Passato Gennaio, l'anno si ritiene
convenzionalmente iniziato. E ciò che ha segnato l'inizio di questo 2019 è
stato senza dubbio il vorticare della cronaca della “lotta al traffico di
esseri umani”. Traducendo dal gergo governativo al linguaggio dei movimenti
sociali si tratta l'attacco sferrato a livello globale ai migranti, alla
solidarietà, all'organizzazione di qualunque azione di supporto, con l'evidente
scopo di polarizzare ancora di più un corpo sociale che nel mantra della guerra
tra poveri trova una risposta all’impoverimento di massa.
Diventa difficile, e non è nostra ambizione, tirare una sintesi dell'evoluzione
dei molteplici discorsi e provvedimenti governativi con cui, “dall’alto”, si
portano avanti le più ardite tecniche di costruzione del nemico, cavalcando la
figura dell’invasore, della “minaccia alla sicurezza nazionale”,
terrorista-fondamentalista islamico. A queste figure della criminalizzazione
corrisponde simmetricamente la creazione dei nemici interni: ONG, reti di
solidarietà, ogni traccia di attivismo per i diritti umani. Ma la Legge 132/18
consente di compiere un notevole salto di qualità; sotto attacco - assieme al
dissenso sociale presente nel corpo vivo della società - finiscono anche i
sindaci che criticano la proibizione di iscrivere le persone richiedenti
protezione internazionale nelle liste anagrafiche.
D’altra parte il Governo ha, unanime, promulgato il “decreto sicurezza”, poi
convertito in legge con voto di fiducia: a suo tempo chiaro indice dello stato
di salute e coesione di una maggioranza parlamentare che ora è alla prova del
TAV. Ma non ci addentriamo in questo terreno, non qui.
Anzi, facciamo notare invece come una sola voce accomuni leghisti e pentastellati
quando si parla di migranti: rivendicano e difendono il blocco della Sea Watch
3 - e di ogni altra imbarcazione - scatenano le rispettive “bestie” da social
network, forse proprio moneta di compensazione per il non allineamento sulle
grandi opere. Attaccano senza mezzi termini quelle esperienze che sono
diventate simbolo positivo e che hanno rappresentato un’alternativa reale e
molto concreta a quello che definiscono “business dell’accoglienza”. La vicenda
di Riace e di Mimmo Lucano è nota: l’emblema di come costruire e sperimentare
pratiche alternative - dall’accoglienza, alla moneta locale fino alla raccolta
differenziata - è stato paragonato dagli apparati dello Stato a un’associazione
criminale.
Tornando alla questione dei sindaci, alcuni vedono con chiarezza che il divieto
di iscrivere i richiedenti protezione internazionale nei registri anagrafici
implica la perdita del controllo del territorio e, soprattutto, l’esclusione da
qualsiasi accesso a minime forme di welfare ed assistenza: ci saranno centinaia
e centinaia di persone non censite, materialmente presenti e magari messe al
lavoro in agricoltura, nei servizi o nelle fabbriche, a dispetto della
situazione formale.
Al (purtroppo) piccolo gruppo di amministratori locali si aggiungono alcune Regioni,
schieramento questo dettato da una ragione di parte politica, il PD ora in
cerca di risalto nell'ancora latente campagna elettorale per le europee più che
di riscatto per le nequizie operate dallo scranno del Viminale da Marco
Minniti.
L’inafferrabile cronaca fa annotare pochi giorni fa la “disobbedienza” di
Leoluca Orlando, primo a violare il dettato della legge iscrivendo quattro
persone tra i residenti a pieno titolo nella Repubblica Italiana. Orlando, ci
piace ricordare, non ha fatto solo questo: la settimana precedente aveva di suo
pugno firmato gli atti per “restituire” la residenza ad alcune famiglie
dimorate presso le case popolari, ma insolventi da anni e dunque in stato di
“occupazione”.
Salvini si trova ora nelle condizioni tecniche di rimuovere il Sindaco e
commissariare il Comune di Palermo. Nelle manovre propagandistiche a caldo,
rispondendo a specifica domanda, aveva annunciato di non voler fare uso di
questa sua prerogativa: Orlando ha gettato il guanto di sfida, vedremo.
