PHD. Uscire dall'opacità per rivendicare diritto di permanenza

29 / 10 / 2014

E così ieri, mentre l'Europa dava il suo freddo ok (sempre con la riserva dei maestri severi) alla legge di stabilità, qualche blogger attento e qualche pedante lettore dell'ipertrofica legislazione nostrana ha scoperto il comma 29 dell'articolo 28 contenuto nella stessa manovra. E così, con estremo ritardo, si è confermato che ancora una volta il Governo Renzi ha individuato nel Governo Berlusconi l'antecedente più in continuità con la propria opera, tentando anzi l'eroica impresa di riuscire a peggiorare gli stessi disastri che quella legislatura fece pagare al paese. Bisogna dire che l'impegno c'è e il pressapochismo pure.
Nel caso specifico con quattro parole in fila il Governo Renzi sancisce definitivamente non solo la precarietà strutturale, ma la vera impossibilità di ingresso nell'Università italiana, formalizzando una prassi de facto già in atto da anni.
Sostanzialmente e senza troppi tecnicismi, che poco interessano chi non vive dall'interno questo strano micro-mondo fatto di etiche neoliberali e organizzazione feudale del lavoro, il comma 28 stabilisce che gli Atenei al momento dell'uscita di un Professore Ordinario e dunque del reclutamento non saranno più vincolati ad inserire un TDB ( acronimo di una delle due figure della ricerca precaria, un po' meno precaria e più costosa in termini di punti organico del TDA e per questo già molto meno utilizza), come previsto da una modifica alla norma del Ministro Profumo, ma un TD in generale. E' facile immaginare che, senza alcun vincolo normativo, gli atenei sceglieranno e privilegeranno strutturalmente l'inserimento, già assai sporadico, dei TDA, ovvero di quei mostruosi contratti targati Gelmini che prevedono una prima tranche di tre anni, rinnovabili con altri due, al termine dei quali non è previsto assolutamente nulla.
Concretamente questa modifica piccolissima di normative già confuse prevede che quel misero reclutamento che ancora esiste nonostante il blocco del turn over, possa bypassare completamente la possibilità di stabilizzazione per i ricercatori e le ricercatrici, ma sia solo una elargizione di precarietà permanete per chi è di fatto il vero motore propulsore dei luoghi del sapere.
Ma queste sono cose che noi, fin dal 2008, abbiamo detto, gridato, scritto, in ogni forma possibile. L'onda su questo è stata un movimento lungimirante e non catastrofista. Avevamo immediatamente intuito quale apocalisse si stava abbattendo sull'Università pubblica e, quando fu fatto il grosso del disastro, non lasciammo quasi nulla di intentato.
Quello che è successo dopo il 2010 somiglia molto al comma di cui parliamo oggi. Piccole modifiche che hanno stressato le maglie di una tela già rovinata e consunta. Nessun intervento strutturale che permettesse innanzitutto a noi di riprendere parola complessivamente.
Quello che è rimasto oggi tra i corridoi dei dipartimenti è un senso atavico di sconfitta, una pigrizia che giustifica il silenzio dinanzi ad ogni sopruso. Restano forme di esercizio dell'autorità baronale che fanno ribollire il sangue nelle vene e ripropongono geometrie del potere pre-sessantottine. Succede sempre quando la propria vita è tenuta in scacco da un coacervo di capricci, velleità e strumentalizzazioni tipicamente in uso nelle università italiane.
Eppure il senso di questa riflessione non si esaurisce nell'ennesima fotografia dell'Università carica di tinte nere. Piuttosto parte da un punto di vista, che è mio, come di decine di migliaia di giovani e meno giovani, che stagnano in un limbo dalle peculiarità tutte italiane, che è il dottorato di ricerca. Parte da lì perché sono convinta che quei tre anni di accesso al mondo universitario con un lasciapassare che somiglia a quello del visitatore temporaneo, del visto turistico, siano un tempo concentrato nel quale si mostrano tutte le contraddizioni che ruotano attorno al mondo della formazione universitaria.
La più lampante è probabilmente quella per cui, mentre le forme di reclutamento e accesso sono diventate una lotteria a cui si gioca in tanti e si vince in pochissimi, per paradosso, la partecipazione ai concorsi non è affatto diminuita, anzi nel caso delle facoltà umanistiche è addirittura aumentata.
