Pandemia, capitalismo e clima

30 / 4 / 2020

La traduzione della video conferenza tenutasi lo scorso 3 aprile - a cura di Anna Viero - di Daniel Tanuro  che parla delle questioni politiche che attualmente legano la crisi del coronavirus a quella climatica. Daniel Tanuro è agronomo, attivista ecosociale in Belgio, autore (tra l’altro) de “L’impossibile capitalismo verde” (“L’impossible capitalisme vert”) e di numerosi articoli per Contretemps. Pubblichiamo questo contributo in vista del  Webinar - Covid-19 e crisi climatica: la rivoluzione nella rete della vita, che si terrà sabato 2 maggio alle 15 (diretta facebook sulla pagina Venice Climate Camp).

Questa pandemia è un vero evento con la E maiuscola, un evento storico. Ci sarà un prima e un dopo, a livello mondiale. Non tanto in relazione al numero dei morti, che, nonostante sia rilevante, è comunque nettamente inferiore a quello della febbre “spagnola”, che dopo la prima guerra mondiale ne causò più di venti milioni, dai quali oggi siamo fortunatamente ben distanti. 

Quello che dona una portata storica a questo evento è che la macchina capitalista del profitto si è quasi completamente fermata a livello mondiale, a causa di questa cosa che non è nemmeno un animale, un virus, che può a malapena definirsi un essere vivente e che mette fuori uso tutta la macchina e minaccia la salute delle persone. Bisogna quindi proteggere la vita, bisogna proteggere i malati, bisogna curarli, bisogna proteggere anche la manodopera dell’economia capitalista. E questa crisi profondissima si verifica in un contesto particolare, in un momento in cui il capitalismo aveva cominciato una recessione, già a partire dal 2019. La recessione era iniziata e questa pandemia la amplifica in una maniera pazzesca. Un punto importante è che questa situazione sta spostando il focus mediatico e politico. In tempi normali che cosa ci viene detto? Ci parlano della crescita del PIL, della bilancia dei pagamenti, ci parlano dell’inflazione, dei tassi di cambio, dei tassi di interesse eccetera, insomma di tutti quegli indicatori astratti dell’accumulazione del profitto capitalista, dell’accumulazione di valori astratti. Mentre oggi, in occasione della pandemia, il focus è tutt’altro: l’attenzione politica e mediatica è interamente concentrata sul lavoro di infermieri e infermiere, sul loro sovraccarico di lavoro, sui malati che muoiono e su coloro che guariscono, sul lavoro degli spazzini o del personale dei negozi di alimentari, sulla vita delle persone confinate, sui non confinati, eccetera. 

Per riassumere, in tempi normali ci parlano dell’astrazione della non-vita, mentre adesso durante questa pandemia ci parlano della vita e della morte, cioè di ciò che è vivo. Abbiamo qui un cambiamento molto importante a livello del clima ideologico generale sul quale ritorneremo più avanti. 

Il secondo punto è che l’epidemia non è una regressione alle epidemie dell’antichità, non si tratta di un ritorno alla peste nera del medioevo ad esempio, è tutta un’altra cosa. 

É da qualche decennio che si stanno moltiplicando dei particolari tipi di virus. Per primo siamo venuti a conoscenza dell’AIDS, poi dello Zika, poi la peste suina, l’influenza aviaria, la chikunguya, la sars-1 nel 2002 e infine il SARS-CoV-2. Tutti questi virus hanno il comune il fatto di nascere in ambienti naturali squilibrati o sfruttati, oppure negli allevamenti intensivi. Si tratta della cosiddetta zoonosi, cioè il superamento della barriera di specie di un virus che vive negli animali e arriva a infettare l’homo sapiens. L’origine di questa pandemia è quindi del tutto nuova e specifica rispetto a quelle del passato. Il virus stesso è un prodotto delle contraddizioni del capitalismo.

