Pandemia, movimenti e crisi ecologica

Una conversazione con Salvo Torre e Alice Dal Gobbo, attivisti e ricercatori di POE (Politics Ontologies Ecologies)

6 / 8 / 2020

Durante un talk di Radio Sherwood abbiamo conversato con Salvo Torre e Alice Dal Gobbo, attivisti e ricercatori di POE (Politics Ontologies Ecologies) sulla fase che stiamo vivendo, gli intrecci tra la pandemia e la crisi ecologica, le prospettive per i movimenti sociali. La conversazione offre ottimi spunti di riflessione verso la seconda edizione del Venice Climate Camp.

Partiamo dalla “fine”, dando per assodato il rapporto diretto tra crisi sanitaria e crisi del capitalismo: come possiamo rompere questo trand?

Salvo: Nella discussione su come se ne esce, su come si evita sta diventando quasi superfluo discutere del fatto che l’unico modo è cambiare radicalmente le modalità con cui abbiamo organizzato la nostra vita quotidiana, l’organizzazione generale del sistema perché proseguire all’interno dello stesso schema significa trovarsi nella stessa situazione in maniera pressoché regolare. Non è dentro quel quadro che si troveranno le soluzioni.

Alice:Partendo dal discorso del cambiare la vita per come ce l’ha posta la pandemia, mi pare che sia molto interessante notare come nella narrazione mainstream si è parlato degli effetti positivi del virus sull’ambiente, narrazione a mio avviso negativa perché nel momento di ripartire (se intendiamo con questo termine il ritorno al sistema che c’era prima) gli effetti positivi si annullano, dovendo accelerare per recuperare il tempo perduto. Dall’altro lato si è notato come fermarsi o rallentare il ritmo di produzione e spostamento di persone e merci abbia effettivamente un riscontro ecologico. Durante la pandemia abbiamo vissuto vite rallentate, sospese, diverse e sviluppato un rapporto diverso con il nostro intorno. Abbiamo anche iniziato a pensare alle vere  necessità e priorità. È stato un momento di sospensione che apre delle possibilità di ripensamento e messa in discussione.

Una questione preponderante emersa durante la pandemia, che continua a generare dibattito, è la questione della cura, un concetto che appare sempre più politicizzato. Cito le attività di mutualismo dei movimenti, un muro contro quella narrazione decadente del “chiudiamo tutto vs apriamo tutto”.  I movimenti hanno creato una nuova narrazione, aprendo un ragionamento verso nuove forme di welfare e una nuova concezione dei beni comuni. Che scenario apre un ragionamento realmente politico sul tema della cura?

S:La prima questione è che dobbiamo prepararci alla più grande crisi della storia del capitalismo, che si ripercuote in maniera diretta sulle fasce più deboli ed è destinata a trasformare il volto e il funzionamento generale del sistema. La solidarietà è sempre stata un campo politico, dentro il quale agisce una visione alternativa della realtà sociale, un campo in cui ci si oppone all’egoismo sociale, a quell’idea di civiltà in cui l’unica finalità è l’affermazione individuale a discapito degli altri e in cui la sopraffazione è ciò a cui siamo naturalmente vocati.

Mi aspettavo che durante la crisi emergessero le esperienze di mutualismo, perché sono parte integrante della nostra storia e tradizione culturale e sono sempre riemerse in tutte le fasi di crisi. Mi aspettavo,anche, come è avvenuto, la narrazione che c’è stata: tutta ripiegata sull’aspetto egoistico, sulla paura individuale e sulle reazioni di vicinato e di controllo nei confronto degli altri. In questa narrazione è stato eliminato quanto sia stata importante l’azione organizzata politicizzata delle esperienze di solidarietà e la possibilità che quelle esperienze possano garantire la possibilità di costruire e reinventare le forme di comunità. È la prima volta dopo tanto tempo che questo succede e ripoliticizzare la cura significa rileggere i principi fondamentali su cui ruota il nostro sistema. Significa dire che la cura, l’attenzione nei confronti di tutte e tutti, è il principio attorno al quale funziona la comunità. L’esatto opposto rispetto ai principi base del capitalismo.

