Never trust a Cop!

Sul quadro normativo internazionale ed europeo per la conversione energetica e il contenimento del cambiamento climatico.

4 / 12 / 2019

Si sono aperti i lavori della Cop 25 di Madrid, sottotono rispetto ad altre Conferenze internazionali. Qual è lo stato dell’arte della legislazione in materia di conversione ecologica e contrasto al cambiamento climatico?

Premessa: diritto europeo e diritto internazionale

È necessaria una premessa: sistema europeo e sistema internazionale non sono sinonimi. Rappresentiamoci, per capire, il diritto europeo come il campionato o la Champions League, mentre il diritto internazionale come una partita di calcetto tra amici. Nel diritto europeo i vari paesi accettano l’autorità sovraordinata di un organismo esterno ad essi, che hanno contribuito a formare o eleggere, che ha il potere di sanzionare il non rispetto delle regole, esattamente come fa l’arbitro nelle partite di calcio di campionato. Se una squadra si comporta male ha delle multe, delle sanzioni fino all’estremo dell’esclusione dal campionato. Le istituzioni europee - Parlamento, Consiglio e Commissione - hanno questi poteri nei confronti dei paesi membri; inoltre le leggi da loro formulate hanno forza maggiore delle leggi interne che, in caso di conflitto, devono essere disapplicate.

Il diritto internazionale è, invece, come una partita tra amici: non c’è nessuno che ha il “potere” di sanzionare chi non rispetta le regole, al massimo l’amico scorretto non verrà più coinvolto nella prossima partita. Non c’è possibilità di sanzione o procedura coercitiva per uno Stato che non si conforma agli impegni presi o che decide di non aderire ai trattati, tranne il principio pacta sunt servanda e la conseguente disapprovazione della comunità internazionale.

Da Rio a Parigi

Avendo chiaro questo schema ci apportiamo al tema. Il cambiamento climatico emerge all’attenzione della comunità internazionale a partire dagli anni ’80. Un decennio più tardi si apre il primo slot legislativo della comunità internazionale sul cambiamento climatico con la “United Nations framework Convention on climate change” del 1992, conosciuta anche come Convenzione di Rio, siglata da 197 paesi, tra cui l’Italia.

L’obiettivo di quello che viene percepito come primo step in un percorso legislativo internazionale, è creare una cornice all’interno della quale gli stati possano scegliere autonomamente il ritmo e gli strumenti con cui diminuire le emissioni di gas a effetto serra.

All’articolo 2 sono contenuti gli obiettivi, nessuno di questi è vincolante, non contiene tempistiche e anche la scelta dei verbi utilizzati è indicativa della poca incisività di questo strumento (si trova maggiormente “may” o “should” piuttosto che il più forte “shall”).

Ma è ancora più interessante l’articolo 3 perché contiene un principio importante: i paesi devono proteggere il mondo dal cambiamento climatico «in accordance with their common but differenti- ated responsibilities and respective capabilities». Ovvero, a secondo della loro responsabilità comune ma differenziata e delle rispettive capacità.

Il riferimento qui è al fatto che chiaramente i paesi più sviluppati come Stati Uniti e gran parte dell’Europa hanno inquinato, in una prospettiva storica comparata, molto di più rispetto a paesi “in via di sviluppo”, ma significa anche che le economie dei diversi paesi fanno più o meno affidamento sull’industria dei combustibili fossili e che, quindi, la facilità (e la velocità) per abbattere le emissioni è inversamente proporzionale al grado di “sviluppo” dello Stato.

Quindi questa frase rappresenta una sorta di clausola di “via libera” che gli Stati si sono lasciati, dal momento che possono sempre dire che gli sforzi che sono stati fatti, o non fatti, vanno letti in relazione alle loro responsabilità e capacità di cui sono autori e giudici.

Bisogna arrivare fino all’articolo 4 della convezione per leggere per la prima volta la parola “shall” e per trovare un contenuto vincolante, riguardo il dovere dello Stato di pubblicare con scadenza periodica delle relazioni sulle proprie emissioni, comparando i propri risultati a uno schema di riferimento fisso previsto dalla Convenzione stessa, che rende quindi possibile misurare eventuali cambiamenti.

Il punto più rilevante della convenzione è tuttavia l’impianto, la struttura. Si tratta di una convenzione “framework” a cornice, dunque obbliga gli stati a riunirsi nelle cosiddette COP (Conference of Parties) per definire strumenti per realizzare gli obiettivi della convenzione: si tratta appunto di una cornice che deve essere riempita.

Il successivo importante step è uno dei protocolli attraverso cui si dà applicazione alla Convenzione, ossia il Protocollo di Kyoto del 1997.

