di convalida del giudice di pace dei decreti a seguito di condanna. 

Un'ulteriore punto di discussione che si inserisce nel tema delle regolarizzazioni dei migranti è il superamento della legge Bossi-Fini del 2002, che da più di venti anni regola l'immigrazione in Italia.  La storia non ha dato ragione a questa legge che si è rivelata un vero e proprio fallimento: si tratta, infatti, di una regolarizzazione "mascherata" che vincola la possibilità di entrare regolarmente in Italia al possesso di un contratto lavorativo. Tuttavia, questa procedura alimenta indirettamente i circuiti di ingresso illegale dal momento che risulta difficoltoso reperire un contratto di lavoro regolare prima di entrare in Italia.

Giorgia Meloni con il Decreto Flussi ha tentato di tamponare l’azione della legge Bossi-Fini, fallendo miseramente nel suo intento. Nel decreto è infatti presente una clausola che impone “controlli preliminari” che tuttavia risultano fini a se stessi, dal momento che la persona che richiede di essere regolarizzata non è conosciuta dal datore di lavoro.

Questa è la soluzione della politica che si rifà sulla vita dei migranti.

In nessun discorso istituzionale né sui giornali si parla di autodeterminazione e di libertà di movimento, ma anzi la narrazione portata avanti viene teatralizzata attraverso la continua e tragica conta dei corpi, la pornografia del dolore e la strumentale criminalizzazione della solidarietà.