Milano

Macao sgomberato. Chi decide nelle nostre città?

Questa mattina le forze dell'ordine al grattacielo Galfa

15 / 5 / 2012

“Altro che vento che cambia”, con questo ironico tweet mattutino veniva commentato lo sgombero di Macao. Un cinguettio che inquadra perfettamente la questione. L’intervento delle forze dell’ordine alla torre Galfa poteva essere preventivato, ma non certo con questi tempi e nel balbettio delle istituzioni milanesi.
Mentre scrivo centinaia di persone si stanno radunando sotto il grattacielo, ciò che rincuora è che certamente Macao non finisce qui. Sia che ci si riprenda la torre, sia che si vada altrove, questi dieci lunghissimi giorni di vita di Macao hanno segnato l’inizio di qualcosa di destinato a durare. Hanno dimostrato che a Milano i lavoratori dell’arte, i precari e gli studenti sono finalmente intenzionati a voltare pagina, sono intenzionati a riprendersi ciò che la finanza gli aveva tolto, a cominciare dagli spazi (non è un caso che la Torre Galfa sia di proprietà di un immobiliarista e finanziere del calibro di Ligresti), ma non solo. Macao ha tutte le potenzialità di un vero percorso costituente, lo ha dimostrato con la sua capacità di aggregare migliaia di persone e di produrre decine di partecipatissimi tavoli di lavoro (dall’arte all’urbanistica, dall’autorecupero alla comunicazione e così via), Macao ha funzionato da catalizzatore per una diffusa necessità di un nuovo protagonismo dei lavoratori cognitivi di Milano, stufi di essere terreno di valorizzazione per l’industria creativa, stufi di essere spremuti nelle maglie della precarietà, vittime isolate di un gioco speculativo tutt’altro che marginale. Macao è questo, è rovesciare la prospettiva dominante di una logica culturale finanziarizzata in favore di pratiche artistiche realmente critiche dell’esistente. Non è poco.
Parallelamente la vicenda di Macao ha sinora posto in luce un altro elemento: l’inadeguatezza della giunta Pisapia nel farsi interlocutore di queste istanze. Anche su questo punto non ci siamo fatti illusioni, quanto sta accadendo palesa con chiarezza qualcosa di già evidente su scala nazionale. La risposta alla crisi, all’arroganza finanziaria, all’austerity neoliberista non può essere delegata alla rappresentanza, anche a quella più anomala e innovativa (vale per Pisapia come per Grillo), nemmeno sul piano locale. Invece, le luci nella crisi vanno cercate proprio lì dove sta Macao e lassù a Francoforte dove, da domani, si inizia a costruire una nuova Europa nell’assedio alla BCE. Nuove ipotesi politiche emergono dove stanno i movimenti che sanzionano Equitalia, dove sta chi si batte (al di là degli slogan) per i beni comuni quali acqua, territorio e cultura. In queste pratiche di democrazia radicale e orizzontale vediamo all’opera una politica degna, una politica che dovrebbe trovare campi di applicazione sempre più efficaci in coalizioni sociali che possano esprimerla con vocazione di massa.
A Milano lo sgombero di Macao indica un problema che non è solo milanese, ma che investe, in generale, la scala del governo metropolitano. Chi decide nelle nostre città? Governi legittimamente eletti o le lobby finanziarie e immobiliari? Che ruolo ha il pubblico? La risposta mi pare abbastanza evidente, se il pubblico non si mette a disposizione delle pratiche del comune che emergono, se non è in grado di interloquire, di essere interfaccia, al limite di cedere sovranità, allora esso è destinato al fallimento politico. Dunque dire che non bastano le elezioni per cambiare le cose è un’ovvietà disarmante, dire cosa serve perché le cose cambino è invece più complicato. A noi, ora, di certo serve che Macao viva.

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