Questi giorni a Lampedusa

L’isola delle caserme

31 / 1 / 2014

Tra Lampedusa e la Sicilia corrono cento miglia di mare. E tocca pagarle tutte. La nostra parabola satellitare con i suoi quattro audaci paladini di belle speranze che se la sono scarrozzata per tutta la Penisola, se ne è rimasta, triste e sconsolata, sulla banchina di Porto Empedocle. Giove Pluvio e suo fratello Poseidone le han detto di no. D’altra parte, in questa stagione, i collegamenti navali sono peggio di un terno al lotto. Col vento di libeccio poi, che non soffia mai per meno di un mese, pensare di raggiungere Linosa per mare è una pia illusione ”perché - mi ha spiegato un pescatore giù al porto - lei, signore, deve considerare che Lampedusa è un’isola”. Lo so, gli ho risposto con un po’ di sufficienza. “No che non lo sa, signore. Per capire che Lampedusa è un’isola deve avere una moglie che sta per partorire oppure un figlio malato che ha bisogno di... come si chiamano, quegli esami medici là che ti fanno solo a Palermo?”

Oramai nessuno nasce e nessuno muore più a Lampedusa (migranti a parte). Il piccolo poliambulatorio non è neppure dotato di un servizio ostetrico. Per partorire le gestanti raggiungono gli ospedali palermitani. E debbono imbarcarsi perlomeno un mese prima. Gli aerei di collegamento sono dei piccoli bimotori ad elica. Non sono mezzi consigliabili a chi ha paura. Con tutti quegli scossoni che ti regalano emozioni e attaccamento alla vita, se la gravidanza è molto avanti, c’è il rischio di scodellare il pupo tra le mani della hostess. In bassa stagione poi, i voli sono limitati anche a prescindere dalle condizioni del tempo e dagli scioperi dei controllori dei voli. Sui pochi posti a disposizione, inoltre, i residenti hanno giustamente il diritto di precedenza.

Questo è il motivo per cui molti attivisti che hanno tentato di raggiungere l’isola hanno dovuto desistere dai loro propositi e rassegnarsi a partecipare agli incontri seguendo lo streaming su Melting Pot. Io sono stato tra i primi ad arrivare. Mi ha accolto un mare in burrasca e una cittadina fredda, molto lontana da quegli arcobaleni di colore con cui dipingiamo la Sicilia. Il centro sta tutto in un’unica strada, via Roma. Lunga, larga, diritta, ben curata, costellata di ristoranti stile Bella Napoli e di negozi “Totò o’mericano” che vendono piastrelle “Una vipera ha morso mia suocera...” Per la maggior parte sono chiusi. “Chi ha i soldi va a svernare a Palermo dove ha la seconda casa e può mandare i figli a scuola - mi ha spiegato la gentile signora che ci ha affittato le camere -. Qui non c’è niente per i bambini. La scuola dell’obbligo non ha aule per tutti e mio figlio è costretto ad andare a lezione al  pomeriggio. E dopo l’obbligo, abbiamo solo un liceo scientifico. Fosse almeno un istituto alberghiero”.

Gironzolando per le strade di Lampedusa, salta subito all’occhio che l’intera isola è stata trasformata in una caserma. Le strade perpendicolari a via Roma sono continuamente attraversate da camionette e blindati dei carabinieri. Dappertutto trovi cartelli con scritto “Zona militare. Vietato l’accesso” . Seduti ai tavolini dei bar, rigorosamente riservati agli uomini, ci sono più soldati in libera uscita e poliziotti in borghese che lampedusani. E poi guardi di finanza, polizia di frontiera, capitanerie di porto... mancano solo gli alpini per completare l’elenco dei corpi dello Stato. Sono sceso al porto per fotografare il “cimitero” dei relitti dei barconi cui, qualche giorno fa, qualcuno ha appiccicato il fuoco. Due militari armati mi hanno ordinato subito di allontanarmi. Ho spiegato che ero un giornalista con regolare iscrizione all’Albo. “Proprio per questo” mi hanno risposto.

Ancora più raccapricciante è la bandiera con il “sole padano” che sventola sopra il porto del naufragio, appena sotto la grande statua della madonna protettrice dei marinai dall’aureola che si illumina di notte. Proprio qui, al sud del sud, la Lega Nord è riuscita ad eleggere una rappresentanza in consiglio comunale. Votarli sotto queste cielo meridionale, viene da pensare, deve essere come per un leprotto iscriversi all’Arci Caccia. Pasteggiano con la paura delle gente. Girano per le strade dell’isola su un’auto di “rappresentanza” con bandierona al vento, lo stemma sul cofano e la scritta “No all’abrogazione della Bossi Fini”. Domani incontreremo la sindaca Giusi Nicolini e ci auguriamo che sappia dipingerci un’altra Lampedusa.

Intanto, ora dopo ora, gli attivisti dei tantissimi movimenti che hanno aderito all’appello di Melting Pot per scrivere assieme la Carta di Lampedusa scendono dagli aerei. Vengono da tutta Italia, dalla Francia, dall’Olanda, da tanti altri Paesi europei e nordafricani. Basta un’occhiata per capire che non sono i soliti turisti. Accanto al tavolino da cui scrivo queste note si siedono un paio di tedeschi e un profugo. Sono di “Lampedusa in Hamburg” e sono venuti a proporre un gemellaggio con il quartiere S. Pauli.

Grazie a tutti loro, anche la grigia Via Roma sta cominciando a riempirsi di colori.