Nello spettro delle contromisure delle amministrazioni locali al diniego
dell’iscrizione anagrafica, l'altro esperimento da annotare è l'istituzione dei
registri paralleli al Comune di Napoli, operazione più tecnica che di
“disobbedienza politica”, forse dettata dalla maggior dimestichezza di De
Magistris coi codicilli, ma conserva lo stesso sapore di azione “contro”,
dissenziente, dell'operato del collega panormita.
Il senso della contrapposizione tra Stato centrale e autonomie quali sono le
Regioni ed i Comuni c’è tutto, è incontrovertibile e la Corte Costituzionale
sarà chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità formale tra leggi e dettato
della carta fondamentale.
Questo quadro magmatico, in turbolenta e continua trasformazione, si sottrae a
ogni tentativo di semplificazione, restituendo alle letture immediate
corto-circuiti di senso che mettono a dura prova la capacità di rilevare il
falso logico. Più in là tenteremo di additare alcune conclusioni, con
l'ambizione di stimolare dibattito, azione, proposta teorica e processi di
organizzazione materiale.
Leggendo superficialmente questa rapida rassegna - pur omettendo tra l'altro i
grandi appuntamenti globali e i conseguenti posizionamenti politici come il
meeting di Marrakech che ha adottato il Global Migration Compact, da cui il
Governo ha tenuto fuori l'Italia - appare che il pallino stia in mano ai nodi
del potere costituito.
Il dibattito mainstream si centra solamente sulle dinamiche relative agli
assetti istituzionali, come se solo il recupero della “disobbedienza”
nell’alveo della legalità formale, come se solo i togati della consulta potessero
salvarci dalla barbarie del salvinismo e del razzismo. Dal dibattito dominante sembra
scomparsa quella pluralità di soggetti che rendono possibile un’accoglienza
diversa nell'Italia di Minniti-Salvini e che subisce la scure della legge
dell'esclusione sociale.
Quella moltitudine variegata, forse disomogenea, che il 10 novembre si è
incontrata nella manifestazione “#indivisibili”, lasciando per un giorno il
lavoro incessante nei territori per attraversare le strade della capitale,
unico pronunciamento esplicito e diretto contro la conversione in legge del
decreto sicurezza.
Tutto pare sussunto nella sfera delle istituzioni, del già dato, della
formalità da discutere in punta di diritto. Le piazze però continuano a
sviluppare un discorso, coi presidi che hanno chiesto la libertà di sbarcare
per le persone in ostaggio nel Mediterraneo, così come centinaia di
associazioni e organizzazioni sociali proseguono il lavoro quotidiano fianco a
fianco coi migranti - nuovi poveri, spossessati ormai di qualunque diritto.
C'è dunque un piano materiale, quotidiano, lasciato al lavoro della talpa:
lavoro sommerso, vien da dire, che sembra destinato a restare nascosto.
La talpa scava, mette in relazione ciò che visibilmente – a uno sguardo
superficiale! - resta sconnesso, lontano, distante. Il terreno della
cooperazione sociale, unica prassi capace di trasformare il tempo presente
creando alternative reali al neo-liberismo che stritola corpi e territori, è
ben dissodato. Non ha forse senso porsi la questione di ricercare il principio
di molti e tortuosi percorsi, il nodo sta nell’incessante trasformazione dei
temi, delle forme e dell’intensità organizzativa e di lotta. Inseguendo e
rispondendo senza esclusione di colpi alle politiche neo-liberiste che hanno
segnato il tempo della Grande Crisi dal 2007 in poi, sono le pratiche solidali
auto-organizzate a garantire – con ogni mezzo necessario – la possibilità di un
welfare.
