Verso l'11 Luglio, verso l'autunno dei movimenti europei

Meridiano 61

Spunti e riflessioni da Napoli sulla fase politica

4 / 6 / 2014

Dai virus della mediocrità

Dai dogmi e dalle televisioni

Dalle bugie, dai debiti, da gerarchie, dagli obblighi e dai pulpiti

Squagliamocela

Nei vuoti d'aria della realtà

Tracciamo traiettorie migliori

Lasciando le galere senza più passare dalla cassa
(Subsonica-Liberi Tutti)

Dall’Istat a noi

L’ultima indagine Istat sull’occupazione restituisce un dato drammatico: 46% è il tasso nazionale di disoccupazione giovanile. Un dato che non sorprende chi abita i territori a Sud di questo paese, dove questo margine veniva ampiamente superato già nei ruggenti anni ’90 e che oggi raggiunge la vetta del 61%, la  più alta dal ’77.

Ogni statistica, ovviamente, va problematizzata. Questo 46% dice troppo e troppo poco: nelle sue fila, infatti, si nascondono le enormi sacche di sfruttamento del lavoro nero, così come vengono escluse tutte le forme di lavoro gratuito, stage, apprendistato (che la riforma Fornero addirittura equipara legalmente al lavoro a tempo indeterminato!). Distorsioni che vanno a sommarsi al principale limite riguardante i metodi quantitativi di analisi sociale: l’incapacità di comprendere nel proprio soggetto discorsivo i soggetti borderline rispetto alla cittadinanza formale.

Insomma, partiamo dalla statistica non perché da essa si possano individuare già soggettività di riferimento, ma proprio per provare a ricostruire obliquamente quella zona grigia che la statistica stessa non sa perimetrare: quella zona grigia in cui transitano soggetti in formazione, costretti sempre più precocemente a prestazioni lavorative gratuite (sul modello di Expo 2015), lavoratori migranti e la galassia della precarietà che – lungo i fantasiosi sentieri di una miriade di tipologie contrattuali – animano a intermittenza il mondo della produzione materiale e immateriale.

Quella zona grigia che s’incarna a sud in tutte le nuove forme di povertà, nell’aumento della dispersione scolastica, nel crollo delle iscrizioni universitarie, nell’aumento della migrazione verso i nord del paese e dell’Europa, che oggi riguarda evidentemente anche soggetti altamente qualificati. C’è un dato poi che, al di là del sensazionalismo, non possiamo non considerare con estrema preoccupazione. Sempre qui a sud infatti,  la disoccupazione femminile supera il 70% e specificamente nella città di Napoli meno di tre donne su dieci hanno un lavoro.  Più che statistiche, queste sull’occupazione femminile, sembrano una sorta di anatema che l’Istat lancia alle donne meridionali una volta all’anno. Con questi dati difficile che si innesti fiducia nella possibile ripresa nel prossimo futuro. Molto più semplice naturalizzare dispositivi che il buon vecchio patriarcato aveva meticolosamente costruito e che le donne in movimento tra gli anni sessanta e settanta avevano coraggiosamente demolito. Piuttosto che imbarcarsi da sole nella giungla del lavoro precario e di lottare per l’emancipazione, sempre più spesso le donne meridionali sono costrette a scegliere il semplice travaso dalla famiglia di origine a quella coniugale.

È a partire dalle condizioni materiali di queste forme di vita, mascherate dalla neutralità della statistica, che un discorso sul reddito può essere sviluppato e riesce seriamente a far presa sul campo del reale. Discorso sul reddito che, intanto, non può viaggiare separatamente da un discorso sul salario minimo: il reddito non può essere l’ennesima stampella che il pubblico mette a disposizione dello sfruttamento privato. Questo vale tanto di più nella fase nuova in cui sono immerse le governance europee e i governi nazionali, una fase di superamento dell’austerity e di “espansione a mezzo di impoverimento”.  In breve, le politiche di rigore degli ultimi cinque anni hanno permesso l’accumulazione di capitali importanti che oggi cercano una valorizzazione dentro i circuiti finanziari e dentro lo sfruttamento del lavoro vivo. Una nuova disponibilità di liquidità che, dunque, non vorrà dire affatto un automatico miglioramento delle condizioni di vita. Su questo bisogna essere chiari: povertà e precarietà saranno condizioni croniche, perché indispensabili all’attuale assetto del capitalismo (basti pensare, per fare un esempio italiano, che l’Aspi sarà finanziata rivalendosi sui lavoratori a tempo determinato). I nuovi flussi di denaro avranno invece un segno ben preciso, a tutto vantaggio dei mercati finanziari e delle imprese. La sfida è proprio – dentro questa nuova fase – provare ad aggredire tutti gli spazi che si aprono e provare ad invertire la direzione della ricchezza socialmente prodotta dal reddito al profitto e alla rendita. Dentro questa fase inedita del vecchio continente in crisi, si iscrive la stagione della RenzEuropa. Lasciamo la retorica alla Repubblica delle Idee e guardiamo all’operato concreto del governo: da un lato c’è il Jobs Act, l’estensione della precarietà mascherata da apprendistato (che verrebbe svincolato persino dal pretesto formativo) e gli 80 euro pensati per sostenere minimamente la domanda interna, dall’altro i pochi spiccioli previsti per archiviare la questione biocidio, accantonando qualunque seria proposta di risanamento e bonifica dei territori per come essa veniva articolata dai movimenti contro la devastazione ambientale. Crescita vuol dire competitività, vuol dire attrazione di investimenti tramite l’aumento dello sfruttamento nei luoghi della produzione, non miglioramento della vita sui territori, riqualificazione, allargamento della sfera dei diritti!

