Public history wars. Episodio I: l’attacco dei “grandi giornalisti”

27 / 1 / 2020

Pubblichiamo il primo di quattro “episodi” sull’uso pubblico della storia in Italia, scritti da Nicolaj Kurubov, che prendono le mosse da alcune riflessioni fatte in occasione della morte di Giampaolo Pansa in merito al “lato oscuro” della divulgazione storica, diventato negli anni un vero e proprio modo di essere.

In una galassia lontana lontana dalla decenza, la repubblica decadente sta perdendo anche le ultime memorie dell’antica ribellione da cui è sorta.

Mentre gli ultimi storici sono ormai reietti esclusi dal consesso mediatico, un “grande giornalista” passato al lato oscuro sta costruendo l’arma per distruggere definitivamente ogni narrazione antifascista del passato.

Commentando la dipartita di Giampaolo Pansa su “Jacobin”, Luca Casarotti ha scritto un avvertimento che merita di essere ascoltato: «Pansa è morto, ma non è morto il pansismo. C’è abbondanza d’aspiranti nuovi Pansa in rete, nelle redazioni dei giornali e nei dipartimenti delle università».

Per difendersi dal “pansismo” occorre analizzarlo “tecnicamente”. Cioè cercare di capire il funzionamento del suo meccanismo narrativo e trovarne i punti deboli.

Innanzitutto occorre sapere che alla sua base vi è una cronica malattia italiana: la distanza tra “la comunità scientifica”, cioè gli studiosi e i ricercatori che si occupano di un determinato argomento, e la stragrande maggioranza, non solo della popolazione in generale, ma della stessa fetta di popolazione (circa il 40% del totale) che legge almeno un libro l'anno. Questa distanza viene spesso colmata da prodotti culturalmente assai scadenti, ma che sono confezionati da quelle stesse persone, con quello stesso linguaggio e struttura espositiva a cui il pubblico “colto” è abituato dai mezzi di informazione mainstream (televisioni, giornali, ecc.).

Di conseguenza il dibattito sulla storia italiana (se così lo possiamo chiamare) che arriva al grande pubblico non è condotto da storici, ma da giornalisti, anzi da un numero ristretto di sedicenti “grandi” giornalisti, ben ammanicati con le direzioni dei mezzi di comunicazioni, con il potere politico ed economico.

Il primo “grande giornalista” ad iniziare a colonizzare la narrazione storica di questo paese fu Indro Montanelli. Stiamo parlando di un accanito reazionario, mentitore compulsivo, negazionista dei crimini di guerra italiani in Etiopia (dove nel 1935 si era comprato una “sposa” dodicenne), capace di dare della «sciacalla» a Tina Merlin per aver osato denunciare le responsabilità dell'azienda idroelettrica SADE nella tragedia del Vajont e di giustificarsi anni dopo dicendo che lo aveva fatto per contrastare le proposte di nazionalizzazione dell'energia elettrica (poi realizzate da quel “pericoloso bolscevico” di Aldo Moro). Quanto alla sua auto-narrazione come “partigiano” rimando all'articolo di Jennifer Guerra su “The vision” che riassume tutte le balle e le incongruenze presenti nei suoi racconti.

Nel 1965, iniziò la pubblicazione di una «Storia d'Italia» in 22 volumi scritta insieme a Mario Cervi. Montanelli aveva intuito che in Italia mancava «l'anello di congiunzione tra accademia e grande pubblico». Decise di essere lui quell'anello, raccontando la storia del paese a colpi di aneddoti e semplificazioni.

Quale era il suo “metodo di lavoro” lo spiegò nel 1978 rispondendo ad un lettore:

«Io faccio con Cervi un bozzone in cui, alla documentazione storica cui provvede lui, aggiungo i miei personali ricordi. Poi lui scrive. Poi io rivedo la scrittura di Cervi aggiungendovi del mio. E ne viene fuori quello che Lei legge».

Ovvero prima si costruisce una “trama”, poi si cercano quelle fonti che la confermano, si aggiungono i “personali ricordi” (veri o verosimili, Montanelli ha più volte affermato di non fare troppa differenza tra le due cose), infine si rivede il tutto per renderlo più accattivante. Roba da far accapponare la pelle ad ogni storico degno di questo nome, da Tucidide a Marc Bloch. Difatti la maggioranza degli “addetti ai lavori” stroncò l'opera.

Il successo di pubblicò però fu travolgente: 13 milioni di copie vendute.

Del resto come poteva non essere così? Montanelli era una figura nota al grande pubblico, assai più nota di qualunque storico proprio per il suo lavoro di giornalista, ne conosceva a menadito i gusti in fatto di linguaggio e organizzazione del discorso. Inoltre non aveva alcuno scrupolo legato alla ricostruzione della verità storica che gli imponesse di problematizzare il proprio racconto. Poteva costruire senza difficoltà il prodotto più consono al palato del ceto medio italiano.

Una volta che Montanelli ebbe aperto la breccia, l'invasione delle “grandi firme” nei territori della storiografia è proseguita fino a diventare una vera e propria occupazione militare. Ormai non c'è più volto noto televisivo o firma della carta stampata che non si cimenti con la narrazione storica. Così i libri di Bruno Vespa, Paolo Mieli & affini avanzano compatti come stormtroopers imperiali su librerie, bancarelle e scaffali di autogrill.

L'azione di Pansa va quindi calata in questo contesto, ma valutando la portata del suo devastante impatto. Ci sono cose che se le dicevi prima di Pansa eri “di estrema destra” mentre dopo Pansa sei “una persona libera di pregiudizi ideologici”. Il “pregiudizio ideologico” consisterebbe nell’ “inspiegabile odio comunista” nei confronti di chi ha torturato, ammazzato, stuprato, caricato gente sui treni diretti ai campi di sterminio o applaudito chi faceva tutto questo sotto i suoi occhi.