A:Durante il lockdown si è molto romanticizzata la quarantena come spazio in cui ritrovarsi, rallentare…di fatto questa retorica ha oscurato il disagio e l’esperienza della crisi intesa sia come difficoltà di arrivare a fine mese, sia come crisi delle relazioni, il cui esempio è l’aumento dei casi di violenza domestica. Sono state esacerbate quelle linee di disuguaglianza e privilegio che attraversano la nostra società e delineano chi può permettersi di stare bene e chi invece sta male. L’esperienza del disagio profondo è stata una di quelle esperienze trasformative durante la tragedia della quarantena. Mi pare che il lavoro di mutualismo e politicizzazione della cura sia stato importante perché non ha tamponato il disagio ma usatola solidarietà per creare ponti tra soggettività diverse e in questo modo dire “un altro modo di stare al mondo esiste, è possibile, lo possiamo e sappiamo praticare”. E quel modo è più efficace di quello che ci viene proposto come dominante e che ha fallito.

Se questa crisi apre degli scenari, come possono i movimenti sociali contemporanei esserne all’altezza?

A: In questa crisi confluiscono molti livelli e tutti in modo evidente. La pandemia da una parte, con la chiusura della produzione, ha generato un  problema di lavoro e reddito, dall’altra è stata essa stessa il risultato dell’organizzazione socioecologica data dal capitalismo. Si è palesata anche una crisi politica in quanto le istituzioni non sono in grado di rispondere e non è mancata la questione del razzismo e del colonialismo, come si è visto negli Stati Uniti con Black Lives Matter. Tutte queste crisi stanno esplodendo contemporaneamente su un terreno comune: la crisi del sistema. I movimenti, articolati su diverse linee delle contraddizioni del sistema e seppur con articolazioni diverse, hanno come grande sfida trovare un terreno comune su cui agire. 

S:Per rispondere penso alla storia dei movimenti. Su grandi periodi, la modalità capitalista è stata sede di una costante tensione conflittuale, si è nutrita di conflitti e ha costruito una società per nulla pacificata in cui i livelli di conflittualità determinavano i mutamenti sociali e della politica. Il racconto della società pacificata è solo una narrazione delle società più economicamente forti. Penso alla visione dell’Europa come spazio di pace, mentre all’interno dei suoi confini c’è una guerra. Abbiamo continuato a muoverci in questa narrazione edulcorata e lo stiamo facendo anche nell’attuale crisi.

Al contrario tutti i movimenti negli ultimi anni hanno disegnato un percorso nuovo , uno spazio della politica completamente diverso. Mentre la finanza aveva disegnato lo spazio dello scambio economico globale, i movimenti stanno disegnando uno spazio politico globale in cui le tematiche sono le stesse e si esprimono contemporaneamente anche nella tensione verso qualcosa di nuovo. Questo non si ferma con la pandemia né con la crisi: ciò che sta accadendo in Francia e negli Stati Uniti non si ferma con la pandemia.

La crisi, tuttavia, porterà una novità e l’ha già determinata nella ridefinizione degli schemi di potere del grande capitalista. Sta rafforzando, allo stesso tempo, la caratteristica del sistema, per cui i movimenti definiscono e producono l’innovazione. Questa volta il conflitto consisterà nell’impedire al sistema di inglobare questa innovazione e convertirla in qualcosa di produttivo ai fini della valorizzazione capitalista. La sfida sarà non far diventare le rivendicazioni emergenti qualcosa di utilizzabile ai fini del mercato.  

A proposito della crisi sistemica, uno dei problemi maggiormente emersi durante il lockdown  è stato la mancanza di liquidità a cui si lega il tema del reddito e della redistribuzione della ricchezza, ulteriormente legato alla questione ecologica dentro i nessi della riproduzione sociale. La questione del reddito emerge come problema strutturale della società contemporanea, anche a fronte della recente approvazione del Recovery Fund. Come possiamo far diventare il reddito un terreno comune di rivendicazione e mobilitazione?