Anche il metodo di diffusione dell’epidemia è particolare: essa si espande molto velocemente, si trasforma rapidamente in pandemia – mentre le epidemie del passato non erano mai mondiali, ma continentali – e si diffonde ovviamente grazie ai mezzi di comunicazione moderni, in particolare attraverso i trasporti aerei, e ancora più rapidamente, soprattutto dal momento in cui la popolazione si concentra in città enormi, in megalopoli, come Wuhan, che conta svariate milioni di abitanti. 

Questi due fattori, la particolare origine del virus e la sua diffusione, ci indicano che non abbiamo a che fare con dei virus arcaici, non si tratta di un’epidemia arcaica, ma si tratta, per usare le parole di Bruno Latour, di epidemie moderne, di epidemie dell’Antropocene. 

Terza cosa, non si tratta solamente di una crisi sanitaria. Sicuramente da un lato abbiamo una crisi sanitaria grave e profonda, ma che si inserisce in una crisi ecologica e sociale più ampia. In realtà, la crisi del covid-19 è la prima crisi globale – sociale, ecologica ed economica – dell’Antropocene.

Alcuni scienziati, che agli inizi degli anni 2000 hanno iniziato a studiare la cosiddetta grande accelerazione e il cambiamento globale, hanno identificato i parametri della sostenibilità dell’esistenza umana su questa terra: 1) il cambiamento climatico; 2) il declino della biodiversità; 3) le risorse di acqua dolce; 4) l’inquinamento chimico; 5) l’inquinamento atmosferico da particolato fine; 6) la situazione dello strato di ozono; 7) la situazione dei cicli dell’azoto e della biosfera; 8) l’acidificazione degli oceani; 9) l’occupazione dei suoli; 10) lo strato di ozono. In conclusione al loro rapporto, consegnato nel 2015, questi scienziati hanno estimato che la soglia della sostenibilità veniva oltrepassata da quattro di questi parametri: il clima, la biodiversità, l’azoto e i suoli.

Per utilizzare un linguaggio biblico, potremmo dire che questi quattro parametri sono i quattro cavalieri dell’apocalisse dell’Antropocene, e che la pandemia che stiamo vivendo sta inviando un messaggio: ci sta segnalando che a questo quartetto di cavalieri se ne è aggiunto un quinto, che ad oggi è il rischio di epidemia. 

Quarto punto: questo rischio di epidemia non cade dal cielo, è una minaccia conosciuta, in quanto al giorno d’oggi abbiamo la fortuna di beneficiare di un progresso scientifico del tutto straordinario con capacità di previsioni magnifiche. Gli scienziati ci avevano avvertito dei rischi, non solo di un’epidemia qualsiasi, ma addirittura più precisamente di un’epidemia di questo genere. Dopo l’epidemia della SARS nel 2002 che era già un coronavirus, una serie di scienziati è giunta a delle conclusioni, che sono risultate in alcuni rapporti ufficiali, in particolare in due rapporti all’Assemblea nazionale francese (2005 e 2009), che mettevano in luce la possibilità di un ripetersi di una pandemia come quella della SARS, provocata da una zoonosi. Anche la stessa organizzazione mondiale della sanità, non più tardi del 2018, aveva stilato una lista di minacce sanitarie che pesavano sul globo con una serie di agenti patogeni conosciuti, all’interno della quale aveva inserito una malattia X. L’OMS riteneva infatti probabile la comparsa di un patogeno sconosciuto capace di provocare un’epidemia dalle conseguenze molto gravi, una perturbazione totale della società su scala mondiale. E l’OMS riteneva probabile che questo agente patogeno fosse nuovamente un coronavirus.