In questo senso il neoliberismo non subisce alcuna inversione di tendenza, poiché esso non è una politica economica congiunturale, ma invece innanzitutto una nuova forma di produzione di soggettività, basata sulla competizione e sull’orizzontalizzazione del conflitto, che perde connotati di classe e assume invece i tratti dell’autoaffermazione dell’individuo economico.

Ecco perché l’Europa della post-austerità si profila parallelamente come un’Europa sempre più xenofoba, che si pone in assoluta conflittualità e competizione col concorrente straniero, con l’altro/a che giunge da un altrove più povero in cerca di lavoro e migliori condizioni di esistenza. L’estrema materialità della postura identitaria che si diffonde a macchia di leopardo in Europa ( confermata dagli allarmanti dati delle elezioni europee) ha a che fare con il razzismo come corollario secondario e grottesco, su cui  però pesa la convinzione del privilegio economico e politico,  garantito sulla base della nascita in un angolo di mondo piuttosto che in un altro.

Sul voto in Europa

In questo scenario, si inseriscono le ultime consultazioni per la formazione del parlamento europeo. Per quanto non si possa che prendere atto e ricordare come la rappresentanza sia sempre più un’espressione parziale del politico, non crediamo si possa prescindere da una lettura del quadro elettorale.

I risultati che emergono non sono poi scollegati dal quadro delineato finora e ci danno elementi su cui necessariamente ragionare.

Il primo dato rilevante di questa tornata elettorale è stato quello relativo all’astensionismo. Sicuramente il numero di persone che hanno disertato le urne in tutta l’Europa, e soprattutto in Italia, è altissimo. Premettendo che le percentuali di votanti alle europee sono state sovente basse e legate alla fascia di affezionati al voto di opinione, la motivazione di questo picco negativo è sicuramente una disaffezione verso la politica della rappresentanza. Tuttavia la disaffezione non tiene dentro solo il dissenso ma soprattutto la rassegnazione.     In ogni modo pensiamo che, in questo caso, le percentuali espresse possano almeno essere prese come campione del sentire più diffuso delle popolazioni.

Nel contesto generale si spiega immediatamente pure quello che risulta il dato più allarmante ovvero l’avanzata dei vari fronti euroscettici e nazionalisti, tanto quelli espressamente neonazisti (per esempio l’N.P.D. in Germania e Alba Dorata in Grecia) o di ultra-destra (per esempio Il Front National francese della Le Pen, la Lega Nord dell’era Salvini e l’austriaco FPOE) quanto quelli sedicenti post-ideologici e di fatto populisti (per esempio l’M5S in Italia, l’UKIP di Farage nel Regno Unito, Alternativa per la Germania). Questo dato preoccupa perché esprime chiaramente una nuova ondata di xenofobia. L’utilizzo di questo termine, in luogo di razzismo, ci risulta più che mai opportuno imponendosi in questo momento storico quella dinamica competitiva di cui si accennava poco sopra e che comporta un’estrema paura verso l’arrivo di qualsiasi “straniero” nel proprio spazio nazionale, dando meno peso all’elemento razziale (pur non eliminando del tutto meccanismi di razzializzazione e stereotipi) e maggior importanza a quello della preoccupazione per le risorse e il lavoro. Gli inglesi che hanno votato l’UKIP, per fare un esempio, oltre all’uscita dall’Unione auspicano l’innalzamento di nuove barriere verso qualsiasi tipo di immigrazione, proprio a partire da quella degli altri europei (soprattutto i milioni di donne ed uomini che arrivano dal sud ovvero Spagna, Italia e Grecia). Una pulsione simile viene espressa dal consenso dato dai tedeschi alle liste di ‘Alternativa per la Germania’. Ancora prima delle votazioni europee, questo fenomeno socio-politico è stato evidenziato anche dagli esiti del referendum in Svizzera sulla limitazione dei permessi di dimora e dei posti di lavoro per gli stranieri.