A:Il tema del reddito è centrale per i movimenti, penso anche a quelli femministi che hanno interrogato il tema e rivendicato un reddito per il lavoro riproduttivo. Nella condizione di crisi sistemica che stiamo vivendo si è però annullato anche il luogo della produzione come luogo di reddito. Chi aveva prima un reddito, perché legato in qualche modo al lavoro produttivo, lo ha perso. Questo apre il campo per una lotta che sia davvero universale, un discorso già in campo ma che ora diventa urgente. Questo sistema ci sta togliendo la vita, il respiro, tutto e dentro la distribuzione iniqua della ricchezza, in cui sempre più soggetti vengono esclusi dal reddito, la lotta deve essere universale e sistemica.

 S:Il “margine dell’esclusione” per come è stato definito negli ultimi due secoli era qualcosa di temporaneo inserito il “miraggio dell’inclusione”. Il  sistema si è nutrito dell’idea che in un modo o nell’altro tu, individuo, riuscirai a farcela e se non ci riesci è colpa tua  perché le opportunità ci sono se riesci ad allinearti a un modello di competizione e sopraffazione degli altri. Con questa idea, accesso al reddito significava inclusione nel sistema.

Tutto questo è finito. È ampiamente dimostrabile, guardando ai lavoratori delle campagne o ai migranti impiegati in agricoltura, che lavorando si vive peggio. L’idea per cui il lavoro salariato sia una forma di alienazione assoluta per farci vivere in uno schema da cui è impossibile liberarsi e che porta a una vita costruita come semplice sopravvivenza, non regge più.

Cambiare il sistema del reddito significa cambiare il sistema in assoluto. Un reddito universale e l’impossibilità che gli individui falliscano rappresenta un’altra società. I racconti dei governi sono fasulli perché la costruzione della “vendita del tempo” che regge il sistema produttivo è in affanno: non può garantire la costruzione di quell’immaginario, non riesce a dimostrare che la finalità della nostra esistenza sia di entrare in quel sistema.

Parliamo adesso di “ecologia politica”, che sta diventando non solo uno strumento teorico, ma anche di strategia politica. Alcuni giorni fa si è tenuto in Val di Susa l’ultimo incontro nazionale dei vari collettivi che stanno ragionando sulla base di queste prospettive. Come l’ecologia politica può aggregare una nuova composizione che si affaccia al mondo dei movimenti, e non solo?

S: Intanto quelli in Val di Susa sono stati 3 giorni molto belli, in cui ho avuto la possibilità di toccare con mano quanto le lotte per la giustizia ambientale siano fondamentali per la sopravvivenza di tutte e di tutti, a un livello che va ben al di là della rivendicazione specifica. Tre giorni in cui abbiamo potuto confrontarci su quello che stiamo facendo e su quanto quello che sta emergendo da questo dibattito nei prossimi mesi – non anni! – sarà fondamentale.

Si è inoltre potuto toccare con mano il fatto che i temi di ecologia politica in questo momento possono costruire un grosso campo di ricomposizione, possono offrire un orizzonte collettivo molteplice, in cui si trovano le grandi questioni di questa fase, il tema della decolonizzazione della nostra visione politica, dell’abbattimento e superamento dei modelli patriarcali di potere, la soluzione della crisi ecologica. Ed è un campo di ricomposizione in cui, tra l’altro, si possono distinguere sia il grande livello teorico, sia quello pratico, perché i movimenti degli ultimi anni possono trovare uno sbocco alla tensione per la costruzione di una società futura proprio dentro questo campo di dibattito.

A: Per me è stato molto importante confrontarsi con una realtà di lotta, che ha una continuità storica lunga, che ha visto molte trasformazioni e che in questo momento è abitata anche da realtà che hanno al centro il tema complessivo della crisi ecologica. Quello che incarna questa situazione è il fatto che l’ecologia politica non può essere un piano di rivendicazione astratta, ma parla di lotte che si fanno con il territorio e dentro i territori.

La Val di Susa, come altre lotte territoriali, ci ricorda che siamo all’interno di ecologie, le viviamo proprio in quanto abitanti che rivendicano rapporti ecologici.

Mi pare che sia interessante il fatto di cominciare a pensare in modo profondo esperienze che siano storicamente localizzate, perché ci parlano di come venga rigettato – a più livelli -il sistema estrattivista.

Tra l’altro, dalla Val di Susa sono usciti diversi appuntamenti, tra cui quello del Venice Climate Camp, che in questa fase può rappresentare un vero e proprio spartiacque per i movimenti.