Occorre ricordare che Pansa è passato al lato oscuro dopo aver avuto buoni maestri e un'ottima preparazione. Si era laureato con una tesi sulla «Guerra partigiana tra Genova e il Po» (con relatore Guido Quazza) e ancora nel 1991 il suo libro sull'esercito della RSI «Il gladio e l'alloro» poteva dirsi un'opera interessante, frutto di un vero lavoro di ricerca in archivio.

Poi si dedicò ai romanzi e nel 2003 lo ritroviamo autore di una vera e propria morte nera editoriale: “Il sangue dei vinti”. Di fatto si trattava di una raccolta di memorialistica neofascista cucita insieme con un (esile) filo narrativo e una tesi di fondo che più grossolana non si può: i fascisti accoppati successivamente al 25 aprile erano “vittime innocenti” di un perfido piano del PCI per sterminare la borghesia italiana. Quanto ai resistenti non comunisti (cattolici, azionisti, liberali, socialisti, ecc.) erano poco più che utili idioti o inguaribili ingenui a rimorchio dei malvagi bolscevichi.

In questo modo si ignorava bellamente che la violenza della guerra civile e dei suoi strascichi nascevano da un determinato contesto storico, da una determinata situazione sociale, da tutto ciò che era successo dal 1919 in poi. Tant’è che il primo a dire che prima o poi il proletariato avrebbe chiesto ragione alla borghesia e ai suoi manutengoli della violenza fascista era stato proprio il volto più nobile del riformismo italiano, Giacomo Matteotti, che in un discorso parlamentare del 1921 aveva affermato:

«Non pensate che questi lavoratori che si sono visti assaliti per le strade perché hanno un distintivo, perché appartengono alle leghe, coltiveranno un pensiero di vendetta contro il padrone che passa per la strada, che va alla sua casa, che circola per il paese? Pensateci, onorevoli rappresentanti della borghesia capitalista». (pp.330-352)

L'inconsistenza storiografica del libro di Pansa (che non presenta uno straccio di note o bibliografia) è stata fin da subito esposta chiaramente da uno dei maggiori storici italiani, Giovanni De Luna, in un suo articolo pubblicato su “La Stampa” già il 25 ottobre 2003 (Pansa, il sangue dei vinti visto con gli occhiali della RSI consultabile sul sito archiviolastampa.it). In tempi più recenti il “metodo” pansiano (cioè prender per buona memorialistica senza alcun tipo di verifica) è stata analizzata ed esposta da Gino Cadreva sul n. 39 (gennaio-aprile 2016) della rivista “Zapruder”, nell'articolo “La storiografia à la carte di Giampaolo Pansa” http://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2017/06/Zap-39_14-StoriaAlLavoro2.pdf e dal gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki nella sua guida all'uso delle fonti “Questo chi lo dice? E perché”.

Proprio Nicoletta Bourbaki ha ricordato in una nota di questi giorni il ruolo assunto dal giornalista di “megafono” di tutte le narrazioni neofascista, fino a quel momento confinata negli ambienti di “area” (cioè sostanzialmente nelle fogne).

Il successo di pubblico de “Il sangue dei vinti” è stato travolgente. Come nel caso di Montanelli, Pansa partiva di gran lunga in vantaggio rispetto a qualsiasi storico, per di più la sua fama di “giornalista di sinistra” gli assicurava un pubblico trasversale.

Ma c’è un aspetto di marketing che non ci deve sfuggire. Il titolo era azzeccatissimo: “Il sangue dei vinti”.

La scelta ideale per volgere a proprio favore quello che Giovanni De Luna ne “La repubblica del dolore” ha chiamato il “paradigma vittimario”, cioè la narrazione del passato basata sulla centralità delle vittime. Si tratta di un frame discorsivo che cancella o riduce al minimo ogni contestualizzazione storica, ogni analisi razionale, per focalizzare l’attenzione sul racconto in prima persona di chi è stato “vittima”.

Naturalmente le testimonianze di chi ha vissuto determinati eventi sono da sempre una fonte per gli storici e un testimone con la cultura e la capacità narrativa di un Primo Levi o di un Mario Rigoni Stern può avere un ruolo essenziale nella divulgazione dei fatti storici presso il grande pubblico. Ma quello che è avvenuto a partire dagli anni ’80, soprattutto grazie alle trasmissioni televisive è qualcosa di ben diverso, che poco ha a che fare con la riflessione storica e molto con la vendita di un prodotto.

Come ha scritto sempre De Luna

«Per emozionare, commuovere, suscitare consenso, le sofferenze vanno gridate; e più si grida forte più si sfondano le barriere dell'audience e dell'ascolto. Quasi che le emozioni siano merci e quasi che sia il mercato a imporre le sue regole, nel controllarne la domanda e l'offerta»

Pansa è stato abilissimo nell’usare questo frame narrativo.

“Io ho dato voce alle vittime. Chi è più vittima di uno che ha perso la guerra e poi è stato pure ammazzato?”

“Ma stiamo parlando di alleati dei nazisti! E poi lei si basa solo sulla memorialistica neofascista”.

“Ah dunque per lei la vita dei fascisti vale di meno? E vorrebbe far tacere la voce delle vittime? Si vergogni! Stalinista! Gendarme della memoria!”.

E “l’italiano medio” giù a spellarsi le mani per il “coraggioso Pansa” che aveva “infranto la congiura del silenzio comunista”. Finalmente il ceto medio (o presunto tale) aveva le “sue” vittime da rivendicare! Poteva finalmente dire “eh basta parlare sempre di questi ebrei, di questi antifascisti! Adesso parliamo dei poveri italiani come noi vittime dell’odio comunista”.