Questo strumento utilizza un approccio definito “prescrittivo”, perché fissa limiti espressi in numeri alle emissioni che devono essere rispettati dagli Stati i quali, una volta firmato il trattato, si trovano vincolati a livello internazionale agli obbiettivi assunti. Proprio per questa incisività e, dal punto di vista degli Stati, interferenza nella politica energetica interna, ha incontrato molte difficoltà a entrare in vigore. Era stato previsto che entrasse in forze solo dopo aver ottenuto la firma di un numero consistente di paesi, ma, essendo i grandi inquinanti come gli Stati Uniti contrari alla firma, non ha avuto un percorso semplice. Entra infatti in vigore solo nel 2005, successivamente alla notifica della Russia.

Il protocollo contiene regole per un primo periodo e poi prevede che gli Stati si trovino in una successiva Cop per ridefinire gli obbiettivi.

Nel frattempo, però, all’inizio degli anni 2000 la “finestra” di disponibilità degli Stati a negoziare obiettivi di transizione ecologica si è chiusa. Gli equilibri mondiali, soprattutto economici, si sono spostati a favore di economie emergenti come India e Cina e, a partire dal 2008, la crisi economica ha rallentato ulteriormente il processo legislativo. Vi sono stati in questi anni diverse Cop - nel 2009 a Copenhagen, nel 2011 a Cancun, nel 2012 a Durban - che sono state un fallimento, visto che non hanno portato nessun passo avanti.

Per trovare di nuovo un accordo internazionale rilevante bisogna aspettare l’accordo di Parigi del 2015. Questo accordo è stato firmato da 195 paesi, tra cui l’Italia, e tutti gli Stati maggiormente industrializzati.

L’approccio è diverso dal protocollo di Kyoto. Anche in seguito all’esperienza di quest’ultimo si sceglie un approccio “bottom-up” o “autonomo” e su base volontaria. Significa che ogni Stato decide volontariamente, in base alle proprie valutazioni e inserendo anche qui la clausola “in riferimento alle responsabilità e capacità comuni ma differenziate”, l’entità del proprio impegno in termini di tagli alle emissioni. Una volta che lo Stato ha reso noti i propri obiettivi questi divengono vincolanti sotto la forza del trattato.

Nell’accordo di Parigi emerge per la prima volta come limite la soglia di 1.5 gradi in riferimento all’innalzamento della temperatura globale massima, e in generale i rimandi ai dati scientifici sono più numerosi e precisi.

Secondo l’accordo di Parigi, il picco di emissioni globali non è stato ancora raggiunto anzi, citando l’articolo 4, i paesi devono impegnarsi per raggiungere al più presto il picco di emissioni massime e aiutare i paesi in via di sviluppo fare altrettanto. Successivamente nell’articolo si fa la previsione che le emissioni inizino a calare solo a partire dalla seconda metà del secolo.

C’è infatti un’altra differenza di fondo tra l’accorso di Parigi e il protocollo di Kyoto: mentre quest’ultimo prevedeva obiettivi vincolati a un certo, limitato, periodo di tempo e poi prevedeva che la Cop si riunisse nuovamente per rinnovarli, l’accordo di Parigi non pone limiti temporali “a scadenza”, bensì vincola le parti a riferire sui progressi fatti relativamente agli impegni presi. In particolare, secondo l’articolo 9 co. 9, ogni cinque anni ciascuno Stato deve rendere conto dei risultati ottenuti alla stessa conferenza delle parti. È rilevante questo punto perché, come abbiamo detto all’inizio, in diritto internazionale non c’è un’autorità sovraordinata agli Stati che ha potere di coercizione; l’unica leva possibile è la “disapprovazione” collettiva della comunità internazionale, nel senso che lo Stato è obbligato a esporre pubblicamente i propri successi o insuccessi relativi a obiettivi che ha volontariamente scelto.

La Cop25 è convocata dal 2 al 13 dicembre a Madrid e ci si augura che il cammino della legislazione internazionale possa proseguire.

Per quanto riguarda il diritto dell’Unione Europea, all’interno di una delle fonti di legge primaria ossia il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, c’è una sezione dedicata all’energia e una dedicata all’ambiente. In particolare l’art 194 ha come focus l’energia.

Come sopra spiegato, le fonti dell’Unione Europea sono sovraordinate a quelle Stati, in caso di conflitto queste ultime vanno disapplicate. Eppure all’art.194 co. 3 il legislatore europeo fa una chiara scelta stabilendo che la decisione su modo e misura con cui uno Stato si procuri la sua energia rimane a discrezione totale di quest’ultimo: «Esse non incidono sul diritto di uno Stato membro di determinare le condizioni di utilizzo delle sue fonti energetiche, la scelta tra varie fonti energetiche e la struttura generale del suo approvvigiona mento energetico».

L’Unione Europea ha firmato il trattato di Parigi anche come organizzazione di Stati, tuttavia questo articolo limita significativamente le possibilità che l’Unione ha di perseguire con successo gli impegni presi, perché anche lo Stato più aperto alla transizione ecologica in materia di energia può in ogni momento replicare a eventuale legislazione secondaria dell’Unione (direttive, regola- menti ect) visto che, in riferimento al riparto di competenze, il TFUE affida proprio agli Stati la decisione finale sulla politica energetica interna.

