E' inziato il nuovo autunno dell'Università

Note sulla direttiva Gelmini - editoriale da Uniriot.org

Divulgato il 09 settembre l'ultimo atto della "guerra all'intelligenza" dichiarata dal Governo

11 / 9 / 2009

Il 9.9.09 (capovolto, il giorno della Bestia, 666) il mondo universitario è stato messo in subbuglio dalla direttiva Gelmini del 4.9, protocollo n. 160, Ulteriori interventi per la razionalizzazione e qualificazione dell’offerta formativa nella prospettiva dell’accreditamento dei corsi di studio, che improvvisamente concretizzava voci e indiscrezioni risalenti all’estate precedente e che erroneamente si ritenevano cadute in abbandono (cfr. www.miur.it). Gli effetti di questa road map delle misure legislative e soprattutto amministrative che la Gelmini ha avviato (su sollecitazione della burocrazia ministeriale, che è ancora quella insediata da Berlinguer e Moratti) si preannunciano devastanti, in congiunto con i tagli,  per l’organizzazione accademica e avranno pesanti conseguenze sugli studenti. Vale quindi la pena di studiarsele attentamente per poterle combattere con efficacia. L’inizio del documento è clamoroso. Constata infatti il fallimento integrale del Bologna Process e del 3-2 italiano, in termini non diversi da qualsiasi documento dell’Onda. Citiamo (in corsivo) i §§ 4-9:

(4) «La concreta attuazione della riforma, seppure affinata dai correttivi introdotti nel corso degli ultimi anni, non ha finora prodotto tutti i risultati attesi. Infatti, come evidenziato, da ultimo, dal IX rapporto sullo stato del sistema universitario presentato dal CNVSU:

    * a una prima fase di ripresa del "tasso di passaggio" dalla scuola superiore all'Università (61,3% nel 1999/2000; 74,5% nel 2002/03), sta seguendo una fase di diminuzione (68,5% nel 2006/07), cosicché il numero totale degli ingressi nel sistema universitario è cresciuto di circa l'8% dall'avvio della riforma (284.142 nell'a.a. 2000/2001, 308.185 nell'a.a. 2006/2007 e 307.146 nell'a.a. 2007/2008);

    * le mancate iscrizioni al II anno (tasso d'abbandono) oscillano attorno al 20%, che è lo stesso livello del periodo pre D.M. 509/1999;

    * il 79,6% degli immatricolati sceglie di iniziare il proprio percorso formativo nella regione di residenza (nell'a.a. 2000/2001 tale percentuale era pressoché identica, 80,3%);

    * solo l'1,3% degli studenti decide di partecipare a programmi di mobilità internazionale, percentuale ancora molto lontana dall'obiettivo del 10%, stabilito in sede Europea (Socrates II);

    * gli studenti fuori corso sono in costante aumento dall'avvio della riforma e tale aumento appare in accelerazione; la percentuale dei fuori corso era pari al 31,5% del totale nell'a.a. 2006/2007, contro il 29% nell'a.a. 2005/2006; corrispondentemente diminuisce la percentuale dei laureati (di primo livello) entro la durata normale del corso (cd. laureati regolari), che dal 34,8% del 2005, è scesa, nel 2007, al 29,9%.

    * il tasso di passaggio dalla laurea alla laurea magistrale è quasi del 60%, con i valori più elevati proprio in discipline, come Ingegneria (83%), nelle quali era lecito attendersi l'acquisizione di una formazione di primo livello più direttamente finalizzata a ottenere un titolo immediatamente spendibile sul mercato del lavoro.

(5) Nello stesso periodo sono invece fortemente aumentate le dimensioni dell'offerta formativa universitaria e i costi sostenuti dal sistema universitario, anche a causa della proliferazione delle sedi decentrate, che hanno oggi raggiunto un numero estremamente elevato e difficilmente sostenibile, atteso tra l'altro il fatto che in oltre 70 sedi è attivo un solo corso di studio e in ulteriori 30 ne risultano attivati solo 2, come evidenziato nel predetto rapporto del CNVSU. Dal 2001 al 2006 la spesa totale, in termini reali, del sistema universitario statale è aumentata del 19,8% e l'aumento è stato del 23,4% con riferimento alle sole spese di personale e di funzionamento . A fronte dei risultati dei processi formativi appena esposti appare difficile sostenere che questo aumento costituisca una risposta efficiente alle esigenze di miglioramento qualitativo dell'offerta didattica o di incremento della sua attrattività. Sembra anzi che l'aumento risponda a logiche interne di sviluppo degli atenei o di loro diffusione territoriale senza un reale riscontro positivo in termini di risultati conseguiti. E' invece necessario incentivare le Università a dimensionare la propria offerta didattica secondo principi di qualità e sostenibilità.