Il mutualismo è stata la risposta materiale allo spossessamento dei diritti
formali, all’estinzione progressiva dei dispositivi di redistribuzione della
ricchezza (diretta ed indiretta), mentre il novero dei sacrificabili
sull’altare del dogma del “rigore per la crescita” si allarga creando una nuova
classe di subalterni, in lotta però tra loro e non contro la situazione loro
imposta. Mors tua vita mea: si
potrebbe concludere che ormai tutto è perduto, l’atomizzazione della società è
un fatto compiuto
Non è così, certo, purtuttavia ciò che vogliamo dimostrare è la grandezza delle
sfide del tempo presente, in cui la capacità di auto-organizzazione in seno
alla società viene messa alla prova sul fronte cruciale della tenuta del
tessuto sociale.
Negli ultimi anni il lavorìo sottotraccia è emerso con picchi di
visibilità e potenza laddove la produzione di “welfare dal basso” si è
intrecciata alle istanze di coloro che sono arrivati nel vecchio continente – e
non ci interroghiamo ora sul perché – ma da subito hanno reclamato condizioni
di esistenza migliori di quelle lasciate e trovate nei luoghi del “sistema
d’accoglienza”. Manifestazioni e lotte – maledettamente concrete e reali – si
sono succedute in tutta Europa, facendosi via via più fitte ed intense. È a partire
da questo, dalla modifica di rapporti di forza, che dobbiamo riorientare il
dibattito per dar forza a una postura che abbia nella modifica normativa un
tassello per istituire un diritto del comune.
Il blocco dei governi reazionari è decisamente più ampio del “blocco di
Visegrad” o del governo 5 Stelle - Lega. La cordata della repressione appare
guidata dall’ideologia neo-nazionalista e sovranista che cavalca da destra
alcune istanze anti-liberiste, ma di fatto cade su due elementi. Da un lato
nell’approccio alle problematiche reali segue il gioco dettato dai potentati
economici (migranti? No: “veri profughi”, sfollati di guerra insomma, oppure
clandestini: usurpatori, truffatori, turisti del welfare). Dall’altro rivendica
l’ “autonomia del politico” nella sua forma più diretta e pura: le decisioni si
prendono perché il Sovrano così ha deliberato. Sovrano è il Popolo, che – date
le forme e i limiti stabiliti dalla Costituzione – ha con le elezioni
legittimato l’operato dei Governi i quali sono disposti ad assumere responsabilità
gravissime pur di proteggere la “Nazione” dalle gravi minacce che la rendono
insicura. E tra queste minacce, quelle esterne sono i migranti, quelle interne
tutte le pratiche di lotta e di solidarietà attiva: picchetti, blocchi
stradali, occupazioni di case, regalare una bottiglietta d’acqua ad un
migrante, opporsi alle loro deportazioni.
La prassi quotidiana continua a vivere di rotture, piccole e diffuse
sovversioni di questo ordine discorsivo e materiale imposto dalle norme e
ribadito di continuo nelle narrazioni dominanti.
La questione che ora vogliamo porre con forza è come far sì che questa
disponibilità a “rompere le gabbie” si consolidi, possa aggregarsi in maniera
stabile così da crescere nella propria capacità organizzativa. Altrimenti tutto
si disperde, gli exploit di piazza
restano nei bei ricordi ma spariscono nella timeline delle immagini spazzati
via dalla propaganda di Salvini o dal prossimo naufragio, e l’unico spazio
resta alla contrapposizione meramente tecnico-giuridica o di superficie.
A ben guardare c’è una faglia che coinvolge anche il piano delle istituzioni, ma
è determinata dalla linea di frizione di questo assetto di organizzazione del
potere costituito con la potenza del sociale cooperante.
Sia chiaro, non certo da queste colonne partiranno strali contro le azioni
giuridiche volte a scardinare le norme razziste e criminalizzanti dettate da
Salvini. Il Diritto, se ancora vogliamo ritenere di vivere in uno Stato di
diritto, può senza dubbio essere strumento utile. Certamente non è il solo,
ancor più certamente il diritto stesso contiene la cristallizzazione di
rapporti di forza dentro la società e tra “società civile” e Stato.
Questi sono oggi i termini in cui è urgente leggere e narrare gli eventi.
