Mentre stiamo lentamente prendendo confidenza con i necessari mutamenti della nostra quotidianità, mentre molt* cercano di resistere al panico mediatizzato che martella ogni istante della reclusione in quarantena, ormai qualunque sito, blog, profilo, pagina degli ambienti di movimento cerca di dare una lettura delle conseguenze a breve e medio periodo dell’epidemia. A voglia poi che la quarantena ti permette di leggere la pila di libri che continuavi ad accumulare da anni, a guardarti tutte le stagioni delle serie tv immaginabili, o a realizzare il benedetto orto in terrazza.
Tutto il
giorno a esaminare l’ennesima lettura dell’ennesima grande testa, che ti fa
cascare le braccia o ti fa arrovellare il cervello in cerca di risposte alle
infinite domande emerse, risposte che non trovi e allora vai di assemblea
telematica e via così ancora e poi ti fai l’ape
in skype e poi lo vogliono far tutt* e allora «boom!». È tardissimo meglio se vado a dormire.
Tutto questo ovviamente nel migliore dei casi, cioè se una casa ce l’hai, se
sei in una casa con un ambiente vagamente rilassato, se puoi leggere, se hai
libri, se hai la connessione a internet e via così…
In ogni caso c’è una parola che nelle ultime settimane svetta tra le
classifiche delle più usate e abusate: cura. Tutto un invito al prendersi cura
di, all’eroismo del lavoro di cura di medic* e infermier*, alle pezze al culo
con cui si ritrova chi fa lavoro di cura salariato (tendenzialmente salari da
fame) fino alla pole position concessa al termine: addirittura il decreto
economico “Cura Italia”.
Il sentimento è condiviso, l’abuso del lemma risulta insopportabile, visto che
poi chi lo sta veicolando a livello mainstream
è soprattutto chi della cura non si è mai curato. Lo hanno detto in tant*, una
delle straordinarie capacità della crisi pandemica in atto è quella di
disvelare contemporaneamente tutti i limiti, le bugie, i disastri di
capitalismo e neoliberismo. Il virus mostra le conseguenze di tagli continui
alla spesa pubblica, alla sanità in particolare, ma non solo. Svela come il
principio neoliberista dell’iper individualizzazione non conduca verso una
strada di maggior benessere, qui la responsabilità individuale non è capace di
contrastare il mostro. Anche perché come si può pensare che vi sia una
tranquilla e accurata presa di responsabilizzazione del singolo nei confronti
della comunità quando per decenni le forze politiche ed economiche non hanno
fatto altro che renderlo più sol*, più sospettos*, più incazzat* e depress* che
mai? Pensa al più debole, pensa all’anzian*, all’immunodepress* che tranquill*
anche stavolta nessun* penserà a te. I movimenti femministi sostengono da anni
la centralità della cura, partendo dal sé e arrivando alla cura dei legami
interpersonali, sociali; la cura come motore di spinta dello spirito
rivoluzionario, quale forma più elevata di cura se non quella della lotta per
salvare il nostro mondo dalla distruzione del capitale?
Non è forse qualcosa che possiamo sfruttare per rimettere sul piatto la
centralità delle relazioni, di un legame sociale forte?
Cura, cura di chi è più a rischio. Ma chi sono poi? Certamente chi è più a
rischio di esiti gravi della malattia. Forse però esistono anche altre persone
che meritano i riflettori. Non le donne che subiscono violenza costrette nelle
loro case con gli aguzzini? Non chi soffre di disturbi psichiatrici gravi? Non
chi è depress*, ansios* e si ritrova rinchius* sotto il martellante bollettino
di morti e contagiati? Non chi una casa non ce l’ha?
E poi c’è l’altra faccia della cura, quella più odiosa. La cura come lavoro,
non pagato o non adeguatamente retribuito. Nel decreto Cura Italia a ciò viene
riconosciuta una piccola parte. Un voucher baby-sitter di 600 euro e la
possibilità del congedo parentale per 15 giorni al 50% dello stipendio.
Geniale. Briciole. Fasce intere di popolazione non tenute in conto.
