Neri a metà. Note su Napoli che saluta Pino Daniele

8 / 1 / 2015

Cosa può un corpo. Ecco tutto tutto quello veniva da pensare ieri sera nel mezzo del cuore gonfio e gremito di Piazza Plebiscito, nel mezzo di quella distesa di oltre 100mila che si è riunita per dare l’ultimo saluto a Pino Daniele. E’ difficile non prendere parola quando, a casa propria, la piazza più grossa si riempie fino a scoppiare e per due notti consecutive accoglie tutti quelli che semplicemente hanno sentito il bisogno di non affidare a youtube o allo stereo della macchina l’esercizio del ricordo, scegliendo invece di renderlo immediatamente un rito e pratica collettiva.

E’ difficile tuttavia evitare le banalizzazioni, le semplificazioni, gli scivoloni retorici soprattutto quando ci si riferisce a momenti di commiato e di dolore. Bisogna procedere con estrema attenzione per provare a non assecondare le stereotipizzazioni (conformi o contrarie a tutte quelle prodotte nelle ultime ore) per dare il giusto peso alla straordinaria fenomenologia sociale che ha espresso la città.Non sfugge a nessuno che Pino Daniele era forse l’ultima grande figura di raccordo, di intreccio, di legame indissolubile tra i corpi differenti di una metropoli difficile che troppo spesso in questi anni si è trovata a dover alzare barricate contro se stessa, prima che contro i propri infiniti detrattori. L’ultimo grande di una stagione culturale e sociale che negli anni ottanta ha saputo fare della inequivocabile marchiatura subalterna della città motivo di sperimentazione e di ibridazione tra generi e linguaggi, producendo dei veri e propri gioielli culturali in netta controtendenza con l’Italia Yuppie della Milano da bere, dei paninari, del gioca jouer e del volere è potere. Basti pensare al blues meticcio di Pino Daniele che nell’ottantuno riempiva la stessa piazza Plebiscito per uno spettacolo meravigliosamente napoletano, o ancora a quella postura timida e impacciata di Massimo Troisi in grado di decostruire senza vergogna tutti quei primordi grotteschi dell’etica della competizione, del successo, della produttività. Napoli, al pari di poche altre metropoli europee e di nessuna città italiana , in quegli anni è stata un faro contro-culturale di cui forse solo oggi, a distanza di trent’anni e con tutto il peso della sconfitta di quelle voci dissonanti, riusciamo a capire lo straordinario portato politico e sociale. Quella stagione si appropriava forse del meglio che restava dagli anni settanta e ne faceva una continua ed irrefrenabile produzione di manifesti di orgoglio subalterno che, piuttosto che cancellare i tratti più escrescenti della miseria, della difficoltà e della differenza, li accentuava, e ne mostrava l’estrema poesia anche e soprattutto attraverso la rivendicazione dell’uso del napoletano e dell’immaginario popolare. Senza vittimismi e senza retorica a partire semplicemente dall’assunzione arrogante di una singolarità potentissima.

Questi manifesti che hanno disseminato la nostra storia personale e collettiva, che hanno modificato il nostro modo di ridere e di fare ironia, che ci hanno insegnato a parlare attraverso le canzoni, che hanno creato più anticorpi sociali di quelli di cui abbiamo avuto contezza, sono gli stessi manifesti che hanno spinto quelle decine di migliaia di napoletani ad invadere le strade e le piazze dopo la notizia della morte di Pino Daniele. Una composizione trasversale per età e per provenienza sociale accomunata dalla sola consapevolezza di essere parti differenti di un patrimonio che senza memoria collettiva non si conserva, anche e soprattutto perché soggetto ad attacchi e strumentalizzazioni costanti da parte dei tanti detrattori della città. Un patrimonio che fa riferimento ad un decennio particolare, in cui la città rischiava di perdersi nel buio dei vicoli, dell’eroina e della miseria ed in cui, al contempo, quella oscurità veniva squarciata dalle voci malinconiche, profonde, beffarde di artisti dalla statura immensa.

La potenza di quel periodo e di quelle voci, la loro capacità di produrre contagi ben oltre il perimetro cittadino, ha avuto come contraltare anche la progressiva edulcorazione della carica irriverente e ingovernabile di cui si facevano fautori. Una edulcorazione così strumentale da permettere a improbabili intellettuali di sinistra, dall’alto di una cattedra giornalistica o per meglio dire di un’amaca malconcia, di sentenziare e ciarlare su come la città avrebbe dovuto vivere il proprio dolore, o per dirla parafrasando l’editorialista di Repubblica, su quanto silenzio ci vuole per fare civile un popolo.

Ci vorrebbe poco ad invitare quel pressapochista di Serra ad osservare attentamente qualcuno dei tanti video girati ieri in mezzo alla piazza, tanto per ascoltarne il silenzio con cui quel popolo compatto ricordava il suo più amato cantore. Eppure noi non dobbiamo giustificarci di nulla. Sappiamo quando è il tempo del silenzio, quando quello delle parole. Sappiamo gridare e reagire quando è il momento di farlo e questo lo dimostra innegabilmente la nostra storia recente e passata. Ma sappiamo anche che proprio questa storia ha difficoltà ad essere compresa da chi non fa parte di questo grande corpo collettivo.

