Migrazioni

Workshop durante PIGS against Troika - Napoli 4, 5 e 6 aprile Napoli

26 / 3 / 2014

In un’Europa in cui i flussi migratori diventano sempre più consistenti e portano ad interrogarsi su come affrontare tali fenomeni, una delle domande che sorgono a chi si ponga in una prospettiva antirazzista dell’accoglienza è certamente “come raccontare le migrazioni?”

Partire da questa domanda può sembrare un mero esercizio mentale, oppure l’irrilevante questione affrontata da chi ha più dimestichezza con i libri che con la prassi. Invece, ricercare una risposta a questo tema è forse uno dei più importanti snodi culturali che il nostro paese – ancor più del resto d’Europa – non riesce ad affrontare.

Ad un’attenta analisi, infatti, non può sfuggire che in Italia l’unica declinazione che il discorso sui migranti assume è quella della cronaca – se si è fortunati – quella della trasformazione in un problema di ordine pubblico – nella gran parte degli altri casi.

Non solo mancano, dunque, le voci competenti di chi si sia formato studiando tali fenomeni ma – soprattutto – mancano le voci dei migranti stessi, le loro memorie di vita e di viaggio, le loro rivendicazioni e i loro diritti.

Ci si è convinti, infatti, che tali diritti siano da trasformare in paternalistiche elargizioni dall’alto, concesse eventualmente solo a seguito di proteste che spesso assumono la forma tragica dell’autolesionismo, come l’ormai tristemente famosa protesta delle bocche cucite nei CIE. L’immigrato è totalmente spogliato della sua capacità auto-rappresentativa, della sua possibilità di essere considerato come individualità portatrice di storie, attraversamenti, memorie potenzialmente innovatrici per il paese d’arrivo. Nel contempo, anche la dimensione della protesta e della rivendicazione gli viene sottratta come capacità di interagire con la società del paese in cui si ferma o transita: il migrante può protestare solo se non dà fastidio e compie azioni esclusivamente lesive del suo stesso corpo.

Questo rientra certamente nel cambiamento culturale che il nostro paese vive da anni e che porta l’opinione pubblica a considerare le pratiche di movimento in maniera del tutto inappropriata, ma diventa inquietante perché assume delle connotazioni specificamente razziste, quando all’immigrato non si riconosce nemmeno la categoria di diritto ma solo ed esclusivamente quella di sopravvivenza: in parole povere, se ci si cuce la bocca o ci si fa del male, si è talmente disperati che qualcuno deve pur provare pietà, mentre scendere in piazza è un lusso che uno straniero non può concedersi.

Si capisce dunque quanto sia fondamentale il recupero di un discorso che analizzi i fenomeni migratori alla luce di una cultura antirazzista e dell’accoglienza, perché essa non si limiti a raccontare storie, ma giunga a costruire memoria collettiva e ad usarla per cambiare la situazione attuale.

Ciò è imprescindibile da un’operazione culturale di recupero della memoria coloniale, post-coloniale e di emigrazione interna ed esterna degli stessi italiani.

L’Italia risulta essere un singolare contesto per la sua storica reticenza a recuperare la memoria di tali questioni, ed è certamente anche da questo che deriva l’assenza di un’analisi interna seria e profonda dei processi migratori: quest’assenza lascia spazio alle letture securitarie e discriminatorie cui si accennava prima.

Ebbene, come affrontare questo enorme problema culturale da un punto di vista di movimento?

Prima di ogni cosa, bisogna restituire la parola ai migranti. Per questo, risultano interessantissime le esperienze delle scuole di italiano nate in spazi autogestiti, luoghi che tentano di passare una conoscenza linguistica a partire dalla relazione di reciprocità e non dal rapporto verticale, luoghi aperti a dare degli strumenti ma anche a riceverne, attraverso la contaminazione che può avvenire solo in un contesto di reciproco riconoscimento e di dignità.

Poi bisogna rafforzare il già attivissimo lavoro di mutualismo, continuando a surclassare la mera filantropia, mettendo in gioco quindi strumenti condivisi tra diverse precarietà e realizzando sportelli per l’informazione, l’assistenza legale, l’inchiesta sociale ma anche per l’autorganizzazione.

In uno stato in cui lo straniero non viene visto come portatore di un’identità interessante in quanto non monolitica, bensì viene considerato un pericolo, una minaccia, un fattore di degrado e di impoverimento, il movimento antirazzista deve porsi come sostituto di istituzioni non in grado (ma più spesso non intenzionate) di offrire accoglienza e diritti.

Ma sopperire alle mancanze istituzionali, o addirittura cercare di alleviare le tragedie create da leggi discriminatorie non può essere l’unico scopo.

Bisogna recuperare la parola insieme ai migranti per determinare un cambiamento che è prima di tutto politico e culturale.

Da un lato bisogna puntare ad eliminare leggi liberticide e xenofobe come la Bossi-Fini (compresa la base giuridica che gli fornisce la Turco-Napolitano), insistendo nella lotta per la chiusura dei CIE, e dall’altro bisogna porre le basi di studi che affrontino la dolorosa pagina coloniale senza separarla dalle conseguenze post-coloniali e dai processi dell’emigrazione e dell’immigrazione ad essa collegati (a volte addirittura ad essa conseguenti). Bisogna riconoscere, in una prospettiva di analisi ma anche di progettazione ed azione, la capacità per i migranti di trasformare positivamente l’europa, a cominciare dalla tutela delle loro identità meticce, per giungere alla rivendicazione di un piano in cui tali identità abbiano libertà di azione, interazione e di trasformazione del reale.

Nell’ambito del meeting europeo “Pigs Vs Troika” si ambisce a discuterne con movimenti antirazzisti provenienti da tutta Europa, mettendo in luce le specificità italiane ma anche ciò che accomuna le politiche razziste di tutto il continente e la nostra capacità di contrastarle, in una prospettiva che ridisegni l’Europa come luogo di scambio e relazioni culturali, sociali, politiche e umane, invece che di imposizione di politiche economiche e di chiusura calate dall’alto. Pertanto partiremo da un importantissimo passo già compiuto negli ultimi mesi, quale la Carta di Lampedusa, scritta da tantissime realtà attive nel campo dei diritti oltre la cittadinanza.

Allegato #1 - Colonialismo
Allegato #2 - Migrazioni Sud Europa
Allegato #3 - Meridione