Stare a casa non ha la stessa portata per tutt* e non avrà le stesse
conseguenze. L’hanno già detto in tante, i centri antiviolenza sponsorizzano
senza sosta i loro numeri verdi nonostante molti presidi siano costretti alla
chiusura: per chi è abusat* la casa è lo spazio dell’aguzzino, e se l’aguzzino
è costretto in casa la spirale di violenza diventa più insostenibile e
pericolosa. E non saranno i 600 euro per il baby-sitting che permetteranno la
fuoriuscita dalla violenza.
Si fa un gran parlare di eroismo per medic* e infermier* ma anche su questo
piano la narrazione è superficiale. Un settore di cura centrale, dove la
relazione è parte integrante dei compiti lavorativi. Vengono e verranno prese
misure adeguate per aiutare chi lavora nel settore a reggere le condizioni
lavorative attuali? Per rispondere alle conseguenze psicologiche? Le donne in
questo settore sono tre volte tanto gli uomini, e considerando il trend
culturale del nostro paese, i loro compiti non si limitano alle ore passate tra
le corsie o nelle assistenze domiciliari ma anche nel lavoro di cura a casa.
La cura nell’ambito familiare sta richiedendo uno sforzo immane da parte
soprattutto di molte donne. Se lavori da casa devi contemporaneamente svolgere
le mansioni salariate e badare a bimbi, anziani, disabili e compagni. Se non
puoi lavorare da casa impazzisci per trovare qualcun* che possa prendersi cura
dei famigliari che usualmente stanno a scuola, o in un centro diurno, perché va
bene i 600 euro una tantum ma intanto devi anticiparli. Oppure non lavori, le
tue mansioni domestiche raddoppiano e ancora nessuna istituzione vuole
sganciarti il meritato reddito.
La cura ancora. La cura di chi ha malattie psichiatriche o disabilità fisiche
e/o mentali. Persone per cui la relazione è fondamentale, un carico che viene
lasciato alle famiglie o a lavoratrici domiciliari sottopagate, esposte ai
rischi e nuovamente non considerate dal discorso dominante. Queste lavoratrici
(la maggioranza è donna) in questo momento sono più necessarie che mai, eppure
nel grande invito all’unità nazionale non c’è alcun riferimento alle loro
condizioni lavorative o di vita. Indigene o migranti sono esposte al virus, non
hanno i presidi medici adeguati, sono costrette a turni massacranti oppure
lasciate a casa senza la garanzia di uno stipendio.
E poi ci sono educatrici/ori, di solito dipendenti o soci di cooperative che
anche nel migliore dei casi sottopagano il servizio fondamentale di quest*
professionist*. Perse le commesse con le scuole, molt* sono stat* invitat* a
svolgere i propri compiti a domicilio. Ma non ci sono le condizioni di
sicurezza minime, il rischio di contagio per sé e rispettive famiglie è alto.
Oppure c’è chi è in ferie forzate e se le ferie non le hai beh, stai a casa
senza stipendio.
Che fare di fronte a questo scenario?
La situazione è articolata. Il virus disvela. Disvela più di ciò che ha messo
in luce la crisi del 2008. Rendiamo il nostro re (il neoliberismo e i suoi
sostenitori) ancora più nudo e vulnerabile. Stiamo attent* e non capitoliamo
agli ammiccamenti dei big data che sembrano ormai poterci dare tutte le
soluzioni ad una vita solitaria e in perenne quarantena. Resistiamo a queste
settimane difficili, diamo centralità al concetto rivoluzionario di cura e
rimoduliamo i nostri interventi politici a partire da questo (cosa che spesso
inconsapevolmente già facciamo). Riconosciamo i colpevoli e pretendiamo quello
che è nostro diritto. Un rafforzamento delle reti di protezione sociale: sanità
e servizi uguali su tutto il territorio e un reddito di quarantena che diventi
reddito universale e permanente. E poi l’attivazione di reti di mutualismo e
solidarietà dal basso. A questo dobbiamo tendere, prepariamoci sperimentiamoci
ora per essere pront* al post emergenza. Che richiederà tutto il nostro sapere
collettivo, tutte le nostre forze e i nostri desideri.