Le lezioni di educazione civica vanno rispedite al mittente per il semplice fatto di essere rivolte ad una città di cui si dimentica volontariamente e sistematicamente la storia di predazione selvaggia messa in campo da tutte le forze politiche che nei decenni l’hanno governata, siano esse locali, nella consueta forma della mediazione o dei clientelismo subalterni o nazionali, attraverso l’altrettanto consueta pratica dell’arrembante sfruttamento post-coloniale.Serra, Lerner e con loro tanti altri, provano a segnare una distanza tutta strumentale tra le mille città racchiuse in una, scegliendone una idealmente composta ed educata nella quale riuscire a ritrovare il loro immaginario piccolo borghese. E’ un’operazione da due soldi, sbagliata, che si mostra nel suo più evidente fallimento proprio in giornate come quella di ieri, quando una voce unica che era un composto di tutte le anime differenti, cantava, in piazza come ad ogni angolo di strada o vicolo, o ancora all’improvviso in metropolitana, quei canti di dignità e riscatto che sono alcune delle più belle canzoni di Pino Daniele. O, in senso ancor meno retorico ed evidente, un errore che si mostrò con la stessa intensità nel saluto immenso di Scampia al giovanissimo Ciro Esposito, il tifoso freddato a Roma dalla mano fascista di De Santis. Anche lì una piazza gremita e silenziosa, nel ben mezzo della barbarie urbanistica delle vele e dell’edilizia popolare, mise le cose al loro posto e individuò i colpevoli e le vittime di una brutta storia italiana.
La città salutò compatta il suo giovane figlio senza prestare troppa attenzione alle costruzioni vergognose che il main stream mise in campo solo un attimo dopo che il colpo fosse esploso sul corpo del giovane ragazzo, per cercare ancora una volta nella “napoletanità scomposta” una sorta di colpa morale di un codice barbarico di cui Ciro sarebbe rimasto indirettamente vittima. Il risultato di tutto questo fu lo strumentale depotenziamento dei tratti più inquietanti della vicenda perché più importante era ancora una volta infierire colpi al corpo sociale della città e costruire stereotipi sempre più grotteschi utili solo a portare acqua al mulino della nazione che odia l’ingovernabilità della metropoli meridionale e non ne comprende la spontanea tendenza all’autonomia e all’indipendenza.

E’ forse esattamente questo il punto di congiunzione tra le giornate di saluto a Pino Daniele e la morte di Ciro. Da una parte la capacità sorprendete di autorganizzazione dei napoletani, quando soli vogliono rivendicare e ricordare una propria perdita e dall’altra la produzione incessante di stereotipi napoletanofobici e vero e proprio razzismo da parte di illustrissime penne della sinistra , e non solo,del paese. Una storia questa che si ripete uguale da anni e ha raggiunto forse il culmine della propria miopia quando in troppi per salutare il cantautore hanno dovuto sottolineare quanto fosse un napoletano non-napoletano, quanto fosse composto, quanto fosse silenzioso, quanto fosse educato, quanto fosse diverso dai classici luoghi comuni sui partenopei. Su Napoli per uno strano motivo vige una zona di eccezione permanente che permette la produzione di opinione senza freni inibitori, quella si senza educazione. Alla volte questa zona di eccezione ci coinvolge, ci compromette e la stessa città non è in grado di togliersi di dosso queste odiose vesti e anzi finisce per farsi la guerra tra sé e sé, si accusa e si vomita addosso tutto quello che andrebbe rivolto all’odioso razzismo confezionato altrove. Come se di per sé la città potesse rappresentare un terreno di scontro tra le parti, senza che questo scontro produca inevitabili generalizzazioni e semplificazioni.

Quello che è vero è che esiste un pezzo di città che vive l’eterno complesso di non sentirsi abbastanza italiana ed europea e che in nome di questa paranoia dell’esclusione non si assume la difesa della città dinanzi agli attacchi violentissimi che subisce, e anzi , in alcuni casi, se ne fa addirittura promotrice. Ci sono poi giornate come quelle appena trascorse che ricostruiscono il tessuto, ricuciono gli strappi che in ogni metropoli complessa non possono fare a meno di aprirsi continuamente. Ma danno soprattutto lezioni a tutti quelli che provano a pacificare quello che è invece un terreno di eterno conflitto, mostrando come la subalternità può diventare l’anelito comune a ricomporre la storia che è stata scritta sullo stesso territorio dalle nostre mille forme di resistenza politica o culturale. E soprattutto mostrano che tutto questo si può fare senza riproposizioni grottesche di riti antichi, senza bere acqua dai fiumi e senza compiangere antichi e nuovi Re. E’ chiaro che su tutto questo pesa una domanda.

Pino Daniele effettivamente era uno dei tanti che ha scelto di vivere altrove e di lasciare la città. Come l’ha fatto, con quale spirito, con quali rimpianti e con quali necessarie distanze probabilmente non sta né a noi né a nessuno cercare di capirlo. Pino certamente non è partito con le motivazioni che spingono tanti di quelli che oggi vanno via.

Eppure c’è un tema che riguarda l’esodo di massa da una metropoli che sarebbe piena di risorse ed in cui invece si vive male ed in condizioni materiali spesso insostenibili. Napoli è una città che oggi costringe troppi suoi abitanti ad un esilio forzato, che in molti casi resta pieno di rimpianti e di nostalgie. E’ questa più di ogni altra la battaglia che dovremmo vincere.

Perché tutti abbiamo il diritto di scegliere e di poter restare al fine di rendere questa permanenza il vero ed unico motore collettivo che può trasformare le sorti apparentemente apocalittiche della città. 

Agire Napoli è un compito che spetta a Napoli.