Lo spettro della crisi finanziaria si aggira ancora per il globo

Il collasso di Dubai World e il problema delle regole

1 / 12 / 2009

Nella scorsa settimana, Dubai World, la holding finanziaria dello stato del Golfo, appesantita da 59 miliardi di dollari di debiti, ha rischiato il crack finanziario e si trova oggi nella difficoltà di rimborsare i creditori. Secondo l'agenzia Bloomberg, gli istituti con crediti maggiori nei confronti di Dubai World sono Royal Bank of Scotland, che a Londra ha ceduto il 7,61%, Barclays (-7,07% sempre sul listino inglese), Hsbc (-4,57%) e Lloyds (-4,17%) e Credit Suisse (-4,32%). Guarda caso, sono gli stessi nomi che hanno riempito le pagine dei giornali nella fase più acuta della crisi finanziaria non più di un anno fa. Manca solo Lehmann Brothers. Si tratta di istituti finanziari che non sono falliti grazie alla forte immissione di liquidità da parte degli Stati o alla loro nazionalizzazione (come nel caso della Royal Bank of Scotland). Eppure sono ancora lì, in prima fila, nell’attività speculativa. Nel corso dell’ultimo anno, si sono sprecate parole e parole sulla necessità di aumentare i controllo bancari, numerosi sono stati i consigli per una maggiore trasparenza dei bilanci delle società finanziarie, con il fine di ridurre il rischio di fallimento.

Il governo dell'Emirato arabo ha comunicato che Dubai World e la controllata Nakheel intendono chiedere a tutti i finanziatori una moratoria e di estendere le scadenze almeno fino al 30 maggio 2010. La holding statale sta cercando di rinegoziare un “bond islamico” da 3,52 miliardi di dollari emesso da Nakheel, l'operatore immobiliare famoso per aver realizzato le isole a forma di palma, in scadenza il 14 dicembre prossimo. Siamo in presenza di un “fondo sovrano”, ovvero di un pacchetto di titoli che vengono garantiti dallo Stato di appartenenza, quindi con una probabilità di fallimento molto ridotta se confrontata con i fondi privati. Eppure, nonostante questa garanzia (o proprio per l’ombrello protettivo che tale garanzia può consentire), la crisi finanziaria non ha risparmiato Dubai. Nel momento stesso in cui i fondi di investimento privati hanno assunto maggior onori di rischio, sono stati i fondi sovrani statali che più si sono sviluppati nell’ultimo anno.
Nel secondo trimestre del 2009, infatti, le grandi Sim (Società di intermediazione mobiliare) hanno registrato ricavi (e profitti) in forte crescita: 32 miliardi di dollari Bank of America, 29,9 Citigroup, 25 JP Morgan per citarne solo alcune. Gran parte di questi ricavi non sono derivati dalla tradizionale attività bancaria, ma sono stati conseguenza diretta del rally dei mercati, soprattutto rivolti, per ‘appunto, ai fondi sovrani: secondo i calcoli di “Analisi mercati finanziari” del Sole 24 Ore, che ha passato in rassegna 12 tra le principali banche europee e americane, il 59% dei ricavi sono arrivati da attività di trading speculativo, da dividendi e da commissioni. Insomma nulla è mutato dal 2008, quando iniziò la crisi. L’attività speculativa sembra essere incontrollabile. E recentemente la Bri (Banca dei Regolamenti Internazionali) ha stimato in 59 trilioni di dollari il volume dei derivati che sono entrati in circolazione a partire dall’inizio dell’anno.

Possiamo trarre così una prima conclusione: che si tratti di fondi privati o fondi sovrani (non c’è differenza tra Stato e privato quando si specula!), la regolazione diretta dei mercati finanziari è pure utopia o ideologismo!

Crediamo invece che sia possibile una regolazione “indiretta” dei mercati finanziari tramite l’introduzione di una tassa sulle transazioni speculative a breve periodo. Si tratta di una riformulazione della cosiddetta “Tobin tax” (dal nome dell’economista che ipotizzo per primo una tassa di questo genere). Lo strumento è molto semplice: tassare in piccolissima percentuale le transazioni finanziarie su monete, cambi o derivati con aliquote molto basse (intorno allo 0,05%), lo scopo è quello di frenare tutte quelle micro-transazioni (“micro” in termini di tempo), prettamente speculative, che sbilanciano la focalizzazione dei mercati finanziari sul breve termine, e che potrebbe essere efficace anche per limitare il trading automatizzato, che spesso è uno dei fattori che alimenta l’effetto domino sui mercati finanziari. Si tratta, quindi di uno strumento che può essere molto efficace nello spostare il focus della finanza sul medio periodo, che permetterebbe maggiori garanzie di sostenibilità. In tal modo si potrebbe garantire una maggiore trasparenza e uno strumento di regolazione degli stessi mercati finanziari. Non è un caso che a livello europeo se ne discuta da qualche mese, dopo una decisa presa di posizione a favore da parte del primo ministro inglese Gordon Brown.

A 10 anni dal debutto del movimento No-Global a Seattle, cominciamo a prenderci delle “piccole” rivincite.