Da Marghera a Bhopal

Respirate il meno possibile

di Luca Tornatore

24 / 9 / 2010

La definizione dello stato di salute di un corpo, o di un ecosistema, è un campo di battaglia sul quale da tempo ogni illusione di possibile “naturalità” è stata sconfitta.

Da un lato, lo stato di salute, dei corpi e dell'ecosistema, è uno dei principali fattori produttivi. Per i corpi, coincide con la capacità di partecipare al processo di accumulazione, che si dà sia nel fornire lavoro sia, contemporaneamente, nel ricadere all'interno del processo di cura e disciplina, quindi, nel mercato terapeutico e diagnostico.

Nel processo di accumulazione è fondamentale che i corpi siano sia sufficientemente sani per fornire lavoro vivo, consumo, supporto ai desideri e alle attività cognitive ecc, sia sufficientemente malati per dover essere curati e controllati. La definizione di salute e malattie, e delle procedure per mantenere l'una e curare le seconde, diventa immediatamente un terreno di conflitto nel momento in cui è trasformata in uno strumento di normazione e comando.

Per l'ecosistema, lo stato di salute coincide con la capacità di continuare a fornire i servizi essenziali che assicurano la riproduzione delle condizioni e dei beni comuni necessari alla vita e quindi alla produzione. Il ciclo e la purificazione dell'acqua e dell'aria, la regolazione delle risorse idriche e le mitigazioni climatiche, la produzione di cibo e la biodiversità sono solo alcuni di questi “servizi” che vengono gratuitamente forniti dagli ecosistemi locali e dal pianeta. Ad essi si aggiunge la capacità essenziale di riassorbire e diluire gli scarti metabolici e i by-products di processi produttivi che costitutivamente si sono sviluppati assumendo la disponibilità infinita di tale capacità, includendo intrinsecamente il rifiuto come prodotto terminale e affidando all'ecosistema lo stoccaggio e la diluizione dei composti tossici necessari ai cicli.

D'altra parte, la potenza tecnologica dispiegata nei processi produttivi ha accresciuto a dismisura la pressione antropica ad ogni scala, inserendosi in profondità nei meccanismi biologici (ad esempio con gli ogm, o con innumerevoli composti chimici) e fisici (ad esempio modificano la composizione chimica dell'atmosfera), dilatandone la scala spaziale all'intero pianeta e proiettandola per centinaia o migliaia di anni nel futuro.

In pratica, una smisurata assunzione (e appropriazione) sia sull'estensione che sull'intensità dello “stato di salute” sia dei corpi sia dell'ecosistema.

In un tecnomondo la cui creazione e riproduzione è affidata al “logòs” del mercato, la caratteristica imperante è, ovviamente, la massima profittabilità di ogni processo: più che di affrontare il problema di redistribuzione di un “rischio tecnologico” di cui parlava Ulrich Bech nello stesso anno di Chernobyl (in “Risikogesselschaft”, 1986), si tratta piuttosto di costruire il conflitto e la prospettiva di radicale mutamento rispetto all'imposizione di un vero e proprio azzardo tecnologico scientemente e coscientemente derivante dalla strutturale esposizione – senza precauzione né cautela – a fattori di pericolo globali e locali che si propagano indefinitamente nel tempo. Una vera e propria guerra (il “risiko” dell'immaginario italiano) portata i corpi e l'ecosistema, la totalità del bios messa a disposizione come fattore produttivo (anche nella sua natura di fornitore di insostituibili funzioni riciclanti) da processi di accumulazione che assumendo una sorta di “stato gassoso”, occupano l'intero volume umano, sociale, economico e “naturale” – in pratica comune – del globo.

Oggi è impossibile continuare nella finzione della separatezza tra la sfera antropica e quella “ecologica”: è evidente che ogni definizione di “benessere” o di “stato di salute” – e anche di diritti, giustizia e democrazia – deve partire dalla constatazione che la rete delle interrelazioni del vivente si estende all'intero “comune ecologico”, quanto meno perché esso determina i limiti del benessere – e della produzione – e su di esso i modi di attuazione del benessere (o definito tale), le destinazioni d'uso e i modi di consumo hanno un impatto di prima grandezza.

Un avvenimento relativamente recente offre lo spunto per ricostruire la storia di due passaggi – uno nel sud e l'altro nel nord del mondo – in cui il risiko contro la vita e la dignità ha mostrato il suo pieno volto di inglorious bastard.