Siamo quindi in uno scenario conosciuto, come quello del cambiamento climatico, per il quale gli scienziati lanciano l’allarme da cinquant’anni dicendo che se continuiamo ad emettere gas serra nell’atmosfera, arriveremo a destabilizzare completamente il sistema climatico con delle possibili conseguenze disastrose. Anche qui, i governi non lo stanno prendendo sul serio: come sappiamo le emissioni di CO2 continuano ad aumentare, tranne adesso, durante la pandemia, che si stanno riducendo significativamente. L’apice dell’assurdità o della cecità dei politici è che, per quanto riguarda la pandemia, nel 2003, alcuni ricercatori belgi e francesi erano arrivati alla conclusione che il coronavirus rappresenterebbe una categoria di virus molto stabile e che sarebbe quindi possibile trovare abbastanza facilmente una cura valida, non solo per la sars-1, ma anche per altri coronavirus che sarebbero comparsi in futuro. Secondo i loro calcoli queste ricerche sarebbero costate intorno ai 200 o 300 milioni di euro. Mancavano ovviamente dei fondi pubblici che non hanno ottenuto, dal momento che i governi credono che la ricerca sui farmaci appartenga all’industria farmaceutica, mentre questa non fa ricerca per il bene dell’umanità o per la sanità pubblica, ma per il profitto. Ha quindi bisogno di un mercato e dei clienti solvibili. Ma l’epidemia della SARS era passata e non c’era più un mercato, non c’erano più dei clienti, perciò non ha fatto nessuna ricerca al riguardo. Questo rappresenta perfettamente l’attitudine dei politici e dei responsabili finanziari di fronte alle grandi minacce ecologiche, delle quali la pandemia fa ormai parte, cioè questa incapacità di prendere atto di quello che si conosce e degli avvertimenti che vengono loro dati. 

Questa sordità, o questa cecità, sono innanzitutto determinate dal fatto che i politici sono così tanto subordinati ai dettami degli imperativi capitalisti del profitto a breve termine, che non riescono ad avere una visione di insieme. In secondo luogo c’è una ragione più ideologica: anche loro stessi sono intossicati dall’ideologia capitalista, dall’ideologia neoliberale, e ritengono che le leggi del mercato siano più forti delle leggi della biologia per quanto riguarda il virus e della fisica per quanto riguarda il cambiamento climatico. Ritengono che le leggi del loro sistema economico siano delle leggi naturali superiori e che in caso di problemi il mercato sistemerà tutto. Ma ora abbiamo più che mai la prova che il mercato non regola tutto: se si ordinano alla Cina delle mascherine per proteggere i nostri medici, ma adesso la Cina è bloccata a causa della pandemia, allora non ci sono più mascherine e non si possono proteggere né i medici, né la popolazione. Il ragionamento è molto semplice. 

Il quinto punto riguarda la gestione della pandemia. Oggi tutti i politici sono obbligati ad arrendersi a questa gestione, anche coloro che non lo credevano necessario, come Trump, Johnson e Rutte (primo ministro dei Paesi Bassi), i quali volevano lasciare il virus libero di diffondersi e raggiungere l’immunità di gregge. Anche loro sono stati obbligati a fare marcia indietro, e in fretta. Infatti il non fare niente, che predicavano all’inizio, non solo costerebbe più caro da un punto di vista finanziario al sistema capitalista, ma costerebbe molto anche a loro in termini di popolarità elettorale, cosa che per Trump ad esempio non è da sottovalutare, anzi. Quindi ci dicono tutti la stessa cosa: che si tratta di una questione di bene comune, e che bisogna essere tutti attorno ai nostri politici impegnati alla lotta contro il virus. Ovviamente bisogna rispettare le ordinanze di sicurezza, come l’isolamento e il distanziamento fisico, piuttosto che sociale. Non farlo sarebbe da irresponsabili, ma rispettare le ordinanze di sicurezza non vuol dire che bisogna sottomettersi alla logica politica che si nasconde dietro a queste ordinanze. Una logica di classe, di capitalismo vero e proprio. La prima priorità di questa logica è quella di ridurre al minimo l’impatto della pandemia sul settore produttivo, laddove si ottiene profitto, cioè il cuore dell’economia capitalista. Ecco perché anche chi non appartiene a quei settori produttivi essenziali continua a lavorare. 

