Pandemia e crisi climatica nell’Antropocene: intervista a Francesco Vacchiano ed Ernesto Burgio

L’intervista dopo la prima lezione in piazza a Venezia del Collettivo Universitario Li.S.C.

13 / 5 / 2021

A distanza di un anno dalla diffusione globale del virus SARS-Covid-19, è ormai innegabile la correlazione tra la crisi climatica e la pandemia che ancora non dà tregua. Tuttavia, il nesso causale tra le due presenta numerose sfaccettature che ancora non sono chiare e devono essere sviscerate al meglio. In un mondo sempre più surriscaldato e interconnesso, in un’epoca comunemente chiamata col nome di Antropocene, è necessario ragionare su che cosa abbia dato origine a questa situazione pandemica, su come la si sta affrontando e sulle contraddizioni del sistema capitalistico che essa pone in luce, più che mai oggi esacerbate.

Per avviare una riflessione collettiva e stimolare un approccio critico alla situazione, il Collettivo Universitario Li.S.C di Venezia ha organizzato il 7 maggio una lezione all’aperto con tre relatori, docenti universitari e ricercatori, che hanno proposto degli interventi sui temi di pandemia e cambiamento climatico, impatto antropogenico sulla biosfera e zoonosi, sanità pubblica ed economia. In un momento di crisi sanitaria in cui l’istituzione universitaria ha dimostrato di non riuscire ad assicurare l’accesso alle aule in sicurezza, la scelta di proporre una lezione all’aperto in Campo Santa Margherita a Venezia è una presa di posizione politica volta alla riappropriazione degli spazi urbani da parte dellə studentə, comunità che è stata colpita duramente in quest’ultimo anno.

I relatori della lezione sono stati  Silvio Cristiano, assegnista presso il dipartimento di Scienze Ambientali; Francesco Vacchiano, ricercatore e docente di antropologia della salute; Ernesto Burgio, membro dell’ECRI (European Cancer and Environment Research Institute) e del gruppo COVID SIPPS (Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale). Gli ultimi due, alla fine della lezione, hanno rilasciato una breve intervista.

Durante il seminario ha parlato di sanità capillare, cosa non ha funzionato nel sistema sanitario pubblico durante e anche prima della pandemia?

Francesco Vacchiano. Durante la presentazione ho detto che il virus atterra in un contesto specifico che è già segnato da una serie di scelte, che significa una serie di opzioni in termini di economia politica che sono state fatte rispetto all’organizzazione della sanità; un sistema che progressivamente negli anni è andato verso lo specialismo e ha sacrificato la salute comunitaria, la sanità di base, capillare.

Noi vediamo che le regioni che hanno sofferto di più, nei momenti peggiori della pandemia, sono quelle che avevano optato molto su questo tipo di modello, basato fondamentalmente sulla partnership tra pubblico e privato, dove il pubblico paga le prestazioni dei privati, creando una centralità degli spazi ospedalieri, perché ovviamente il privato investe in cliniche private, in ospedali, sacrificando la sanità di base. Si sacrifica dunque tutta quella sanità di base, che è la sanità territoriale, le unità circoscrizionali, che avrebbero potuto svolgere degli interventi importantissimi sia a livello di tracciamento, sia, mobilitando risorse, a livello di interventi per esempio di outreach, ovvero tutto quello che significa “uscire fuori” e andare dalle persone a fare tamponi, a seguire il processo di tracciamento e monitorare le loro condizioni fisiche e psichiche.

Sto dicendo una cosa banalissima, ma che nell’attuale configurazione del sistema sanitario, per come è concepito al momento, potrebbe essere percepita come una cosa assurda. Invece stiamo parlando di come potrebbe essere programmata la salute a livello di base; una salute comunitaria è una salute che considera più importanti i ruoli non specialistici, si parla proprio di piramide della salute. Gran parte del lavoro lo fanno i non professionisti, lo facciamo noi che nelle situazioni quotidiane a contatto con persone possiamo fare moltissimo. Lo specialista interviene solo alla fine, mentre invece la centralità ospedaliera crea un modello totalmente distorto e non sostenibile, un modello in cui si perde la possibilità di fare prevenzione, interventi immediati e capillari e accompagnamenti che sono necessari nei casi in cui le persone hanno bisogno di livelli di intervento superiore, tra cui anche il livello specialistico, il ricovero, la terapia intensiva.

