Ragionare con i piedi

22 / 8 / 2011

Ragionano calzando Prada rosso, sui tacchi iperbolici della Santanchè, con i rialzi di Sarkozy e Berlusconi, con le Tod’s dellavalliane o le scarpe dalemiane oscillanti fra il 29 e i 1.000 € secondo le circostanze mediatiche, ma ragionano sempre con i piedi quei mascalzoni del ceto politico globale, tanto che invochino sacrifici o deplorino l’etica del profitto. Continuano a parlare di riduzione del deficit e di pareggio del bilancio, litigando solo su chi far ricadere tagli e sacrifici, e non scorgono l’abisso della recessione in cui tali scelte fanno precipitare. Come se in Grecia, dove la dieta è stata imposta brutalmente, il Pil non stesse scendendo oltre il 4,5%! Capitalisti poco avveduti –già in altri tempi l’aveva rilevato Keynes. Allora (1932) si fermarono sul ciglio del burrone (i più avveduti) per il concomitante freno della crisi decifrata e della paura del socialismo reale dell’Urss e delle rivoluzioni. Rischiarono di ricascarci (1937) e se ne allontanarono per un lungo periodo a prezzo di una devastante guerra mondiale e del successivo conflitto coreano. Con l’euforia neoliberista globale ci stanno ripiombando. A ogni tappa della crisi galoppante e superata si ridisegnano gli equilibri imperiali: negli anni ’30 Usa e Germania soppiantarono l’Inghilterra, nel 1945 uscì di scena la Germania, adesso ascende il Bric. Mentre i grandi feudatari si sbranano, a Impero dissolto, e i vassalli minori cercano di arraffare qualcosa o almeno di ridurre le perdite, il buffone di corte si ostina imperterrito a recitare per guadagnarsi il pane. Così Veltroni propone di barattare il consenso al cambiamento dell’art. 81 della Costituzione (inserendovi il pareggio obbligatorio di bilancio) con il dimezzamento delle mute dei cani da caccia e da compagnia (i parlamentari). E’ il guitto recidivo del Pd autosufficiente, che ora si fa carico di mettere i conti in sicurezza con lo stesso smielato avventurismo con cui faceva critica cinematografica e ora scrive romanzi.


L’irresistibile comicità di chi –dal governo e dall’opposizione– pretende di favorire i giovani prolungando l’età pensionabile e di incrementare i consumi riducendo i salari e aggravando le tasse è solo l’ultima ricaduta di una contraddizione strutturale che in epoca postfordista riproduce quella temporaneamente domata in epoca fordista con le strategie keynesiane e più ancora con la spesa bellica (keynesismo militare). Quando la crisi fiscale dello Stato negli anni ’70 mise in tensione il welfare, la via d’uscita fu il neoliberismo e lo spostamento della spesa sui programmi di guerra spaziale. Dopo la vittoria nella guerra fredda ricominciarono subito i guai e le guerre straccione in Mesopotamia non funzionarono più. Tanto meno al-Qaeda può rimpiazzare l’Urss come spauracchio per tenere a freno i poveri con l’assistenza sociale: lo spettro del terrorismo non frena l’avidità dei padroni quando i sindacati sono stati smantellati e il lavoro migrante e precario è diventato il paradigma dominante.


Di qui l’impazzimento generale del ceto politico e la cecità improvvisa che ha colpito gli economisti, peggio che in un romanzo di Saramago. Impazzimento generale, sottolineiamo, perché i ridicoli contorcimenti itagliani non fanno che evidenziare quanto accade dappertutto, almeno nel mondo occidentale. Obama, Merkel e Sarkozy (con i poco preveggenti consigliori Geithner, Bernanke, Trichet, Draghi, per tacere del satiro Strauss-Kahn) non si creda siano tanto più lucidi di Berlusconi e Tremonti. Sono solo più presentabili in società. Sui mercati hanno lo stesso effetto. Ciò che vale anche per il guru in maglioncino, quel Marchionne che sta fallendo proprio su quel piano della finanza dove ha abbagliato non solo i Bonanni e Angeletti a pié di lista e il Sacconi furioso, ma anche la sprovveduta Camusso.