(6) Ancora nell'anno accademico 2008/2009, malgrado i reiterati tentativi di contenimento dell'offerta formativa, dalla Banca dati dell'offerta formativa (sezione Off.F ) risultano attivati 5.587 corsi di studio. Considerando i soli corsi aperti alle immatricolazioni "pure" (cioè corsi di I livello e cicli unici), nel corrente a.a. 2008/2009 si contano in totale 3.214 corsi, con un aumento di circa il 32% rispetto ai 2.444 corsi attivi prima della riforma del 2000/01 (tra questi risultavano peraltro compresi 968 diplomi universitari e 21 scuole dirette a fini speciali). Va comunque rilevato che i dati relativi all'a.a. 2009/2010 sembrano indicare una prima diminuzione dei corsi di studio che le Università intendono attivare; nella Banca dati dell'offerta formativa relativa a tale anno risultano complessivamente inseriti alla scadenza del 15 giugno 4.842 corsi di studio, con una diminuzione del 13,33% rispetto allo scorso anno. Questo processo va incentivato ed accelerato.

(7) L'offerta formativa universitaria effettiva non è d'altro canto misurata soltanto dai corsi di studio, ma anche dei diversi percorsi formativi (curricula), nei quali tali corsi vengono articolati, e della gamma di insegnamenti impartiti presso gli stessi. Nella Banca dati dell'offerta formativa risultano attivi, per l'a.a. 2008/2009, come detto, 5.587 corsi di studio, ma 8.259 percorsi formativi effettivi (corsi di studio più curricula); contrariamente a quanto è avvenuto per i corsi di studio, il numero dei curricula inseriti nella Banca dati rispetto allo scorso anno è sceso solamente di 114 unità (-1,38%); ciò significa che, mediamente, nell'a.a. 2008/2009 circa il 48% dei corsi attivati contiene al proprio interno almeno 2 curricula, tale percentuale è salita a oltre il 68% nell'a.a. 2009/2010.

(8) Più in generale, la riforma ha comportato una rilevante moltiplicazione degli insegnamenti. In attesa di disporre di dati aggiornati al riguardo, che potrebbero anche indicare un parziale ridimensionamento del fenomeno, si deve rilevare che gli insegnamenti attivati nell'a.a. 2006/2007 erano 180.001, circa il 55% in più rispetto all'a.a. 2001/2002, nel quale il numero di insegnamenti attivi era 116.182 .

(9) Alla proliferazione delle sedi, dei corsi di studio, dei curricula e degli insegnamenti ha fatto riscontro un incremento significativo del numero dei docenti di ruolo (+20%: da 51.191 nel 2000 a 61.685 nel 2008), pari a due volte e mezzo l'aumento delle immatricolazioni. Si è inoltre verificato un sensibile aumento del numero dei professori a contratto, esterni ai ruoli universitari. Escludendo gli incarichi per attività didattiche integrative, i professori a contratto sono cresciuti del 67% tra l'a.a. 2001/2002 (20.848) e l'a.a. 2007/2008 (34.726) . Un numero tanto elevato e una crescita così significativa nell'arco di pochi anni sembrano indicare un vero e proprio stravolgimento della natura stessa dell'insegnamento a contratto, al quale si deve fare ricorso soprattutto per acquisire competenze specifiche normalmente non presenti nei ruoli universitari». 

      Bene, la risposta a tale quadro fallimentare (per cui gli Atenei hanno le loro responsabilità e che certo per molti aspetti, quali la proliferazione dei corsi inutili, grida vendetta) è il proseguimento degli errori, al solo e dichiarato fine di ridurre le spese, senza nessuna preoccupazione per l’articolazione e la qualità dell’insegnamento. Il taglio dell’offerta formativa e l’aumento delle tasse sono le due lame della forbice che farà a pezzi l’Università. Prima si affama la bestia (legge 133/2008), poi si scatena la lotta per le briciole (lo sconto sui tagli per le Università “virtuose”), infine si dettano le regole amministrative per la mutilazione. Dopo aver richiamato la necessità di una «partecipazione molto incisiva del sistema universitario statale agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica» (§ 9), la direttiva ministeriale sancisce (§10) «la determinazione dell’offerta formativa effettivamente sostenibile tramite la definizione di più adeguati parametri quantitativi» (§11), dedicando l’allegato A a spiegare come procedere con l’adozione dei requisiti minimi di numerosità di studenti e docenti. Fuori da ogni ipocrisia si proclama che lo scopo dell’operazione non è razionalizzare ma risparmiare: «Occorre peraltro ricordare che lo scopo dei requisiti minimi non era quello di definire uno standard di qualità dei corsi di studio, ma semplicemente quello di porre un freno alla eccessiva proliferazione dell’offerta formativa nel momento in cui la stessa non veniva più programmata centralmente dal Ministero ma autonomamente dai singoli Atenei» (§18).

