On black friday

L'economia crepa, la democrazia del tumulto è la nostra alternativa!

19 / 8 / 2011

       La borghesia è vile. Ha paura della vita

                                                       Martin Eden, Jack London


Dunque ci siamo, il secondo tuffo è iniziato e si presenta assai più insidioso del primo. Nel 2007-2008 era esplosa la bolla del debito privato, intimamente connessa alla convenzione immobiliare, alimentata, a partire dal 2001, dalla cricca di Bush e Greenspan, in risposta al crollo della Net-economy (marzo 2000). Ora, ad esplodere, è la bolla del debito pubblico degli Stati sovrani, sostegno e «ultima istanza» per le banche in crisi. E si scopre ora, ma era possibile prevederlo nel 2008, che l'insolvenza degli Stati sovrani significa l'insolvenza delle banche, il collasso della fiducia interbancaria, la crisi del sistema di credito. Sta iniziando la catastrofe, quando è il prestatore in ultima istanza a diventare insolvente, allora il circolo vizioso è completo e le vie di fuga non esistono.


Diversi commentatori, sui quotidiani di oggi (venerdì «nero», 19 agosto), insistono sul carattere eminentemente politico della crisi. Federico Fubini sul Corriere della sera (http://www.corriere.it/economia/11_agosto_19/fubini-nei-numeri-ce-eurorecessione_1243f0a8-ca32-11e0-9ddb-a6b1d988da8e.shtml) parla in modo lezioso di «politica subprime», altrettanto Alessandro Plateroti sul Sole 24 ore (http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-08-18/mercati-urlo-politica-221407.shtml?uuid=AaSIzJxD) condanna il deficit di leadership a fronte dell'intelligenza o della previdenza (sigh!) dei mercati. La lettura che ci propongono i “liberisti non pentiti” è molto semplice: laddove sono gli Stati sovrani con i loro debiti a condizionare l'insolvenza delle banche, sta a loro risolvere il problema. Certo i guai non mancano: politiche deflattive e tagli alla spesa sociale comprimono la crescita (di occupazione e consumi); politiche espansive aggravano il rischio di bancarotta e favoriscono fenomeni inflattivi. Quale magia può risolvere tutto questo? Una leadership solida, che sappia dare indicazioni certe ai mercati (ma come?), tranquillizzando gli investitori che in modo isterico si attaccano ai beni rifugio (T-bond americani, alla faccia di S&P, titoli di Stato svizzeri, oro, soprattutto oro). Una nuova leadership che sappia equilibrare il mondo multipolare. È evidente che Obama non risponde ai requisiti necessari, ostaggio com'è del Congresso, laddove l'Europa di Merkel e Sarkozy è sull'orlo del baratro, il Giappone messo in ginocchio dalla catastrofe di Fukushima, il Bric (Brasile, India, Cina) costretto a fare i conti con le prime avvisaglie recessive (d'altronde come continuare ad esportare se i cittadini americani non consumano più?).


Sul fronte riformista spicca l'analisi accorta di Federico Rampini che, già da diverso tempo, ci ha invitati a riflettere sull'andamento a W della crisi. Con estrema lucidità, poi, negli scorsi giorni ci ha proposto rileggendo le analisi di Krugman e Stiglitz un riferimento storico utile ad afferrare la drammatica concretezza del double dip contemporaneo (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/08/18/incubo-della-doppia-recessione-rischiamo-come.html): il 1937, anno in cui una repentina inversione di rotta rispetto al New deal avviato tra il '33-'34, provocò un secondo, pesantissimo, picco recessivo, poi risolto dalla seconda Guerra mondiale, con un prezzo di sangue catastrofico. In questo senso, l'ipotesi riformista suggerisce ad Obama di mettere all'angolo il Congresso e di continuare ad usare la leva della spesa pubblica, accompagnata dal sostegno della Fed che già da diversi mesi garantisce enormi iniezioni di liquidità attraverso l'acquisto di T-bond e tassi d'interesse quasi inesistenti. Eppure il problema sembra non essere risolto: che fine ha fatto la liquidità iniettata nei mercati dalla Fed? Quale il rapporto tra l'aumento della spesa pubblica e i livelli occupazionali? Il deficit spending di keynesiana memoria sembra privo di efficacia, gli ultimi dati americani parlano chiaro, l'occupazione e i consumi non crescono, anzi, e il mercato immobiliare è fermo. L'effetto a cascata della decrescita americana non si fa attendere, ed ecco emergere le prime significative battute d'arresto dell'esportazione brasiliana, tedesca, cinese. I dollari facili non prendono la via degli investimenti produttivi o del consumo, ma quella della speculazione sui differenziali valutari (carry trade), della corsa all'oro, del risparmio, più in generale.


