Né vincitori né vinti

4 / 3 / 2015

“Niente più miliardi per i greci ingordi”: è questo il titolo che capeggiava ieri sulla prima pagina di Bild. Il tabloid tedesco, tra i più venduti nel paese, ha lanciato una vera e propria campagna politica contro l'estensione di aiuti economici al governo di Atene, invitando i propri lettori a inviare selfie in cui ritrarsi con il giornale in mano per esprimere la propria opposizione all'accordo finanziario. Alla campagna hanno risposto in molti, dai manager finanziari di Francoforte agli operai delle regioni meno ricche. Sempre Bild ha condotto un sondaggio popolare dal quale risulta che solo un tedesco su cinque è d'accordo con il piano di aiuti. È opinione diffusa, infatti, in Germania che i greci (ma anche gli altri Piigs) siano responsabili della propria condizione a causa del loro carattere pigro, spendaccione, scansafatiche e che adesso vorrebbero fregare anche i soldi dei laboriosi e oculati tedeschi dopo aver sperperato i propri.

Se questo è il polso dell'opinione pubblica in Germania, non meno rigide appaiono le posizioni di alcuni parlamentari. Alla vigilia del voto di oggi del Bundestag sull'approvazione del nuovo piano dell'Eurogruppo, si è creata una fronda interna alla coalizione di governo composta da una ventina di rappresentanti intransigenti che minaccia di votare contro. Per questo il ministro delle finanze Schäuble si è affrettato a richiamare tutti a un senso di responsabilità nazionale, sostenendo che le richieste della Germania (ossia il prolungamento del vecchio memorandum della Troika) sono state accettate in pieno e che questo sforzo va fatto perché non si può fare a meno di mantenere un piano politico europeo.

È questo dunque il contesto all'interno del quale collocare la linea tedesca nei confronti delle richieste greche di una radicale revisione del piano di aiuti internazionali. Le dichiarazioni intransigenti, il rifiuto netto di una ricontrattazione del debito, la necessità di accreditarsi come gli strenui difensori della austerity: sono tutte conseguenze della necessità da parte del governo della Merkel di non scontentare un'opinione pubblica fortemente contraria a qualsiasi forma di aiuto economico ai paesi in difficoltà e una parte della propria coalizione arroccata in un rigido nazionalismo.

Di segno opposte invece le esigenze di Tsipras e Varoufakis di non deludere il forte mandato politico ricevuto dall'elettorato greco: basta austerity. Anche all'interno di Syriza non sono tardati i malumori e le correnti interne contrarie all'accordo faticosamente raggiunto. Tradimento, delusione, illusione: sono queste le parole usate per descrivere le reazioni contrarie all'esito dei negoziati, che sarebbero risultati largamente insufficienti rispetto alle aspettative riposte.

Vittoria della Merkel e di Schäuble? Oppure raffinata conquista di Tsipras? Fine della Troika o prosecuzione ineluttabile dell'austerity?

Niente di tutto ciò, probabilmente. Se davvero vogliamo giudicare l'andamento dello scontro in campo dobbiamo mettere da parte tanto le pretese ideologiche quanto i facili entusiasmi o le repentine delusioni. Credo ci siano tre considerazioni che possiamo ricavare da quanto accaduto.

La prima è che l'Europa si mostra sempre più come tutt'altro che uno spazio omogeneo. Forte e radicata risulta essere la separazione fra nord e sud, fra i cosiddetti “virtuosi” e gli “irresponsabili”, fra le supposte buone economie e chi invece deve fare i compiti a casa. Tale distinzione sta guidando le politiche neo-liberali di gestione della crisi, volte ad imporre ad alcuni paesi liberalizzazioni e privatizzazioni tramite misure di austerity ed avvicinare così tra di loro le diverse tipologie di capitalismo nel continente. Questa narrazione binaria, però, sta anche producendo una profonda spaccatura all'interno dell'opinione pubblica europea, una spaccatura geografica piuttosto che di classe.

La seconda considerazione riguarda il risultato dei negoziati. È evidente che i rapporti di forza sono, al momento, nettamente sbilanciati a favore dei fautori dell'austerity. Non si tratta di tifare Syriza o di accanirsi contro la rappresentanza, bisogna valutare da un punto di vista materiale quali erano le possibilità in campo. Tsipras e Varoufakis hanno provato a giocare la loro partita, evidentemente opposta a quella della Merkel e di Schäuble. Solo che il coltello dalla parte del manico (i soldi in questo caso) ce lo avevano i secondi. La Germania ha potuto tenere una posizione rigida (ma non del tutto intransigente come avrebbe voluto una parte dell'elettorato) perché la Grecia ha un bisogno drammatico di denaro e quest'ultima era ben consapevole che senza aiuti finanziari si sarebbe aperta una fase di estrema emergenza dalle conseguenze ancora più incerte. Una mediazione era inevitabile, in questo contesto. La complessità dei rapporti di potere attorno ai quali si struttura il capitalismo contemporaneo non permette forme né di autismo sociale (“ci possiamo salvare da soli”) né di idealismo politico (“o tutto o niente”). Si è trattato di un primo scontro che non ha chiuso affatto la partita, semmai ha rimandato la rottura in attesa di (speriamo) condizioni migliori. In ogni caso, ha aperto una breccia all'interno della gestione della crisi, un varco di sinistra ed europeista all'interno della narrazione neoliberale.

E qui arriviamo alla terza considerazione. Forse quello che è mancato è stato una spinta moltitudinaria al cambiamento. La partita si è giocata nei palazzi del potere, speranzosi che un mandato elettorale potesse bastare per cambiare lo stato di cose presenti, non solo in Grecia ma in Europa. Evidentemente non è così. La rottura del regime dell'austerity non prevede un solo canale di azione, ma richiede una molteplicità di piani di lotta. Scontiamo l'assenza di una forte mobilitazione a livello continentale contro le oligarchie del capitale. Se alle trattative dell'Eurogruppo avessero fatto da contraltare cortei di massa e (perché no?) momenti di conflittualità di piazza in molte città europee forse l'ago della bilancia si sarebbe spostato su altri risultati.

Non si tratta dunque di nominare sconfitti e vincitori, di ammainare la bandiera in segno di resa o di consolarsi con i soliti “lo avevamo detto che non sarebbe cambiato nulla”. Piuttosto occorre dare un segnale forte che in Europa, in tutta l'Europa, c'è anche una parte della società afflitta dalle misure di austerity che rifiuta radicalmente la gestione neoliberale della crisi. Un'Europa che non si rinchiude in localismi o nazionalismi, che non erge nuove barriere, ma che punta a costruire nuove forme di democrazia e cooperazione. Il 18 marzo a Francoforte, giorno di contestazione all'apertura della nuova sede della BCE, luogo simbolo della casta capitalista europea, abbiamo la possibilità di dare uno scossone importante all'immagine di un'Europa divisa fra buoni e cattivi, all'idea che non ci sia nessuna alternativa. Il nostro tempo è adesso, cogliamolo.

*attivista c.s.Tpo