Dall’altra parte non si può che prendere in considerazione anche l’avanzata delle sinistre che non ripudiano la dimensione europea ma reclamano un’alternativa radicale rispetto all’Europa dei diktat della troika, delle governance e della partitocrazia europea asservita al comando reale delle forze finanziarie. Prendere in considerazione questa avanzata da sinistra significa in primis sconfessare la narrazione dei media main_stream di tutt’Europa che prova a fare il gioco degli opposti estremismi tra nazionalisti e sinistre. In secondo luogo, dare la giusta lettura di questo fenomeno significa individuare come questa tendenza europea si animi del contributo fondamentale di quei paesi in cui ci sono stati reali movimenti sociali e le liste di sinistra hanno saputo creare una continuità con essi: da Po.demo.s. e Izquierda Unida in Spagna all’affermatissima Siryza di Tsipras in Grecia, passando per lo Sin Fei irlandese. Laddove si è data questa interazione, la rappresentanza esprime quindi – per quanto parzialmente – la voglia di avere uno spazio europeo ma di trasformarlo radicalmente nelle sue istituzioni governative, nei suoi rapporti di potere, nel suo modello di sviluppo.

Infine, non si può evitare di prendere atto di chi comunque si afferma come realtà maggioritaria numericamente nel parlamento europeo. La vittoria del P.D. (P.S.E.) di Renzi in Italia e dei Cristiano-Democratici (P.P.E.) della Merkel in Germania, sono state decisive affinché i due fronti storicamente maggioritari nell’emiciclo di Bruxelles (socialisti e popolari) restassero tali, nonostante un rilevante calo dei consensi nei singoli paesi membri. In questo quadro proprio Renzi, che ha rinverdito il volto della socialdemocrazia in Italia e si appresta ad esportare il proprio modello nel resto dell’Unione col peso dei propri numeri, e la Merkel, che assicura continuità al centrodestra in Germania ed oltre, forti del proprio posizionamento si fanno promotori  (col potenziale appoggio dei liberaldemocratici dell’ALDE) delle larghe intese che si sperimenta all’oggi in Grecia, in Germania e chiaramente in Italia, che diviene così riproducibile nel Parlamento Europeo. Il mantra della governabilità aggredisce anche l’Europa, esplicitando di fatti che il Parlamento dell’UE sta assumendo una maggiore porzione di sovranità negli equilibri politici ed economici complessivi. Intanto proprio all’Italia e al suo Premier incensato dal 40 per centro dei consensi alle europee spetta l’assunzione della Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea ( semestre europeo).  Ecco perché, mai come questa volta,  gli equilibri politici nostrani hanno ricadute immediate sul piano transnazionale ed ecco perché gli stessi movimenti sociali non possono che parlare la lingua delle coalizioni tra soggettività in movimento in tutta Europa.

Agiblità democratica/ produzione di alternativa: per una conclusione 

Questa vicenda europea – nell’aver trovato in Renzi un uomo di punta, sia per il risultato elettorale che per l’approssimarsi del semestre di presidenza italiana – ci riguarda direttamente.

È dentro questo’orizzonte che l’establishment renziano si giocherà la sua partita, provando a determinare ed intestarsi una controtendenza che evidentemente lo scavalca. In queste ore viene confermata all’Italia la possibilità di rimandare al 2016 il pareggio strutturale di bilancio. In questo quadro, i gruppi di pressione che di fatto detengono la leva del comando di molti settori del paese provano, senza tanti mezzi termini, a dettare l’agenda di governo: lo Sblocca-Italia, per come lo vorrebbero Enel, Montedison, A2A, Tap, non è altro che un colpo di acceleratore alle grandi opere ferme a causa delle lotte portate avanti dai comitati. Su questo il documento del Nimbyforum (nome odioso del centro studi finanziato proprio da questi soggetti, che ha lo scopo di studiare il diffondersi del nimbysmo – cioè della resistenza derubricata a patologia sociale – sul territorio nazionale) è chiarissimo: bisogna essere degli ottimi persuasori per sbloccare i 357 cantieri fermi a causa delle contestazioni e far ripartire la macchina delle grandi opere tramite, va senza dire, un cocktail pubblico-privato di socializzazione della spesa e privatizzazione dei profitti.