Il motivo è facilmente intuibile. L'impossibilità di accesso all'insegnamento scolastico e l'impossibilità di trovare lavori all'altezza della propria formazione universitaria, mostrano spessissimo il dottorato come unica chance di un salario degno (quando è con borsa) per un tempo non così breve. Di contro gli Atenei, in barba alle mille frottole sul merito che raccontano ai convegni di Almalaurea, stanno cercando di trasformare e di formalizzare sempre di più'lo stesso dottorato come ennesima roccaforte del loro potere da vassalli.
E così le modalità di accesso ai concorsi diventano di anno in anno più restrittive e meno pubbliche. I titoli in busta chiusa, l'abolizione dello scritto quasi dappertutto e la follia delle lettere di presentazione di uno o addirittura più docenti, sono solo alcuni esempi generali che raccontano bene la tendenza.
Barriere spessissime poste tra il baronato e chi non pensa che l'università sia luogo di servigi ma lo spazio per l'approfondimento e la condivisione del sapere.
Poi, al di là dell'accesso c'è quello che succede da dottorandi e dottorande. Un volta dentro e intascata magari la prima borsa si apre un conflitto tra passione e realtà che si risolve troppo spesso o nel rifiuto totale per questa scommessa sul nulla o nella assunzione su di sé di un'idea di futuro legata alla disponibilità totale nei confronti del benefattore o della benefattrice a cui i si deve quel privilegio temporaneo.
A farne le spese è chiaramente la qualità della ricerca, schiacciata tra la compilazione di cose deputate ad altri più potenti e l'ansia del vuoto e della povertà che quasi certamente segue la fortunata parentesi.
Forse però non dovremmo arrenderci a questa ineluttabilità esecutiva, ottusa e colpevole.
Forse dovremmo smetterla di naturalizzare ogni follia e di scacciare dalla testa lo spettro di una passione che necessita di troppa frustrazione e abnegazione per essere perseguita. Forse dovremmo riprenderci il diritto a quella come ad altre passioni e pensare che esercitarlo vuol dire pure agire collettivamente per demolire l'ordine feudale e sconfessare le barzellette sul merito che qualche burlone racconta seduto su comode poltrone di garanzia.
Forse è arrivato il momento di ridefinire i confini di questa soggettività e smetterla di opacizzarla tra la sensazione di privilegio e la certezza della scadenza.
Definanziamento e gestione degli ingressi secondo le leggi dettate dalla Crui sono un fatto contingente non una necessità universale e immutabile. Potremmo per esempio aprire dei luoghi di confronto. Riconoscerci come un pezzo di una macchina che produce valore anche grazie alla nostra esistenza e per questo sentire di avere in mano un po' di potere perché questa macchina si fermi per ripartire in altra forma e con altra velocità.
La nostra, che è una soggettività molto più uniforme di tante che attraversano i luoghi del lavoro cognitivo, è stata quasi del tutto assente durante tutti e due i movimenti studenteschi del 2008 e del 2010. Forse perché spaventata, complice, già irregimentata dentro logiche che non dovrebbero appartenere a chi ha a cuore innanzitutto la propria dignità. Ma non è questo quello che all'oggi ci interessa indagare.
Sicuramente invece più interessante è ritrovarsi e ricomporsi dinnanzi ad un attacco sempre più frontale. Spogliarci innanzitutto noi di questa strana idea del visitatore occasionale e fortunato e rivendicare la volontà di stare dentro senza ricatti e senza gratuità.
Il comma 28 della legge 29 è probabilmente un fatto irrilevante a fronte degli smottamenti a cui è soggetta da anni l'università. Ha però tutto l'aspetto di un ennesimo schiaffo in faccia all'esercito immenso che tra docenze clandestine e lavoro gratuito permette agli studenti e alle studentesse di iscriversi ancora e frequentare l'università pubblica.
Ci sono troppe storie scritte senza nessuna dissonanza. E troppe di queste storie sono pregne di ingiustizie che meriterebbero una presa di parola.
Partire da sé, dall'essere qui ed ora dottorandi e dottorande, e' forse quello che dovremmo fare, come ci ha suggerito qualcuno che dentro e fuori l'Università ha aperto conflitti profondi che hanno segnato il novecento e che hanno permesso di demolire insopportabili monumenti di autorità e coercizione.
Troppi però sono ancora lì, svettanti e protervi negli antichi e moderni palazzi degli Atenei sparsi da nord a sud della penisola. Vanno rasi al suolo perché noi abbiamo il sacrosanto diritto a non avere paura di una passione.