Preferirei di no!

Dentro la farsa del tirannicidio la ricerca della disobbedienza

16 / 12 / 2009

Fin da piccoli abbiamo imparato che gli albori della modernità sono stati attraversati da uno scontro molto aspro all'interno della prospettiva rivoluzionaria. Il tirannicidio da una parte, il potere costituente e il diritto di resistenza dall'altra. Due modi assolutamente contrapposti di intendere il potere e di praticare la trasformazione: nel primo caso il potere ha un valore divino, è un oggetto, da prendere o da conquistare, da abbattere (fisicamente) o da sostituire; nel secondo caso il potere è un rapporto e dunque si tratta di agire dentro la molteplicità e la contingenza di questa tensione, non c'è mai un'ultima parola, semmai ci si trova sempre «nel mezzo» di un processo costituente che continuamente riapre la dinamica normativa e costituzionale. Mistificare la natura relazionale del potere, mettere al bando o eclissare la potenza costituente (rivoluzionaria) che definisce gli ordinamenti democratici moderni è da sempre il compito dello Stato e della sovranità.

Questa alternativa, assolutamente decisiva tra la fine del XVI e il XVII secolo, si è ripresentata più e più volte, anche nella nostra recente storia nazionale, con tratti drammatici. Ed è marxianamente che possiamo affermare che ciò che nel passato ha avuto le caratteristiche della tragedia oggi si riqualifica attraverso le vesti della farsa. Farsesco il dibattito politico che si è determinato in questi giorni al seguito del ferimento di Silvio Berlusconi. Da una parte chi insiste, al seguito del successo del No B-Day, sul carattere mafioso e dispotico del potere berlusconiano: e di fronte al tiranno e allo stragista il popolo non insorge, figurarsi, piuttosto si tinge di viola e chiede prigioni e magistratura. Dall'altra la maggioranza, convinta che il clima d'odio nei confronti del premier sia il brodo di coltura dove nuove mani possono armarsi, sferra il suo attacco “cinese” al web e ai social network e, guarda caso, al diritto di manifestare e fare cortei. D'altronde era stata proprio la Gelmini ‒ vicina a Berlusconi al momento dei fatti in piazza Duomo ‒ a mettere sullo stesso piano il gesto di Tartaglia e le cariche subite dagli studenti a Roma e a Torino venerdì 11 e a Milano sabato 12. Stesso clima, stesso odio, stesso disordine, poco importa chi fa cosa e come lo fa, con quale discorso, a partire da quali pretese.

E quindi Maroni passa all'attacco e dice che ci vuole un decreto legge per regolamentare o impedire tanto i cortei, quanto l'uso del web. De Corato, in consonanza con la Gelmini, condanna centri sociali e studenti, tutti, Corriere della sera in testa, chiedono la distensione del clima politico. Quali sono i confini di questa distensione non ci è ancora dato sapere. Le parole di Chicchitto e il disappunto di Fini ieri in parlamento ci confermano che lo scontro istituzionale in Italia è tutt'altro che sopito. La questione, però, è un'altra: è possibile che l'asperità dello scontro istituzionale e dei suoi corollari farseschi in “salsa tirannicida” siano una potente dissimulazione e neutralizzazione del conflitto sociale in questo paese e dentro la crisi economica globale? Raccogliendo pazientemente i fatti di questi giorni il sospetto si fa via via più persistente. Soprattutto se ci ricordiamo che le cariche di venerdì contro la manifestazione nazionale degli studenti e dei precari sono state determinate dal divieto di manifestare imposto dal nuovo protocollo, proposto da Alemanno e dal prefetto e siglato da Cisl, Uil, Ugl, Pdl e La destra. Non stupisce allora che Alemanno, dopo le prime dichiarazioni di Maroni, si sia sentito precursore e avanguardia di un processo politico che vuole mettere al bando tanto il conflitto, quanto, con esso, la democrazia.

Sono di queste ore e di questi giorni le notizie di Copenhagen e degli arresti di massa (soltanto oggi 200) praticati dalla polizia più zelante, pervasiva e “democratica” d'Europa. Sono di queste ore le valutazioni di Luca Casarini e di molti attivisti della rete See you in Copenhagen che, con grande chiarezza, ci propongono di ragionare sulla nuova qualità del controllo (da leggere con attenzione Police warming di Luca Casarini), ma anche sulla fragilità dei movimenti, laddove e quando questi ultimi faticano ad esercitare il conflitto all'interno della dimensione moltitudinaria (la mattinata straordinaria di oggi con l'assedio del Bella Center, da questo punto di vista, è in controtendenza rispetto alle precedenti giornate dal contro-Summit). Riflessioni queste per nulla estranee al dibattito politico italiano che, con la scusa dei fatti del Duomo, prepara una durissima revisione delle norme sulle manifestazioni e sulle contestazioni. I fatti romani di venerdì mattina, la determinazione con cui gli studenti e i precari hanno deciso di disobbedire al divieto ingiusto della questura e, al seguito delle cariche, hanno raggiunto e assediato il ministero dell'Economia, ci confermano la potenza di un'ipotesi politica, che inscrive la radicalità sul terreno delle pratiche di massa. Ed è probabilmente proprio questo – in linea con l'insopportabile spettacolo danese ‒ l'oggetto del Ddl (sul decreto è stata fatta marcia indietro) che Maroni presenterà domani al Consiglio dei ministri.

Rovesciare questa tendenza, rilanciare lo spazio della disobbedienza e del diritto al dissenso, questi sono i compiti del movimento, nella consapevolezza che lo scontro istituzionale italiano, pur nella sua durezza, ha come unico sbocco un rafforzamento del potere costituito.

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