L’UE si è tuttavia prefissata ambiziosi obiettivi: riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 40 % (- 45 %) in confronto al 1990 entro il 2030; aumento dell’efficienza energetica del 32,5 %; raggiungere una quota di energia rinnovabile di almeno il 32% nel consumo complessivo di energia finale. Tutto questo tenendo come orizzonte temporale il 2030.

Sorge spontanea la domanda: che strumenti hanno a disposizione le istituzioni dell’Unione per raggiungere questi ambiziosi obiettivi? All’interno del TFUE un capoverso è nominato “ambiente” (articolo 191-193) oltre al già citato articolo 194 che rientra nel capoverso successivo sull’energia. Inoltre, a partire dal 2001, il parlamento europeo ha prodotto un “pacchetto” di direttive (quindi legislazione secondaria). In particolare vanno citate:

• Directive (EU) 2018/2001 of the European Parliament and of the Council of 11 December 2018 on the promotion of the use of energy from renewable sources

• Directive (EU) 2018/2002 of the European Parliament and of the Council of 1o of December 2018 amending Directive 2012/27/EU on energy efficiency

Un passo ulteriore è stato fatto con Regulation (EU) 2018/1999 of the European Parliament and of the Council of 11 December 2018 on the Governance of the Energy Union and Climate Action. Quest’ultima è la prima fonte europea che si riferisce direttamente all’azione di contrasto degli effetti del cambiamento climatico. È strutturata sullo stesso meccanismo dell’accordo di Parigi, quindi ogni Stato fissa su base volontaria i propri obiettivi. Ma inserisce una serie di passaggi interessanti.

Innanzitutto opera su orizzonti temporali differenziati: se rimane il 2030 la soglia rispetto alla quale misurare gli obiettivi principali, gli Stati sono obbligati  relazionare su base constante alla Commissione Europea i propri livelli di riduzione delle emissioni e di conversione all’energie rinnovabili a partire dal 2019.

Contiene il principio “gap-filling”, l’obbligo di colmare l’eventuale divario tra il livello stabilito dalle istituzioni europee per il taglio delle emissioni o la percentuale di rinnovabili e quello interno del singolo Stato.

Inoltre inserisce tutte queste iniziative in un quadro generale proiettato su una scala di tempo senza soluzione di continuità, fissando obbiettivi a lungo termine.

Questo regolamento rappresenta il più recente, e il più avanzato, step legislativo a livello di Unione Europea riguardo all’azione climatica.

Chiaramente, avendo preso posizione in maniera vincolante durante la Cop di Parigi (e rinnovato la propria posizione a Katowice), anche le istituzioni europee guardano con interesse la conferenza di Madrid, augurandosi un avanzamento a livello globale.

Considerazioni finali

In merito ai passaggi e agli interessi che hanno mosso la legislazione europea, non bisogna dimenticare che l’Unione Europea nasce come un’area di libero scambio di merci, capitali e servizi e che le scelte delle istituzioni europee si muovo tendenzialmente seguendo le esigenze economiche degli Stati membri. La maggiore critica che tutt’ora si muove a come sono costruite queste istituzioni, è il forte deficit di democraticità e poca connessione con i cittadini dell’Unione, che hanno ben poche occasioni di considerare sé stessi cittadini europei e non del singolo Stato membro.

Assodato ciò, non sorprende che la legislazione in materia energetica, anche quando diretta alla conversione in rinnovabili, sia stata mossa per la maggior parte da problemi legati al conflitto con i trattati europei, non tanto in materia ambientale, ma riguardo alla violazione delle regole di libero scambio; uno tra tutti è il caso esemplare ECJ Case C-405/16 P – Germany v Commission.

È tuttavia evidente che i recente l’interesse delle istituzioni europee, e di alcuni Stati trainanti come la Germania, in materia di cambiamento climatico si sia acuito. Non a caso ciò va di pari passo con la nascita di una mobilitazione globale attorno a questi temi, la pressione dell’opinione pubblica, e i moniti pressanti del mondo scientifico. Tutto questo ha effettivamente influenzato il percorso legislativo, tuttavia il meccanismo è lento e soprattutto innervato per sua stessa definizione da interessi economici. Non c’è riflessione su un possibile cambiamento del sistema di produzione e/o di approvvigionamento energetico dei maggiori Stati europei.

Gli stessi giuristi interpellati per coadiuvare e fornire supporto legale ai lavori della Cop sono piuttosto scettici circa lo sviluppo della legislazione, che è di gran lunga inadeguata a fronteggiare la crisi climatica e soprattutto le tempistiche che essa detta.

La pressione del movimento del climatico globale, nelle sue varie forme, ha effettivamente stimolato un avanzamento, quanto meno del dibattito, tuttavia è davvero difficile immaginare che da una di queste Cop si uscirà con legislazione realmente vincolante, particolareggiata e incidente. Questo soprattutto se si tiene in considerazione che uno degli obiettivi dichiarati dell’Unione Europea e della comunità internazionale è non danneggiare l’attuale sistema economico e produttivo.