La seconda priorità di questa gestione della pandemia consiste nell’evitare di rimettere in discussione la politica antisociale e i piani di austerità portati avanti fino a questo momento, soprattutto nel settore sanitario, ed ecco spiegato il perché del sovraccarico di lavoro di tutto il personale in questi settori. Ovviamente le condizioni perché l’equazione possa equilibrarsi consistono nel chiudere a chiave tutte le attività sociali, culturali o personali che non rientrano in queste categorie, e da qui il lockdown e la quarantena. 

Ad aggiungersi a queste considerazioni c’è anche una preoccupazione politica, sapendo che tutti i governi, o la maggioranza, si stanno confrontando con una terribile crisi di legittimità: la gente non crede più a tutto e pretende un cambiamento. Per i politici la pandemia rappresenta una possibilità per comportarsi come capi militari, cosa che sta facendo Macron in televisione, e per istituire poteri autoritari con il pretesto di lottare contro l’epidemia. Siamo nella logica descritta da Michael Foucault: la biopolitica associata al “sorvegliare e punire”. Si tratta di un serio avvertimento, perché la pandemia è grave, ma non è niente in confronto all’impatto del cambiamento climatico in caso di una transizione verso un cataclisma climatico, con un innalzamento del livello degli oceani di 2 o 3 metri. Ma la gestione della pandemia ci offre un’immagine di come sarebbe la gestione capitalista di una situazione del genere, situazione che i politici non avrebbero ovviamente previsto e che sarebbero costretti ad affrontare. Le loro priorità allora sarebbero le stesse: dare la precedenza alla produzione, mettere nel dimenticatoio le libertà, la vita sociale, la vita culturale, e aggiudicarsi dei poteri speciali in nome della lotta contro la calamità, creando uno stato totalitario. 

Numero sei: l’obiettivo strategico della gestione sanitaria è chiaramente quello di rilanciare la macchina capitalista, ora completamente in panne a causa della pandemia. La questione sfocerà in una crisi economica di ampia portata, più grave di quella del 2007-2008. Per affrontare la situazione attuale i governi devono cedere sulle loro politiche neoliberali: l’UE ha congelato il patto di bilancio e i suoi obiettivi di azzerare i debiti e il deficit. Sono addirittura costretti a rimettere in discussione non solo alcuni dogmi neoliberali, ma anche un certo numero di regole capitaliste, come la sacrosanta libertà di impresa delle aziende. Si allude a nazionalizzazioni e requisizioni: in altre parole bisogna salvare il capitalismo messo in pericolo dal capitale stesso. Questo non significa che ci sia già una rottura con il neoliberalismo e men che meno con il capitalismo, ma sta a indicare che si sta preparando un’offensiva sociale di grandissima portata alla quale le classi popolari si devono preparare a rispondere. 

Mi limiterò a parlare dell’impatto ecologico della ripresa dell’economia capitalista. Impatto che è molto pericoloso. François Gemenne[1] non ha torto quando afferma che la crisi del coronavirus è una catastrofe climatica. Perché ci verrà propinato che bisogna dare priorità all’economia e alla ripresa, con il pretesto dell’occupazione. Quindi, per rilanciare l’economia, bisognerà abbassare gli obiettivi climatici, allentare alcune regolamentazioni ambientali ritenute troppo rigide e così via. Ma François Gemenne non ha nemmeno ragione perché tutto questo non è dovuto dal coronvirus, anzi questa crisi oggi ci sta dimostrando come potremmo ridurre abbastanza radicalmente le emissioni di CO2 di circa il 7% ogni anno, a condizione di ridurre la produzione e il trasporto di merci nel pianeta. Il pericolo non deriva dal coronavirus, ma dalla risposta capitalista a questa crisi di coronavirus, ed è ancora maggiore in quanto questa crisi serve da pretesto o da paravento per rispondere a una crisi economica già presente ancor prima della pandemia.  