Concretamente, fuori dagli slogan della rottamazione, cosa vuol dire questa persuasione? Vuol dire azzeramento degli spazi di dissenso in ogni ambito della vita politica. Vuol dire provare ad imporre, tramite la commissione di garanzia, un congelamento del diritto di sciopero durante il semestre italiano. Vuol dire l’ondata di sgomberi violenti che si ripetono da Roma a Torino, da Salerno a Genova. Vuol dire arrestare quaranta persone durante una pacifica contestazione al primo ministro. Sono cose rispetto alle quali dovremmo sempre riuscire a provare indignazione e rabbia, tanto più quando il dispositivo messo in campo prova a normalizzare queste pratiche, a renderle questione di ordinaria amministrazione. Su questi temi vanno anche sfidati e braccati i sinceri democratici: si può sul serio pensarsi come persone di sinistra e non provare odio di fronte alle immagini di famiglie sfrattate, bambini buttati in mezzo ad una strada tutt’altro che metaforicamente, studenti massacrati “come zainetti”?

Partiamo ovviamente da noi, situandoci a partire dalle nostre realtà, dalle nostre esperienze, che sono quelle dell’autorganizzazione, dei centri sociali, dei comitati di base, riconoscendone le difficoltà, i limiti contingenti, i faticosi tentativi di costruire un discorso maggioritario, e però ci chiediamo provocatoriamente: se non ci fossero queste cose, se non ci fossero i centri sociali, chi farebbe opposizione in questo paese? Grillo? E allora chiediamoci cosa significa fare opposizione. Che non vuol dire imbastire l’ennesimo discorsetto apocalittico sul 5 stelle, ma vuol dire provare a smontare quell’opzione – che va mostrando oggi tutte le sue ambiguità più sinistre – nella pratica politica, nella costruzione di coalizioni sociali, nelle mobilitazioni, nell’invenzione di forme reali di mutualismo. Questa è la prospettiva con la quale guardiamo a Torino e di nuovo ci chiediamo: sul serio un vertice sulla disoccupazione giovanile, che metterà assieme i leader di tutta l’Eurozona per scrivere l’agenda politica del prossimo medio termine, può diventare il terreno dei distinguo, di minimi investimenti, di scommesse al ribasso, o quella data riguarda tutti, tutti quelli che provano a sovvertire lo stato di cose presenti?

La partecipatissima assemblea del 31 maggio ci sembra una buona risposta, così come ci lascia fiduciosi questa fase di reale interlocuzione tra diversi. Un’interlocuzione, però, che ha la sua efficacia se mette a valore le differenze, se fa da moltiplicatore di forze sui territori, se consente l’allargamento a quei segmenti sociali che tutti incontriamo nel lavoro quotidiano: questa è la sfida, su questo vanno misurati i nostri sforzi, su questo misureremo anche la credibilità di chi si propone come attore di apertura di uno spazio di discussione a sinistra, sapendo che nessun margine di manovra resta a qualunque declinazione di autonomia del politico (e basterebbe, su tutto, proprio l’esperienza di Grillo a dimostrarlo), ma sapendo anche che una cosa è l’autorganizzazione, altro è pensare che tutti saremo salvati nei paradisi artificiali di un’ipostatizzata autonomia del sociale. Bene quei laboratori che, dal basso, costruiscono nuove forme di welfare, di socialità, di alleanza, ma tutto questo deve diventare anche allargamento della sfera dei diritti, dell’accesso alle risorse, ridistribuzione reale della ricchezza, riscrittura dell’agenda politica del paese, definizione di nuove priorità da imporre a gran voce in tutti i luoghi decisionali.

La controparte ha un percorso chiaro in mente, destinato a durare, a sedimentare relazioni durature di potere sulla base dello sfruttamento, della marginalizzazione, della criminalizzazione del dissenso.

La sfida dei movimenti è provare a far saltare la trappola dell’Europa renziana: lo si fa producendo discorso, parlando a tanti, lavorando sui territori, lo si fa lasciandosi contaminare da tutte le esperienze di resistenza che si animano o si incontrano, lo si fa costruendo ponti generazionali, rifiutando le segmentazioni artificiali fra chi sta dalla stessa parte. Lo si fa, soprattutto, rischiando: non esiste altro modo. Ragionare più e meglio del nemico, ma metterci a fianco un pezzo di cuore, ma metterci a fianco passioni felici. Credere che quello che facciamo è provare a cambiare il mondo un pezzo alla volta. Se l’obiettivo è quello si sfaldano posizionamenti tattici, rigidità identitarie: non è tempo di stare a guardare, di vedere cosa succede. È tempo di tentativi, di sporcarsi le mani, di assumersi il rischio di sbagliare, ma farlo perché si è scelta una strada, perché si prova ad insistere, a battere un tempo, a tentare una direzione. Ostinata e contraria, come sempre.

NapoliProject