      Dal momento che la definizione dei requisiti era troppo vaga, soggetta a distinzioni e deroghe e commisurata alle aspettative future di organici si chiarisce che vanno aboliti tutti gli sconti sui minimi docenti e studenti (§ 25 e 28-29), per esempio laddove per classi di studio si fissavano basi differenziate di 20 o 30 studenti vanno tutti riportati a 30, ecc., laddove si calcolavano come docenti anche quelli per cui si erano chiesti concorsi bisogna invece attenersi a quelli in carica, caso mai calcolando quando vanno in pensione (e saranno moltissimi negli anni 2009-2012), dato che (con la stessa sfacciata franchezza) «attese le restrizioni al reclutamento del personale di ruolo delle Università statali disposte dalla predetta legge n. 1/2009 per il triennio 2009-20011, non si ritiene plausibile che tali Università possano ancora commisurare la sostenibilità della propria offerta formativa a un’aspettativa di incremento del proprio personale docente».

        In generale si procederà (§ 31) alla «ridefinizione, con valori più elevati, delle numerosità minime degli immatricolati; alla disattivazione dei corsi di studio con un numero di immatricolazioni inferiore a tali valori minimi; alla penalizzazione finanziaria per le Università con corsi di studio aventi un basso numero di immatricolazioni, ancorché superiore ai predetti minimi». Più studenti immatricolati come minimo per attivare un corso e comunque tagli al contributo statale (FFO) per chi ha pochi iscritti (ricordiamo che in Italia, contrariamente al resto del mondo, il numero di matricole e laureati è in calo). Si calcoleranno inoltre (§§ 32-35) i curricoli interni ai corsi di studio come veri e propri corsi, accrescendo di conseguenza i requisiti di docenza e costringendo dunque le Facoltà a sopprimerli o accorparli con qualche trucco. Eguale aggravio verrà previsto per i corsi interclasse (§§  36), rendendoli praticamente quasi impossibili. Non è invece ancora chiaro quanto poseranno le eventuali magistrali finalizzate all’insegnamento. Infine, con qualche contraddizione spiegabile solo in termini di risparmio,  viene bloccato al 20% dell’organico strutturato (§ 45) il numero dei contratti di diritto privato (su cui si fonda l’offerta didattica soprattutto degli Atenei piccoli e medi) e si incentiva (41) la possibilità di conferire incarichi, conteggiabili parzialmente per i requisiti,  ai docenti in pensione (fra i 70 anni, oggi ormai inderogabili, e i 75). Così non si pagano i contributi, come si fa con gli edili in nero e le badanti.

      Ovviamente viene spinto al massimo l’orario didattico dei docenti di ruolo e (giustamente) vengono vietati moduli inferiori ai 6 cfu (§ 47). Tutte queste misure entreranno gradualmente in vigore a partire dall’a.a 2010-11, ma gli onnipossenti Nuclei di Valutazione dovranno tenerne conto già ora (§ 49). In pratica gli effetti saranno anticipati a subito! Inoltre il Ministero (allegato B, §§ 57-58) ne terrà conto immediatamente per premiare o sanzionare gli Atenei. Per il momento gli Atenei privati sono esentati da tutte le misure predette.

      Cosa ne risulterà? Un taglio selvaggio dei corsi, nuovi e tradizionali, di nicchia e di fantasia, umanistici e scientifici senza distinzioni, con particolare intensità nelle strutture piccole e medie e nelle (troppe) sedi decentrate, la chiusura di interi settori disciplinari e il licenziamento della maggioranza dei docenti precari a basso costo, sostituiti con il lavoro gratuito dei dottorandi e la moltiplicazione degli stages affidati a “volontari”. La drastica riduzione dei bienni magistrali e dei dottorati, concentrati in poche sedi e sostituita da inutili master a pagamento, con cui si cercherà di incrementare le entrate aggirando il vincolo, ancora per poco esistente, del monte tasse sul 20% sul bilancio. E probabilmente molte altre cose su cui sarà bene cominciare subito a mobilitarsi con tutto il vasto fronte interessato, in primo luogo le vittime del riordino degli accessi alla didattica della scuola secondaria (progetto di riforma delle Ssis in itinere). Università in subbuglio, abbiamo detto, ma nel senso di un formicaio impazzito, dove ogni docente purtroppo mira solo a salvare il proprio Ateneo, il settore scientifico-disciplinare d’appartenenza, la Facoltà, il corso di laurea, senza porsi il problema di una resistenza collettiva. Le prime reazioni dimostrano il panico più che la volontà politica –qualcosa di già visto. Tocca ad altri, magari più indirettamente colpiti, prendere l’iniziativa.

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