Analisi della composizione del movimento contro la devastazione ambientale in Campania

Lotte ambientali e ricomposizione di classe

di Andrea Salvo Rossi*

28 / 9 / 2013

Diecimila persona a Giugliano contro l’inceneritore di Taverna del Re, cinquemila ad Aversa contro i veleni e rifiuti della terra dei  fuochi, diecimila a Roma per fermare l’apertura delle nuove discariche sostitutive di Malagrotta, a cui sommare le esperienze storiche: le migliaia di persone che difendono la valsusa dallo sventramento, quelli di Vicenza e Niscemi contro le basi militari, i comitati permanenti antidiscarica di Chiaiano e Mugnano, i veneziani che in acqua bloccano il passaggio delle grandi navi, i no gas.

Insomma, mi pare (cioè “mi sembra evidente”, non “voglio credere a tutti i costi per una teoria a cui ho giurato fedeltà e che calo coattamente sulla realtà) che – oggi – la forma più interessante di anticapitalismo si esprima nella forma delle lotte ambientali: interessante perché di massa, perché avanzata sul piano delle rivendicazioni, perché non propone la conservazione dell'esistente, ma guarda ad alternative di sviluppo sostenibili, popolari, di autogestione delle risorse e di recupero di sovranità da parte di comunità ribelli.

Stiamo parlando di decine di migliaia di persone che – sparpagliate per il paese – declinano il proprio attivismo con radicalità e partecipazione, senza il feticcio del girotondo, ma senza nessun tic riottaro, capendo sempre e naturalmente quando è utile la comunicazione, il presidio informativo e quando è necessario investire il proprio corpo (esponendolo, a occhi alti e viso scoperto) nella resistenza allo scempio del capitalismo predatorio. Capendolo con naturalezza perché dentro un processo reale di lotta e non dentro al laboratorio accademico (troppo impegnato a disegnare schemini del soggetto rivoluzionario perfetto: questo è operaio, questo no, questo è produttivo, questo è novecentesco, questo è comune, questo è fordista).

L’eccedenza (horribile dictu) è semmai questo: quel più di libertà che il corpo unico di una comunità resistente sa esprimere sul potere, spiazzando l’ordine del discorso costituito e ridefinendo i significati specifici del territorio in cui si agisce (nulla a che fare con la rivolta in provetta, con chiamata alle dieci e tutti a casa per cena).

Questo per dire che c’è una partita tutta aperta, diffusa nel nostro paese e che non si capisce bene di quale pedigree manchi per accontentare i vari “come la grecia/turcha/spagna/portogallo/frittole” esistenti (ma si sa, la lotta del vicino è sempre più rossa).

Una partita in cui finalmente si sta provando a produrre esperienze di coordinamento e federazione, tra più territori, tra più esperienze. Una contaminazione tutta da farsi e che – quella sì – richiede quella capacità che le organizzazioni di movimento posseggono di inserire una questione determinata in un quadro complessivo, individuando bene le responsabilità, le connessioni tra quella lotta specfica contro le discariche a sud e la collusione di imprenditoria e criminalità organizzata a nord. Una partita che evidentemente non lascia spazio (e per fortuna) a personalismi, bandierine, cappellini, magliettine e cartelli di questo o quel centinaio di persone che è convinto di essere più comunista di tutti gli altri.

Fuori dal tabellone del risiko, alcune cose importanti succedono: circola ad esempio, da Roma, a Napoli, ad Aversa il tema del biocidio. S’impone cioè il tema della sistematica aggressione alla salute e finanche alla vita delle persone agita da un capitalismo che usa la crisi com leva di sospensione dello stato di diritto. Un tema che tenacemente pochi medici (e ancor meno giornalisti) provano a costruire, come nodo teorico-pratico ineludibile per i movimenti, da anni e che solo le lotte hanno saputo imporre all’attenzione pubblica.

Un tema che non interroga solo le “istituzioni borghesi”, ma anche le scuole e le università.

Se oggi ha senso l’individuazione degli atenei come terreno di attivismo, non ne ha francamente per la difesa dell’aula studio, ma perché dentro le università bisognerebbe pretendere quelle alternative (economiche, giuridiche, ambientali) che aggrediscano le contraddizioni sollevate dai presidi territoriali, inserendosi nel solco dei saperi popolari (molto spesso avanzatissimi per la loro capacità di approfondimento, di inchiesta, di individuazione delle specificità) e fornendo strumenti specialistici e saperi a chi, nel quotidiano, opera per il cambiamento. Una lotta dentro i dipartimenti che restituisca al sapere quella funzione sociale che l’autoreferenzialità delle bibliometrie, delle faide baronali, delle mediane e delle citazioni gli ha tolto. Una lotta che – detto per inciso – abbia bene in testa che una “ricerca libera e imparziale” non esiste e che il punto semmai è imporre quella parte che è degli sfruttati, degli avvelenati, contro quella delle aziende e delle scuderie degli ordinari (perché anche la parzialità dei nostri atenei, salvo poche cattedrali private del neoliberismo, è molto all’italiana, assume tratti grotteschi e gretti, piuttosto che schiettamente privatistici).

Di questo – e non del proprio personale gioco del trono – si dovrà discutere quest’autunno. All’altezza di questa sfida andrà misurato il senso e la capacità di tenuta dei collettivi, dei centri sociali. Sapendo che un terzo anno di marginalità, incomprensibilità e silenzio possono essere micidiali e ricordando che, sempre, è stato forte chi si poneva il problema di attraversare processi reali di mobilitazione, anche rischiando di navigare a vista piuttosto che irrigidirsi in pose da avanguardia dei poveri.

Su questi nodi, tanto per dire, andrà interrogato tutto il mondo dell’ecologia “democratica”: dai gruppi d’acquisto, alla decrescita, al chilometro zero (perché qualcuno dovrà spiegare come si fa, in Campania, ad essere per il chilometro zero senza passare per la battaglia per le bonifiche della periferia nord e di quella ovest, perché ad oggi la produzione local è avvelenata e tanto basta).

Andrà interrogato il mondo dell’antimafia (si può essere antimafia senza essere notav? si può ancora considerare la legalità l’unico perimetro possibile dell’antimafia quando si produce giuridicità ad uso e consumo esclusivo delle holding criminali?).

Questo, ovviamente, se si è interessati a quella sciocchezza che è la trasformazione dell’esistente.

Poi, certo, si può pensare che il punto sia la conservazione e la riproduzione della propia identità: per quello ci sono tanti hobby meno frustranti e meno pericolosi. Dice che il wind-surf si può fare anche sei mesi l’anno, da quando non ci sono più le mezze stagioni.

* Mezzocannone Occupato