Dobbiamo prepararci a un attacco molto duro, perché vorranno mettere sul piatto della bilancia, come spesso accade nel capitalismo, l’occupazione e la difesa dell’ambiente. Eppure c’è una contraddizione molto importante in questa volontà di offensiva: la voglia di rilanciare e di dare priorità al capitale e al suo profitto si scontra con la sensazione della popolazione di essersi spinti troppo in là con l’economia e il profitto da essersi dimenticati il sociale, la salute, la cura delle persone. Questa contraddizione rappresenta un grande ostacolo per l’offensiva capitalista che vogliono lanciare i governi.

E oggi, alla luce della pandemia, il prendersi cura assume un significato molto concreto. Si tratta di evitare altre pandemie che potrebbero essere più gravi, anch’esse originatesi dalla distruzione degli ecosistemi. 

La conclusione è evidente: se vogliamo evitare altre pandemie, bisogna abolire l’agroindustria, gli allevamenti intensivi, bisogna fermare la deforestazione, bisogna sviluppare una riforma urbana a lungo termine che decostruisca tutte le megalopoli e costruisca città più interconnesse con gli ambienti naturali o seminaturali. Per lottare contro le pandemie c’è soprattutto bisogno di acqua potabile, alla quale centinaia di migliaia di persone non hanno accesso. L’acqua deve essere pubblica e non deve servire a irrigare le piantagioni dell’agroindustria. Allo stesso modo, se vogliamo costruire dei sistemi sanitari robusti, capaci di affrontare le nuove pandemie dell’Antropocene bisogna rifinanziarli radicalmente. E per farlo bisogna far pagare gli azionisti e annullare il debito nei paesi del sud del mondo. Quarantasei paesi usano più soldi per gli interessi sui debiti che per l’assistenza sanitaria. L’annullamento del debito è una condizione sine qua non per la lotta contro le pandemie. 

E c’è anche il cambiamento climatico in sé[2]. Si sa che lo scioglimento del permafrost libera dei virus o dei vecchi batteri, che si diffonderanno attraverso i lavoratori delle miniere situate nelle regioni interessate. Ecco perché è assolutamente necessario rispettare il limite di 1,5°C del riscaldamento globale stabilito a Parigi. Bisogna socializzare l’energia e la finanza. 

Insomma, bisogna puntare sul concetto del “prendersi cura” – una tematica sviluppata dalle (eco)femministe – per sbrogliare l’insieme degli obiettivi capitalisti. Bisogna riformulare l’alternativa ecosociale partendo da questo concetto, da questo importante cambiamento, ossia che la gente impari dalla crisi che bisogna dare molta più priorità alla salute, al benessere e all’assistenza sanitaria e che per farlo bisogna sfruttare tutti i mezzi a disposizione. Questo rappresenta un’importante svolta strategica, in quanto gli ecosocialisti affrontano da anni lo stesso problema problema: la lotta ecologica come anche quella sociale, nel lungo termine, sembrano come in contraddizione con il benessere sociale a breve termine. Ora, con questo grosso cambiamento, con l’avvento del “prendersi cura”, le due problematiche si sovrappongono, il sociale e l’ecologico coincidono: portare avanti una lotta sociale significa portare avanti una lotta ecologista. 

È questa svolta che bisogna cercare di sfruttare e che bisogna vedere come un’opportunità. Le conseguenze sono immediate e bisogna iniziare adesso la lotta, andando contro il sistema e i progetti produttivistici, come quello del 5G, lottando perché la salute venga spostata fuori dal mercato e venga rifinanziata, per l’eliminazione dell’industria farmaceutica, per la socializzazione delle banche eccetera. 

Trascrizione realizzata da Le Groupe écosocialiste de solidaritéS e revisionata dal relatore.

Note

[1] Membro del IPCC e coautore de Atlas de l’Anthropocène, Paris, Presses de Sciences Po, 2019.

[2] «Pourquoi la crise du coronavirus est une bombe à retardement pour le climat», Le Soir, 20 mars 2020,

Tratto da: