«Non è caduto dalle scale». Stefano Cucchi è stato ammazzato

15 / 11 / 2019

«Come fa caldo in mezzo alle botte

Della centrale di polizia

Qualcuno non dormirà

Qualcun altro andrà via» 

Canta così Coez in Costole Rotte, dedicata a Stefano Cucchi. Niente di più vero, perché non sono state le scale, non è stato un attacco di epilessia, non è stata overdose come tuona Matteo Salvini nello sciacallaggio mediatico della vicenda (la sorella Ilaria Cucchi lo querelerà per queste sue ultime dichiarazioni). Il trentunenne romano, geometra, è stato ammazzato dalle botte. Pestato in carcere dalla polizia.

Dopo dieci anni si arriva a questa sentenza, dopo anni di battaglie politiche, insabbiamenti e gogna mediatica si riesce ad imputare la responsabilità ai veri colpevoli.

Dieci anni dopo il 15 ottobre 2009, quando Stefano Cucchi, veniva arrestato perché trovato in possesso di una decina di grammi di hashish e sparuti grammi di cocaina. Il giorno dopo, l’arresto viene convalidato dal giudice per le indagini preliminari che lo assegna al carcere romano di Regina Coeli. Il 22 ottobre, a sette giorni dall’arresto, dopo che la struttura penitenziaria aveva disposto un ricovero per “un peggioramento del suo stato clinico”, Stefano muore all’ospedale Pertini di Roma.

Dieci anni fa, lo Stato si ritrovava per l’ennesima volta a fare i conti con delle “cazzate”, degli “errori”, commessi dai propri ausiliari. Parliamo di forze dell’ordine, medici di strutture pubbliche, guardie penitenziarie, tutti insieme appassionatamente in una storia di rimpiattimenti orditi alle spalle di chicchessia: dai familiari colpiti dalla tremenda perdita, ai Governi che nel corso del decennio si sono succeduti. Il tutto con una tremenda puzza di marcio traboccante, in ogni stato e grado dei vari procedimenti penali.

Ma veniamo con ordine.

Il primo procedimento apertosi subito dopo la morte di Stefano, coinvolgeva tre medici e tre guardie penitenziarie, coi capi d’imputazione disposti dalla Procura su omicidio colposo per i primi e omicidio preterintenzionale per gli altri. Tali capi subivano però, nell’aprile del 2010, una derubricazione in abbandono di incapace, abuso di ufficio, favoreggiamento e falso ideologico per i medici e lesioni e abuso di autorità per le guardie penitenziarie. 

Il 13 dicembre 2012 invece, mentre la sorella Ilaria, srotolava le enormi foto risalenti alla visita di Stefano in camera autoptica, entrata poi nella memoria della collettività, i periti del tribunale dichiarano che Stefano Cucchi sarebbe morto a causa di carenza di cure mediche oltre che di cibo e acqua, sostenendo di non potere stabilire con estrema certezza se il corpo del giovane fosse tumefatto a causa di eventuali violenze o per via di un’ipotetica caduta accidentale.

Intanto le indagini si muovevano sull’ipotesi che Stefano aveva avuto una forma di ipoglicemia molto alta, e che le tumefazioni che il corpo presentava non erano così gravi da averlo condotto alla morte.

Nel frattempo un testimone dichiara che Stefano gli avrebbe riferito di essere stato picchiato, un altro invece, di aver visto personalmente degli agenti penitenziari che lo picchiavano.

Il primo grado volge al termine nel 2013, con una sentenza della Corte di Assise di Roma che condanna i medici dell’ospedale Pertini per omicidio colposo, mentre gli altri, compresi gli agenti, vengono assolti da tutte le accuse. La causa della morte di Stefano per i giudici di prime cure è stata causata da un attacco di epilessia.

Il successivo grado di appello nel 2014 si definisce con una sentenza sconcertante. Tutti gli imputati vengono assolti per mancanza di prove. La Cassazione si esprime nel 2015 annullando la sentenza di appello e disponendo la nuova celebrazione del secondo grado per rivalutare solo il capo d’imputazione nei confronti dei medici.

