Note dalla pandemia: il lavoro tra salute e reddito

Report multimediale del dibattito tenutosi al Centro Sociale Django di Treviso lo scorso 17 ottobre

26 / 10 / 2020

Venerdì 23 ottobre si è tenuto lo sciopero generale della logistica indetto da Adl Cobas e Si Cobas per il rinnovo del contratto nazionale. Per quanto riguarda il nord est, lo sciopero è riuscito in tutti i magazzini in cui era stato dichiarato. Dopo i picchetti davanti ai cancelli di Amazon, DHL, TNT, UPS, Alì, Despar, Prix, ecc., i lavoratori e i solidali sono confluiti davanti alla sede di Confindustria del rispettivo capoluogo di provincia, per ribadire che non si può essere costretti a scegliere tra reddito e salute. La soluzione c’è ed è quella di aumentare salari e servizi pubblici riducendo le disuguaglianze, che durante la crisi pandemica sono diventate ancora più profonde e irrazionali. Basti pensare che il patrimonio del signore della logistica Jeff Bezos, CEO di Amazon e uomo più ricco del mondo, è aumentato di 73 miliardi di dollari tra marzo e oggi, arrivando a quasi due miliardi di dollari. Il Financial Times, testata non certo rivoluzionaria, ha inoltre dimostrato come negli ultimi mesi il patrimonio dei miliardari sia aumentato in tutti i principali paesi del mondo nonostante la crescita economica negativa.

In vista dello sciopero, il 17 ottobre si è tenuto al Cs Django l’incontro pubblico “Note dalla pandemia: Il lavoro tra salute e reddito”, organizzato in collaborazione con Adl Cobas Treviso. Scopo principale dell’incontro era quello di esplorare le possibilità di collegare le lotte sul posto di lavoro con quelle nei territori nell’attuale contesto pandemico, facendo leva sulle rivendicazioni per la tutela della salute e del reddito. Hanno partecipato Francesca Vianello dell’Università di Padova, Ruggero Sorci dell’Adl Cobas, Adamou Yabre delegato Adl alla Bartolini e Jamie Woodcock del collettivo d’inchieste britannico Notes from Below.

Ha introdotto il dibattito Lorenzo Feltrin, ricordando come la pandemia del Covid-19 sia frutto – attraverso la deforestazione e il conseguente avvicinamento della presenza umana a nuove fonti virali – della sistematica devastazione ambientale causata dal capitalismo. Negli ultimi mesi abbiamo visto un’ondata di vertenze lavorative per la difesa della salute, nonché forme di resistenza più carsiche come un aumento dell’assenteismo. Tuttavia, ci sono anche state interventi coordinati dalla destra e infarciti di teorie del complotto contro le misure di sicurezza relative al Covid-19. Il discorso della destra non è certo quello di chiedere forme di prevenzione più collettive ed egualitarie di quelle viste finora, redistribuendo la ricchezza in modo da garantire un reddito degno, ma quello di “far ripartire l’economia”. In questa componente regressiva delle proteste, sembra esserci anche una significativa presenza working class, giacché molti lavoratori sono giustamente preoccupati per l’effetto di lockdown prolungati e altre restrizioni sui loro posti di lavoro, e trovano una risposta nella negazione della gravità della crisi sanitaria e di quella ambientale più in generale. Da questo punto di vista, la pandemia può essere letta come una manifestazione su scala globale del dilemma tra lavoro da un lato e salute e ambiente dall’altro, e del relativo “ricatto occupazionale”.

Nel capitalismo, la protezione e la creazione di posti di lavoro – e quindi la nostra sopravvivenza – dipendono dalla crescita infinita del Pil che però è proprio il meccanismo che sta generando la devastazione ambientale che compromette la sopravvivenza di lungo termine della vita sul pianeta. Se i bisogni riproduttivi dei lavoratori sono la base materiale dell’ambientalismo working class, il nesso tra riproduzione dei lavoratori e lavoro capitalista è la base materiale del negazionismo working class. La rivendicazione di un reddito slegato dalla prestazione lavorativa è allora un modo di rompere la nostra dipendenza dal lavoro capitalista, e quindi dalla crescita infinita e dalla devastazione ambientale con le sue conseguenze sanitarie. Per verificare questa proposta e capire come adattarla alla composizione di classe attuale, è utile lo strumento dell’inchiesta “operaia” sviluppato in Italia a partire dai primi anni ’60 e fondazionale per la nostra tradizione politica. Per questo è stato avviato il Gruppo Nord Est di Inchieste dal Basso.

È seguito l’intervento di Francesca Vianello, esperta di lavoro e migrazioni, che ha parlato delle sue ricerche su salute e lavoro domestico. Francesca ha cominciato spiegando come un gruppo di ricercatrici e attiviste abbia lanciato un appello durante la quarantena, denunciando l’esclusione delle lavoratrici domestiche come categoria dai sostegni previsti dal Decreto Cura Italia. Tale esclusione ha relegato ancora una volta il lavoro domestico all’invisibilità, nonostante fosse stato riconosciuto come lavoro essenziale. Questo paradosso si è verificato anche in altri paesi, per esempio la Spagna, dove le lavoratrici stesse – organizzate in collettivi di base che da poco hanno formato il primo sindacato nazionale spagnolo delle lavoratrici domestiche – hanno avviato una campagna per rivendicare i diritti negatigli dalle prime misure relative alla pandemia.