Alla governance in marasma rispondono i tumulti –dal dicembre studentesco londinese e romano 2010 alla primavera araba ai riots dell’agosto 2011. Qui però finiscono le facili analogie e si impianta un discorso diverso, in cui le occorrenze vanno colte nel contesto specifico, senza facili generalizzazioni. Elementi simili si combinano in modo sempre diverso, serve una genealogia differenziale, non una genesi lineare. La tendenza a leggere un evento sul modello precedente è spontanea quanto micidiale. Pensiamo come un simile errore prospettico abbia amplificato la sconfitta in aggiunta ai certo predominanti rapporti di forza (la Comune del 1871 quale risorto 1793, la conquista staliniana del potere quale nuovo Termidoro). Mao seppe in parte scostarsene, inventando formule differenti per contrastare la degenerazione del programma rivoluzionario: alla fine perse ma fu tutta un’altra storia (compresa la Cina di adesso). Invece mi pare che nel giochetto delle analogie e degli inquadramenti epocali (che ne è il presupposto) ci si ricaschi sempre. Per esempio, Alain Badiou ravvisa nell’«insensata violenza» dei tumulti l’effetto della heideggeriana perdita di mondo oppure li sistema in cicli intervallari fra le grandi rivoluzioni. Slavoj Zizek, intervenendo proprio sugli accadimenti londinesi, vi legge la risposta alla contrazione della mobilità sociale, all’insicurezza crescente e perfino (dai, citiamo in originale!) alla disintegration of paternal authority, the lack of maternal love in his early childhood. Appollaiandosi però sul pulpito del punto di vista rivoluzionario egli afferma che il problema non è la violenza o meno, ma la poca auto-assertività della stessa, che si riduce a rabbia impotente e disperazione carnevalesca, simile a quella dei kamikaze islamici, che riproduce il volto del nemico. Il tutto con oneste citazioni di Stalin sull’estremismo.


Siffatte seriose interpretazioni non differiscono poi tanto dalle esaltazioni romantiche ribelliste, che del pari smarriscono la complessità del fenomeno e della variata composizione moltitudinaria, la riducono a insurrezione contro la società dello spettacolo, il consumo opulento o il mondo tout court. Non colgono il livello di socializzazione al quale viene imposta una misura inaccettabile (A. De Nicola) – e su questo si gioca lo scontro. Invece quella che è stata con sprezzo definita una mindless underclass si è rivelata molto più “logica” degli economisti di Chicago e della Bocconi nell’annunciare la crisi recessiva. I riots londinesi hanno segnato con nettezza il limite delle politiche che vorrebbero scaricare la crisi tagliando salari e welfare, introducono una diversa scala di costi da pagare, sostituiscono in epoca postfordista il ruolo minaccioso del socialismo reale che facilitò il successo del keynesismo in epoca fordista. Qui però finisce l’analogia. I tumulti non sono una rivoluzione affievolita o il suo disorganico preannuncio, escono dalla logica della sovranità di cui la rivoluzione era un’alternativa interna e il riformismo keynesiano-socialdemocratico una mediazione apotropaica, ci gettano in una terra inesplorata in cui le abituali categorie hanno utilità ridotta.


Ci preme dunque cogliere non solo il tradizionale ruolo inibitorio dell’insorgenza di una moltitudine indignata mossa dall’impulso collettivo di rivalsa – desiderio commune aliquot damnum ulciscendi, per dirla con Spinoza, Tractatus politicus VI, 1 – ma anche la potenza costituente, che attraversa le contraddizioni e i dettagli della sua tumultuosa manifestazione. Perché con questo genere di lotte (non con qualche copiaincolla delle vecchie rivoluzioni) avremo a che fare nei prossimi mesi anche in Italia. Il tumulto risponde in prima battuta al double dip, il doppio tuffo nella povertà. La vostra crisi non la paghiamo, non ce ne frega niente del pareggio di bilancio in Costituzione o alla buvette del Senato, della discontinuità governativa, della dismissione degli immobili e aree speculabili o della doppia imposizione agli scudati. Arrangiatevi voi a uscire dal casino che avete messo su, not in our name e soprattutto non a nostre spese. Sperimentate sulla pelle vostra che il tumulto è la voce non solo di chi non ha voce (che bello ascoltare con faccia compunta l’unheard) ma di chi non ha reddito, l’unpaid, che addirittura lo pretende (e questo è già meno carino). Riformismo violento? Insurrezione moltitudinaria? Riappropriazione del comune? Con quali tempi, prospettive e momenti organizzativi? Si capirà dopo. On s’engage, ci si butta e poi si vede –diceva un esperto in materia.


Alla fine, esauriti condoni, cartolarizzazioni e innalzamenti pensionistici, messa in vendita la Fontana di Trevi, la corte dei miracoli sarà sgombrata. PdL e Lega già stanno decomponendosi. Svaniranno d’incanto il nano di Venezia, Lele Mora con busto mussoliniano, il supercafonal in canotta al guinzaglio di Rosy Mauro, il commercialista di Sondrio al cappio del baldo finanziere, il saccone con la bava alla bocca. Già l’agile Minetti ha traslocato da Arcore al braccio di Bobo Vieri: fine stagione.


Avremo altri più rapaci pastori con scarponi più sobri. Forse sarebbe meglio avere pastori a piedi scalzi. O addirittura non avere pastori.



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