C’è una potenza che si annida nel sociale, non facile da scovare, forse più
incline alla silente fatica quotidiana che ai momenti di visibilità, di
protagonismo, di presa di parola diretta. Anche in questo sta l’eccezionalità
della giornata del 10 novembre: il vedersi, riconoscersi, l’essere un intreccio
di relazioni è cosa inconsueta. Questo è un limite che è tempo di superare,
abbiamo bisogno di conoscere questa forza e metterci in relazione, per
esercitare appieno la capacità di trasformazione del reale di cui sappiamo di
essere capaci.
Certamente la grande manifestazione non è venuta sola, né è rimasta isolata:
non si contano più, a livello locale, presidi, fiaccolate, sit-in, e da ultimo anche l'abbraccio alle sedi municipali. C'è,
palpabile, una voglia di mobilitazione diffusa che allude a un movimento, ne ha
la potenza “in sé”. La misura è - al solito - la capacità di coniugare percorsi
di lotta e processi organizzativi: la settimana di mobilitazione che si è
appena aperta si pone come substrato nutritivo per i molti gangli di questo
movimento in fieri, così penetranti in ogni territorio ma forse privi di quella
sicurezza nell'articolare un discorso pienamente politico perché incerti sulla
propria forza.
C’è uno sforzo da compiere, un salto di qualità che chiamiamo organizzazione:
sappiamo che nulla accade da sé, sappiamo che la buona volontà non è
sufficiente. Non abbiamo mai dimenticato, qualora fosse necessario fugare ogni
dubbio, che nulla nasce in vitro: se
la diffidenza – o l’aperta ostilità - alle ricette degli alchimisti della
politica è il nostro tratto identificativo, è proprio per sperimentare un
terreno di auto-organizzazione che sentiamo l’esigenza pressante di una
discussione volta a creare ambiti di confronto e scambio.
Di fronte a noi percepiamo intatta la disponibilità ad agire, benché il governo
(i governi!) restino saldi nella loro linea di reazione, criminalizzazione e si
preparino alla repressione, dalla Sicilia alle Alpi una movimentazione continua
è in atto e non accenna a scemare: come è possibile non disperdere in mille
rivoli questa ricchezza?
Va colto l'attimo, occorre provare a farsi forza a vicenda, a ripristinare
meccanismi di mutualismo e mutuo-soccorso, osare sinergie badando a non cadere
nella tentazione della reductio ad unum, la molteplicità che siamo è la nostra
forza: ciò che serve è affinare la capacità di connettere istanze, lotte e
prassi di giustizia sociale.
Crediamo che l'assemblea di Macerata del 10 febbraio, indetta dall’assemblea
che a Roma ha dato seguito alla manifestazione “#indivisibili”, si collochi nel
pieno di uno spazio di possibilità e sentiamo la responsabilità di contribuire
a renderla luogo vivo, molteplice e fecondo. Questo incontro potrà a nostro
avviso essere strumento di rilancio e di apertura di nuovi percorsi non perché
parte di un processo già pianificato o dettato dalla volontà di soggetti
determinati, anzi. Se alla manifestazione nazionale di novembre aderirono in
forma pubblica più di quattrocento realtà organizzate, l’impossibilità
materiale di imbrigliarle in un alveo già dato è palese ed evidente.
D’altro canto, si debbono porre le basi di una forma di agorà aperta e capace
di guardare in avanti, luogo di socializzazione di prassi, analisi, luogo di
condivisione di proposte organizzative, di crescita comune di consapevolezza,
per far finalmente sgorgare quel fiume carsico ed affermare la volontà politica
di sfidare l’impossibile. Uno spazio comune da inventare insieme: la forma che
crediamo più idonea è quella del “forum”, modellato sulla scorta delle
sperimentazioni zapatiste in Chiapas.
La posta in gioco è alta, il percorso è tutt’altro che agevole e scontato,
intraprenderlo è un atto di consapevolezza e coraggio. La sfida da raccogliere
e rilanciare è la rottura della subordinazione all’arroganza del potere
costituito.
Noi siamo pronti: ci vediamo a Macerata!
(Immagine di copertina: Sherwood Foto)