I dati dell’Inail sui contagi da Covid-19 non dicono nulla sul lavoro domestico, tuttavia sappiamo che il 71% dei contagi avvenuti sul posto di lavoro in Italia riguardano donne, proprio perché gran parte delle occupazioni a rischio sono svolte da manodopera femminile, pensiamo a personale sanitario, pulizie, commercio, ecc. Tra i lavoratori stranieri la percentuale dei contagi femminili sale all’80%, anche qui a causa dell’esposizione del lavoro di cura. La pandemia ha quindi reso visibili i lavori essenziali, quelli fondamentali per la riproduzione della vita, in cui la forza-lavoro migrante è cruciale. L’esperienza delle organizzazioni spagnole potrebbe essere un’utile ispirazione per forme di intervento in queste categorie anche in Italia.

Ha poi preso la parola Ruggero Sorci dell’Adl Cobas Treviso, che ha fatto un’analisi sugli effetti della crisi in diversi settori. La principale distinzione è quella fra categorie che hanno continuato a lavorare durante la quarantena e quelle che hanno visto una battuta d’arresto. La logistica, per esempio, ha visto un enorme incremento di lavoro a cui si è accompagnata una altrettanto enorme negligenza per la sicurezza dei lavoratori. Nel caso della Sda di Porto Marghera, i lavoratori hanno potuto fare un test solo dieci giorni dopo la scoperta di una positività da Covid-19 nel magazzino e in tutto questo tempo sono stati costretti a lavorare, cosa che ha ovviamente causato ulteriori infezioni. Non sempre è facile coordinarsi per imporre un rallentamento che renda realistico rispettare le norme di sicurezza, anche perché la paura di riduzioni di reddito è reale, ma in molti contesti è stato fatto perché non è possibile accettare che la propria vita valga meno di quella degli altri. Un altro esempio di aumento dei carichi di lavoro è ovviamente quello delle addette alle pulizie negli ospedali, che hanno ricevuto guanti e mascherine solo dopo un mese dall’inizio del lockdown.

Per quanto riguarda i settori che hanno visto invece una riduzione drastica delle attività, due casi emblematici sono il turismo e lo spettacolo. Per loro il problema è stato prima quello di vedersi riconosciuti degli ammortizzatori sociali e poi di farne adeguare i volumi e la durata a livelli adeguati a un’esistenza degna. La risposta padronale è come sempre quella di sfruttare la crisi per ristrutturare gli organici e sottrarre diritti, rischio che stiamo già vedendo anche nel settore alberghiero a Venezia. Questo uso dall’alto della crisi si manifesta anche nella risposta delle associazioni datoriali della logistica alla piattaforma rivendicativa per il rinnovo del contratto nazionale, ma è proprio in momenti come questi che bisogna mobilitarsi per un’espansione dei diritti dentro e fuori dal posto di lavoro.

Adamou Yabre ha poi portato la sua esperienza di lavoratore della logistica e delegato alla Bartolini. Il periodo del lockdown è stato particolarmente difficile, perché il magazzino non si è mai fermato. Gli unici per strada oltre ai lavoratori essenziali erano le forze dell’ordine. In agosto c’è stato invece un rallentamento a causa dell’esplosione di un focolaio di Covid-19 nel magazzino. In questa congiuntura, è emerso un netto differenziale di condizioni oggettive tra assunti a tempo indeterminato e precari, giacché la maggior parte dei “fissi” si è astenuta dal lavoro mentre i precari hanno dovuto continuare a presentarsi in magazzino (pena la perdita del posto). Quindi nella piattaforma rivendicativa attuale un punto importante sono i diritti dei lavoratori precari.

Adamou ha fatto appello alla solidarietà attiva  per lo sciopero generale della logistica del 23 ottobre. Anche se lotte degli ultimi anni hanno conquistato miglioramenti significativi, non è possibile adagiarsi su di essi perché i diritti sono sempre in pericolo. Oltre al salario individuale, è importante anche l’accesso al salario sociale tramite servizi pubblici come la sanità, i trasporti e l’istruzione. Adamou ha sottolineato come i lavoratori migranti abbiano una percezione più immediata dell’impatto del degrado ambientale sulla classe, essendo colpiti in modo drammatico dalla crisi climatica nei paesi d’origine. Diranno che cambiare sistema è impossibile, ma la pandemia sta dimostrando che nulla è impossibile.

Infine, è stato proiettato l’intervento di Jamie Woodcock che ha esordito sottolineando come l’esperienza della pandemia e del lockdown sia stata molto differenziata a seconda della collocazione sociale di lavoratrici e lavoratori. Il metodo dell’inchiesta – un metodo di ricerca partecipativo e soprattutto non meramente accademico ma volto a sviluppare un intervento politico nelle lotte –offre una chiave per comprendere quali indicazioni trarre da questa diversità di prospettive. Notes from Below, per esempio, ha pubblicato una raccolta di inchieste che riguardano soprattutto i paesi europei, ma anche gli Stati Uniti e il Brasile. Jamie ha poi parlato della sua esperienza di intervento nel sindacato di base IWGB, notando come gli effetti della pandemia hanno spinto a organizzarsi anche lavoratori in settori dove storicamente queste non avviene. In un certo senso, la pandemia è stata come un flash che ha illuminato il livello di organizzazione presente in ogni posto di lavoro, evidenziando anche come in molti contesti questo fosse insufficiente a rispondere alla gravità della situazione. Infine, a partire dall’ultimo numero di Notes from Below che raccoglie articoli scritti da lavoratori in prima persona sulle loro esperienze di lavoro e di lotta, Jamie ha spiegato come il collettivo si stia ponendo il problema di come passare dalla raccolta di una molteplicità di prospettive a un’analisi generale delle trasformazioni del capitalismo in questa fase cruciale.

L’incontro si è concluso con l’appello a militanti e simpatizzanti a sostenere lo sciopero del 23 ottobre nell’ottica del rafforzamento dei collegamenti tra lotte territoriali e lotte sul posto di lavoro.