Lo sciopero internazionale delle donne è impossibile, proprio per questo è così necessario

7 / 3 / 2019

In vista della giornata dell’8 marzo, proponiamo questo articolo dell’attivista femminista Camille Barbagallo (Women’s Strike Assembly, Plan C), originalmente pubblicato da Novara Media. L’articolo delinea gli elementi teorici fondamentali di quella che oggi è la Women’s Strike Assembly nel Regno Unito, basati sulla tradizione femminista autonoma costruita da donne intellettuali militanti come Mariarosa Dalla Costa, Selma James e Silvia Federici. Traduzione di Lorenzo Feltrin.

Lo sciopero internazionale delle donne è impossibile. Proprio così. Ma diciamo le cose come stanno, tale impossibilità è il motivo stesso per cui lo sciopero delle donne è una delle nostre sfide più importanti. L’impossibilità non è dovuta al fatto che lo sciopero delle donne non sarebbe un “vero” sciopero (come direbbero quelli che riservano tale forma di lotta esclusivamente agli uomini sindacalizzati e impiegati nelle fabbriche), non è nemmeno perché sarebbe solo per donne “privilegiate”, o perché le donne emarginate non possano scioperare. L’impossibilità emerge quando ci scontriamo con la realtà del lavoro femminile e del significato odierno dello sciopero.

La data dello sciopero internazionale delle donne coincide con la giornata internazionale della donna per evidenziare la forza della memoria storica femminile. Tanto per cominciare, le donne hanno sempre lavorato, anche se in certi casi non riceviamo un salario per il lavoro che facciamo. La storia della giornata internazionale della donna, le cui origini sono state attribuite a uno sciopero di operaie tessili – tra cui molte migranti – a Manhattan nel 1908, ci costringe a sfumare l’immagine semplificata che ritrae gli uomini al lavoro e le donne in casa e ci ricorda la centralità del lavoro salariato femminile per lo sviluppo capitalista. Le donne hanno sempre lottato e gli scioperi delle donne non sono una novità. Le donne non hanno scioperato solo per aumenti salariali e migliori condizioni lavorative ma anche – come nel caso delle donne russe nel 1917 – per la pace, il pane e le rose.

Per molti anni, la giornata internazionale della donna si è allontanata dalle sue origini radicali ed è stata cooptata da una corrente specifica del femminismo – alcune lo chiamano “femminismo bianco”, altre “femminismo neoliberista”. Ci hanno detto di “celebrare” la nostra femminilità, di gioire per tutte le conquiste che “noi” abbiamo realizzato, come il “girl power” e le maggiori possibilità di carriera. Negli ultimi decenni, abbiamo al massimo fatto una manifestazione all’anno nel fine settimana e l’uguaglianza delle donne è stata ridotta a un discorso sulla discriminazione salariale e su come mettere più donne in posizioni di potere.

Ma durante questi anni molte di noi hanno anche preso posizioni critiche nei confronti di tale corrente del femminismo. Abbiamo detto chiaramente che queste “conquiste” non sono state egualmente distribuite e che il femminismo, per farci avanzare, dev’essere anche antirazzista, anticoloniale, anticapitalista e inclusivo delle sex workers e delle donne trans. Deve mettere la distribuzione iniqua del lavoro riproduttivo e i bisogni delle donne working class al centro del nostro discorso sul lavoro femminile.

Vale la pena di ripeterlo. Le donne hanno sempre lavorato ma, in certi casi (forse la maggior parte), non veniamo pagate per il nostro lavoro. Per esempio lavare i piatti, far sesso, leggere storie della buona notte a un bambino o ricordarsi del compleanno della mamma per mandare un biglietto di auguri in tempo. Ciò che tutte queste attività hanno in comune è che sono istanze di lavoro riproduttivo.

È lavoro riproduttivo – salariato o non salariato – tutto quel lavoro che noi (per la maggior parte donne) facciamo per produrre e riprodurre la vita umana, quotidianamente e attraverso le generazioni. La divisione sessista del lavoro fa sì che la maggior parte del lavoro riproduttivo – a casa o sul posto di lavoro – venga svolto in gran parte da donne. E in quanto lavoro nella società capitalista, il lavoro riproduttivo avviene in condizioni di conflitto, lotta, violenza, sfruttamento ed esproprio. Nel capitalismo, riproduciamo gli esseri umani come forza lavoro. Riproduciamo le persone come lavoratrici e lavoratori. Le e li riproduciamo come soggettività inserite in un sistema classista, disciplinate, educate, allenate e formate per “stare al proprio posto”, che sia quello di manager, madre, o lavoratrice/ore per un salario da fame.

Ma quando parliamo di riproduzione, è cruciale prendere in considerazione anche le potenzialità radicali delle lotte sulle questioni del lavoro e della vita. Le decisioni e le scelte che compiamo riguardo a come concepire, abortire, partorire, far crescere ed educare i nostri figli/e, prenderci cura degli anziani/e, avere il controllo sui nostri corpi, organizzare le nostre case, famiglie e relazioni, sono fondamentali nell’immaginare e praticare modelli di società nuove, libere dall’oppressione coloniale e razzista, dallo sfruttamento capitalista e dal controllo patriarcale.

Quando congiungiamo questa analisi del lavoro riproduttivo con la pratica dello sciopero – che possiamo definire come il ritiro del proprio lavoro dalle vigenti condizioni di produzione e riproduzione capitaliste (ovvero ciò che l’appello allo sciopero delle donne ci sfida a fare) – rendiamo più visibile l’impossibilità di scioperare. Quando mettiamo in luce i grandi carichi di lavoro di cura e lavoro domestico (salariato e non), diventa chiaro che farne a meno è impossibile. Certo, possiamo rifiutare di svolgere lavoro domestico per un paio di giorni ma – quando si tratta di prendersi cura di bambini/e e anziani/e – il fatto stesso che tale lavoro riproduttivo sia ciò che mantiene vivi noi, coloro che amiamo e coloro che siamo pagate/i per curare, significa che è impossibile rifiutare il lavoro riproduttivo. Nelle attuali condizioni determinate dal capitalismo, il lavoro riproduttivo può solo venire redistribuito tramite la sua mercificazione o il suo trasferimento ad altre persone non salariate.

Costruire una politica in grado di far emergere il lavoro femminile in tutti i suoi aspetti – produttivi e riproduttivi – significa poter affrontare l’impossibilità dello sciopero delle donne rivendicando la riorganizzazione non solo del sistema produttivo, ma anche di quello riproduttivo. Il capitalismo necessita del nostro lavoro riproduttivo non pagato e del nostro lavoro di cura. Dobbiamo scioperare contro questo sistema che si basa sulla valutazione differenziale delle nostre vite o anche sulla loro totale svalutazione. Perciò, la liberazione per cui lottiamo non potrà mai essere raggiunta all’interno del capitalismo. Dobbiamo rifiutare collettivamente di continuare a offrire il nostro lavoro, i nostri servizi e la nostra cura alla controparte che tenta di salvaguardare il proprio potere e i propri profitti. Scioperiamo per rendere visibile il nostro potere, scioperiamo per vincere.