L’appello-bis si definisce con una sentenza gemella: gli imputati vengono nuovamente assolti. La Cassazione, richiamata nuovamente in gioco, annulla la sentenza, ma nel frattempo la spada di Damocle della prescrizione aveva quasi del tutto inglobato i reati contestati.

La famiglia-coraggio di Stefano decide di non demordere e di concentrarsi specificamente sulle condotte dei Carabinieri che per primi lo avevano identificato e condotto in caserma. 

Siamo ormai ad inizio 2017 quando viene disposto dal pubblico ministero il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di ufficio dei carabinieri. Agli stessi vengono contestate le lesioni attraverso l’uso della violenza che in combinato alla condotta omissiva dei medici avrebbero causato la morte di Stefano.

Secondo l’accusa del pubblico ministero Giovanni Musarò, i carabinieri D’Alessandro e Di Bernardo furono i responsabili delle tumefazioni al viso, delle ecchimosi del cuoio capelluto e delle palpebre, delle fratture delle vertebre e le successive infiltrazioni emorragiche in varie parti del corpo. L’indagine ha ricostruito che le lesioni inferte a Cucchi determinarono “una sorta di piano inclinato che condusse alla sua morte”. 

È il carabiniere Francesco Tedesco che scopre il vaso di Pandora. Il militare conferma il pestaggio ad opera dei suoi due colleghi, specificando di non avervi preso parte, anzi, lo stesso aveva cercato addirittura di fermarli.  

Dopo queste rivelazioni, il processo-bis si rinvigorisce di nuovi elementi di prova, fino a definirsi odiernamente con sentenza. I carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro vengono condannati ad undici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale, il superiore Mandolini a tre anni e otto mesi per falso e Tedesco a due anni e sei mesi anche egli per falso (venendo invece assolto invece dall’accusa di omicidio preterintenzionale).

Nelle stesse ore di ieri, 14 novembre 2019, veniva definito anche il processo d’appello-ter che ha stabilito l’intervenuta prescrizione del reato di omicidio colposo per tre medici dell’ospedale Pertini e l’assoluzione per la dottoressa Corbi “per non aver commesso il fatto”.

Il calvario giudiziario si è finalmente fermato con un accertamento delle responsabilità penali in capo alle forze dell’ordine, colpevoli dunque del reato a loro ascritto secondo l’art. 584 del codice penale.

Tale reato, omicidio preterintenzionale o “oltre l’intenzione”, sussiste quando avviene la morte di un soggetto quale conseguenza della condotta del reato di percosse e del reato di lesioni personali, richiedendo quale elemento soggettivo il dolo misto a colpa.

L’amaro in bocca è rappresentato invece dall’intervenuta prescrizione nei riguardi delle condotte ascrivibili ai medici.

Siamo tuttavia di fronte ad una sentenza epocale che coinvolge quanti nel corso di questo decennio, si sono mossi per ottenere verità e giustizia, per sancire che le personalità dello Stato non possono fuoriuscirne impuniti e al contempo con le mani grondanti di sangue.

Quanto ottenuto ieri apre uno spiraglio di speranza per tutte le vittime di Stato che, contrariamente a quanto avvenuto per Stefano dopo oltre dieci anni, restano coperte da un miscuglio di mendicità e silenzi. 

Viene dunque da pensare al puzzle coi tanti pezzi mancanti. 

Parliamo di Giuseppe Uva, Mauro Guerra, Federico Aldrovandi, Francesco Mastrogiovanni, Carlo Giuliani, Aldo Bianzino, Niki Aprile Gatti, Stefano Brunetti, Serena Mollicone, Riccardo Rasman, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, Carmelo Castro, Simone La Penna, Cristian de Cupis, Manuel Eliantonio, tutti loro vittime d’omicidio di un sistema statale che fatica ed arranca nell’opera di autoaccusa.

Non si può e non si deve lasciare l’ansia vorace di ottener giustizia ai soli familiari che, armati di forza di volontà e possibilità di spesa, tentano, alle volte con successo altre volte con nulla di fatto, di ottenere pace. Lo Stato non deve restare fuori dalla porta dei Tribunali a guardare, non può atteggiarsi a mero censore ora e a leviatano repressore poi. Abbiamo la necessità di uno Stato seriamente improntato alla garanzia dei diritti.

Perché non è un problema dei singoli, riguarda davvero chiunque.