Ora Marghera progetta futuro

25 / 1 / 2011

Tirare le somme del meeting di Marghera può esser semplice o difficilissimo. Nel primo caso si rischia di perdere il dettaglio, nel secondo il dato unitario. Fortissimo.
Mettere insieme i metalmeccanici della Fiom, i centri sociali, gli abitanti de L'Aquila, i No Dal Molin, i No Tav, gli ambientalisti di lungo corso e i «guerrieri di Chiaiano», era una scommessa quasi azzardata. Ma un passo deciso in avanti, sulla strada del «conoscersi reciprocamente» - anche lasciandosi alle spalle pezzi di «identità», evidentemente non decisivi - è stato fatto. Due giorni di discussione hanno messo in primo piano i molti «no» che ogni soggetto sociale aveva pronunciato nella sua lotta, ricavandone però il senso di diversi «sì» che ora diventano quasi dei punti di programma.
Partendo per forza di cose dalla Fiat e dal «modello Mirafiori», tutti hanno capito che prima di poter dire qualcosa in positivo bisogna opporsi a un modello di produzione che cerca di imporsi come modello di società, di stampo apertamente autoritario. Quel «no», insomma, è «costituente». Detto in altro modo, sulla linea di demarcazione tracciata da Marchionne non c'è spazio per gli equilibrismi: si accetta in blocco o la si rifiuta. «Chi sta con lui è contro di noi», ormai è senso comune.
Quasi l'intera politica italiana non ha perciò più nulla da dire a questo popolo che fa i conti ogni giorno con la crisi: «il nostro è un percorso che non delega più nulla alla politica, vogliamo costruire un'alternativa sociale». E un progetto che sappia fare i conti con la realtà brutale di fronte a tutti. «La risposta del capitale alla crisi è un grande rilancio dello stesso modello che ha portato alla crisi», sintetizza Gianni Rinaldini. Una strada che prevede aumento della disoccupazione e - non è un paradosso - aumento dei carichi di lavoro per chi conserva il posto; generalizzazione della precarietà (a livello europeo, «non è diverso da quel che succede nell'Italia di Berlusconi»), superamento dei diritti universali con operazioni corporative (gli asili o la sanità aziendale, il collocamento privato, scuola e università a misura d'azienda, enti bilaterali impresa-sindacato che gestiscono forme di welfare). Un incubo.
Proprio sul welfare la discussione è stata complessa. Tutti d'accordo che occorre avere l'obiettivo del «reddito di cittadinanza», ma «attenti a dire che va sostituito il welfare lavorista con uno tutto diverso, perché questo lo dicono anche Boeri e Ichino». Argomento direttamente connesso alla lotta alla precarietà e che implica una «politica fiscale», non agevole in un paese dove «i padroni» le tasse quasi non le pagano. Un esempio in positivo viene dall'Ilva di Taranto, dove gli operai «stabili» si sono battuti per l'assunzione degli interinali in scadenza.
Più semplice individuare i «sì» partendo dai «beni comuni», categoria che «ha fatto accendere una lampadina nel cervello di tutti noi». Beni che non sono «cose», tantomeno merci; ma ciò che viene individuato come tale nella «pratica» dei movimenti popolari. L'acqua, certamente, su cui ci sarà necessità di organizzare la partecipazione al referendum «accompagnando la gente a votare». Ma anche il ciclo di rifiuti, che ha scosso un Mezzogiorno dalla «subalternità», senza però innescare derive «leghiste» all'incontrario. Beni che hanno e favoriscono un «linguaggio comune», permettendo di aggregare un mare di iniziative altrimenti diverse, ma che bisogna sapere spiegare in modo comprensibile «alla zia Titina». Beni che sfuggono alla trappola della «legalità formale» (a là Repubblica, insomma), «troppo spesso complice del saccheggio» delle risorse o dell'ambiente. Beni che spingono alla partecipazione perché disegna un modello decentrato, mentre - col nucleare, per esempio - il potere cerca la centralizzazione e la militarizzazione.
La formula non è nuova («agire locale, pensare globale»); è nuova la concretezza con cui viene messa in pratica. Dai beni comuni a «contro la proprietà privata» il passo è davvero breve, e si incarna in due nodi: «giustizia sostanziale» e «democrazia». Ma siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini, le «organizzazioni politiche ed istituzionali» di questo percorso sono necessariamente diverse da sindacati e partiti per come li abbiamo conosciuti finora.
Le «cose da fare» sono un collante e un discrimine. C'è ovviamente la partecipazione allo sciopero dei metalmeccanici questo venerdì (giovedì per l'Emilia Romagna). Subito dopo la battaglia referendaria sull'acqua, una legge di iniziativa popolare per L'Aquila; e poi un momento specifico per affrontare i problemi dei migranti, l'idea di un seminario internazionale («euro-mediterraneo, visto quel che che sta montando qui vicino a noi»). Con l'orizzonte a Genova, in luglio, quando in tre diverse giornate - 22, 23 e 24 - «oltre alle manifestazioni, dovremo organizzare altri momenti di approfondimento come questo». Insieme ai tanti altri soggetti che, nel 2001, avevano dato vita a una stagione intensa ma purtroppo breve. Stavolta, però, per costruire una continuità ambiziosa: verso un nuovo modello di sviluppo sociale.