Bisogna invertire completamente l’ordine dei fattori, perché quello che è preoccupante, e noi lo diciamo da venti/trenta anni, è la tendenza che va in direzione opposta. Queste sono scelte irresponsabili, scelte che comportano letteralmente la vita e la morte delle persone, sono, come si dice in antropologia, necropolitica, politiche che determinano le condizioni di vita e di morte delle persone. 

La pandemia ci ha fatto ripensare ai concetti di zoonosi e di convivenza con le altre specie. Come possiamo riconcettualizzare il rapporto uomo/natura nell’Antropocene?

Ernesto Burgio. È una domanda che ovviamente merita una risposta molto articolata, ma cerchiamo di sintetizzare: le pandemie sono sempre eventi epocali che denotano da parte di homo sapiens la rottura di equilibri sistemici. In genere sono collegate a guerre, migrazioni, situazioni di scompenso sociale o anche in questo caso di scompenso degli ecosistemi.

Noi da almeno vent’anni sappiamo che una pandemia era imminente e quasi immanente, nel senso che ci sono una quindicina di virus influenzali, aviari, e alcune centinaia di sottotipi di Bat-Coronavirus, di questi Coronavirus dei pipistrelli, che hanno acquisito delle sequenze, quindi delle mutazioni, pericolose, che li rendono potenzialmente capaci di invadere la nostra specie e di diventare appunto virus pandemici.

Tutto questo come mai? Sicuramente perché stiamo creando una pressione selettiva fortissima sui virus: gli allevamenti intensivi di tutto il mondo sono luogo in cui le specie che normalmente sono separate, che normalmente vivono in natura, sono costrette a modalità di vita e anche a interazioni tra specie che non sono naturali. Gli allevamenti intensivi sono ormai il 60% della biosfera animale, nel senso che il 60% degli animali sono ormai prigionieri di questi allevamenti; il 36% sono gli esseri umani e gli animali liberi sono il 4%. Per di più in questa situazione già stravolta abbiamo creato tramite una serie di follie, come le deforestazioni selvagge e le megalopoli in cui vivono tra le 25 e 30 milioni di persone a ridosso di quelle zone che sono state deforestate, la situazione ideale perché animali come i pipistrelli vivano a ridosso degli esseri umani.

Siccome questi pipistrelli fungiferi da un lato sono pieni di virus, non pericolosi per loro perché sono in equilibrio nel loro ecosistema, ma pericolosi per l’uomo in quanto questi pipistrelli penetrano nelle megalopoli e hanno la cattiva abitudine di sputacchiare la frutta che mangiano, e questi detriti alimentari vengono a essere direttamente assunti anche perché gli abitanti  stessi delle megalopoli li prendono per terra. Queste sono situazioni drammatiche che noi conosciamo da almeno vent’anni, ma che non sono bastate a far capire l’urgenza di interventi. 

L’ultimo punto, forse quello più essenziale: questi sono fattori specifici, ma c’è proprio un equilibrio che stiamo alterando. Si parla spesso di cambiamenti climatici, si parla di crisi sociali, di crisi energetica, ma non si parla di crisi della biosfera. La biosfera è nell'ecosfera la parte più sensibile e in cui le trasformazioni sono più rapide; la parte essenziale della biosfera sono i microorganismi, i batteri e i virus, che tra di loro sono da miliardi di anni in simbiosi. Noi stiamo letteralmente mettendo sotto pressione tutto questo, quindi di fatto o si rallenta e si comincia a invertire questa sistematica forzatura delle leggi naturali, o rischiamo di far si che questa pandemia anziché essere un’esperienza dolorosa ma importante, si la prima di una serie: qualcuno parla già di era delle pandemia, qualcosa che dobbiamo assolutamente scongiurare.