Non si tratta, chiaramente, laddove si afferma l'impossibilità del riformismo keynesiano, di sottovalutare il carattere assai più catastrofico dell'austerity europea. L'Europa senza politica non solo non sembra in grado di proteggere democrazia e welfare, ma non sa fare nulla neanche per le sue banche, per le quali tanto aveva fatto in questi anni. Anzi, nel tentativo di mettere al sicuro le sue banche, attraverso la riduzione drastica della spesa sociale, approfondisce la crisi, paralizza la crescita. In Italia tutto ciò assume tratti ancora più violenti, laddove, oltre alla corruzione che ingrassa (vera e propria cifra economico-sistemica della crisi della rappresentanza politica), procede inesorabile la distruzione della forza-lavoro qualificata. «Piccolo è bello» si è detto per anni (quando si tratta di distruggere i diritti, le misure, per il maschietto italico, non sono più così importanti) e ora piccolo non vale più nulla, incapace com'è di competere sull'innovazione di prodotto. E ciò che non ha perso i volumi del passato (vedi la Fiat), ha pensato, altrettanto, che si potesse procedere comprimendo salari e diritti, piuttosto che investendo in ricerca e competenze. I risultati della Fiat di Marchionne ci vengono consegnati inequivocabili dal venerdì nero: la Fiat non vende e Marchionne è una canaglia, altro che modernizzatore!


Siamo nel mezzo del doppio tuffo allora, non si tratta più di previsioni pessimistiche, ma di realtà. Un tuffo di cui non si riesce a comprendere ancora l'entità. Non fosse altro perché il cervello capitalistico non ha con sé alcun piano, anzi, ha come unico problema quello di campare alla giornata, nella dimensione autoreferenziale dei mercati finanziari. Dittatura finanziaria contro democrazia, barbarie finanziaria conto umanità: questa è la scena in cui siamo immersi! Ed è giusto cogliere nei tumulti londinesi – come fa in modo preciso e illuminante Alberto De Nicola da Londra ‒ una sorta di «keynesismo d'assalto». Oggi l'ipotesi riformista e democratica non può non presentarsi nella sostanza materiale e corporea (affettiva) del tumulto. Il tema, semmai, è capire come connettere il tumulto al progetto, alla pratica del comune, alla costruzione istituzionale. In questo senso mi sembra che le sommosse di questi ultimi mesi, dagli studenti inglesi a quelli italiani, dalle rivolte tunisine agli indignados spagnoli, fino all'esplosione di Tottenham e Brixton, ci facciano fare i conti con una realtà completamente nuova. La trama conflittuale delle singolarità sfugge ai codici della soggettivazione politica del passato (novecento adieu!), il rapporto tra organizzazione politica e nuova composizione sociale non segue strade lineari: tutta una pratica delle molteplicità si impone al desiderio antagonista! Molteplici sono le forme in cui si consolida il comune e lo spazio democratico (tenendo a mente il concetto marxiano di «democrazia espansiva», riferito alla Comune parigina). Il fatto che le agenzie di rating (vedi le valutazioni di Moody's sulla crisi italiana) siano state spaventate tanto dal 14 dicembre e dalla crisi di governabilità quanto dal referendum contro la privatizzazione dell'acqua ci dice che la sfida della «macchina da guerra» o della «motley crew» contemporanea (precaria, meticcia, operaia) è inedita, nella sua difficoltà, e richiede molto amore per il comune (che è segnato anche da funzioni “riproduttive” e relazionali) e la produzione di nuove forme di vita (collettive dunque singolari) e istituzionali.