Questi giorni a Lampedusa

L’isola dei diritti

3 / 2 / 2014

Sono tre giorni che non smette di piovere e anche l’ultimo calzino asciutto se ne è andato. Sabato però abbiamo concluso la discussione ed ora la Carta di Lampedusa ha una sua stesura definitiva. Un grande applauso, per certi versi anche liberatorio, ha salutato nel tardo pomeriggio l’approvazione dell’ultimo paragrafo. 

In serata il collettivo Askausa - che significa “senza scarpe” - ha invitato tutti gli attivisti all’inaugurazione del loro nuovo spazio dedicato alle vittime del mare. Una lunga sala in cui i ragazzi di Lampedusa hanno raccolto tutto ciò che il mare ha restituito dopo i naufragi. Nel soffitto dell’entrata sono appese le scarpe. Grandi, piccole, da uomo e da donna da bambino, tante... Un tavolo raccoglie dei sacchetti di plastica con dentro della terra. Un modo come un altro per esorcizzare la nostalgia della casa natia. Portarsi appresso un po’ della terra sulla quale sei cresciuto. Poi quel che resta di bibbie, corani, calendari e libri di poesie divorati dall’acqua salata. Sui muri, le mensole erano riempite di piatti, scodelle, pentole... e ancora tanti oggetti personali come lamette da barba, spazzole, giocattoli, collanine e bracciali... Mi è tornato in mente un ricordo che credevo assopito: il museo dello sterminio che ho visto al campo di concentramento di Auswitch. Nel lager come nei barconi. Vite spezzate dalla violenza di un sistema delirante. 

Domenica mattina, sempre sotto una pioggia battente, l’ultima assemblea. Quella programmatica. Gli attivisti prendono il microfono per spiegare come intendono mobilitarsi per far sì che la Carta di Lampedusa non rimanga solo una carta. Ciascuno a partire dai linguaggi e dalle sensibilità che gli sono propri. Voci che si mescolano a quelle dei migranti che raccontano le loro aspettative ed a quelle degli abitanti di Lampedusa che sono intervenuti numerosi per raccontare come tocca vivere sotto la cappa di una continua emergenza militare.

Chiudiamo la sera tardi appena in tempo par fare una visita al Cara, prima che tramonti il sole. Non ci sono “ospiti” forzati in questo momento. E’ solo un grande e freddo edificio di cemento armato vuoto. Eppure le forze dell’ordine e l’esercito lo presidiano come se fosse l’ultimo bastione strategico di chissà quale guerra. Gli giriamo attorno e i militari ci seguono passo dopo passo, segnalando i nostri spostamenti con le trasmittenti. Vado a vedere il famoso buco sulla recinzione sud e che fungeva da “porta secondaria”, ipocritamente tollerata dalle autorità che preferivano far finta di non vedere per non scatenare rivolte. E’ ancora là a testimoniare quanto sia assurdo, oltre che inumano, il voler pretendere di risolvere una questione sociale con criteri militari. 

Non è un bel vedere il Cara di Lampedusa. Nessun Cie, nessun Cara lo è. Più volte negli incontri di stesura della Carta è stato ribadito, dagli attivisti della campagna LasciateCientrare come da tutti gli altri, che queste prigioni di cemento armato non possono essere umanizzate ma solo abbattute. Chiudere i Cie ancora attivi ed impedire che vangano riaperti quelli chiusi sarà una delle prima battaglie da fare. Perché l’avventura della Carta di Lampedusa, statene certi, è solo cominciata.