Il 7 Giugno 2010 il tribunale del Madhya Pradesh, India, ha emesso una lieve sentenza di condanna contro 7 ex-dirigenti – di cui uno latitante – di una grossissima azienda chimica, che oggi non esiste più. La Union Carbide. La storia degli accadimenti che portarono a questo processo, è in fondo la solita storia che coinvolge anche chi legge da paesi che si ritenevano al riparo dalla barbara disponibilità al disastro: questo filo passa per Seveso, Porto Marghera, Seveso, Scanzano, Chiaiano, solo per nominare qualcuno dei suoi nodi.

Respirate il meno possibile

La capitale del Madhya Pradesh, “in the very earth of India”, è Bhopal, conosciuta come la meravigliosa e affascinante “Bagdad dell'India”.

La notte del 2 Dicembre 1984 era una notte di matrimoni “benedetti dagli astri”, una notte in cui migliaia e migliaia di persone si trovavano in decine e decine di feste ovunque nella città, dalla Railways Colony – il tradizionale quartiere molto british che i britannici costruivano per il personale ferroviario – alla Spianata Nera – una grande pianura ai margini della città, e città essa stessa, dove si affastellava un brulichio umano di miserabili e diseredati.

Solo una sparuta squadra di operai semi-specializzati era di turno alla “bella fabbrica” della Union Carbide India Limited. Una sparuta squadra che vigilava sonnacchiosamente su una fabbrica chimica ferma, in disuso, senza nemmeno avere la percezione esatta di cosa avessero prodotto quei reattori. Nessuno lì intorno lo aveva mai saputo con esattezza, in realtà, da quando nei primi anni '70 erano cominciati i lavori per un impianto che la Union Carbide aveva definito “innocuo come una fabbrica di cioccolato”.

Del resto, produceva “la medicina per le piante”, quei favolosi grani che, mescolati con sabbia o gesso e sparsi sui campi, avevano promesso i miracoli della modernità ai contadini indiani, la soluzione-fine-di-mondo per debellare quelle migliaia di specie diverse di insetti che ogni anno divoravano incessantemente buona parte dei raccolti.

La “medicina per le piante” era un buon nome, suonava innocuo. Più innocuo del suo vero nome commerciale: Sevin. Purtroppo, distribuire migliaia di tonnellate all'anno di Sevin a trecento milioni di contadini che parlavano 600 lingue diverse e non ne leggevano nessuna aveva già comportato innumerevoli morti ed avvelenamenti: molti assaggiavano il pesticida per saggiarne la bontà o ne usavano in quantità folli – i dosaggi non li sapevano leggere – e ne conservavano i sacchi in un angolo delle loro capanne monolocali, impregnandosi delle loro esalazioni.

Ma la “bella fabbrica” era innocua.

Inutile perdere tempo a spiegare (a chi, poi?) che il Sevin si produceva facendo reagire il MIC con l'-naftolo. Il MIC – isocianato di metile (Methil-Iso-Cynate) – a sua volta era ottenuto dalla reazione del fosgene con la monometillamina. Nella memoria dei più attenti (o dei più vecchi) invece, “fosgene” reagisce immediatamente con “Porto Marghera”. Ma è una storia a cui arriviamo poi.

Il MIC è uno dei composti più terrificanti in cui i chemical brothers si siano mai imbattuti. Tanto terrificante che la Union Carbide vietò la diffusione dei risultati degli studi sugli effetti del MIC sui topi. Altri studi avevano permesso di constatare la morte immediata degli animali esposti ai soli vapori del MIC (che bolle a 38 gradi centigradi), che distruggevano fulmineamente l'apparato respiratorio e le mucose interne, i cristallini degli occhi, i pigmenti della pelle. Gli studi su cavie umane volontarie condotti da tossicologi tedeschi avevano permesso di determinare delle soglie di tolleranza estremamente utili visto che migliaia di operai in tutto il mondo si trovavano coinvolti in processi produttivi (per innumerevoli prodotti a base di schiume sintetiche: materassi, sedili delle automobili, pannelli isolanti..) nei quali entravano il MIC o isocianati suoi cugini.

La Carbide poteva così vendere fantastiche quantità di quel gioiello che altri non si fidavano di produrre. E, soprattutto, poteva vendere in tutto il mondo il Sevin e le magnifiche sorti e progressive e dell'agricoltura.

Nel suo luccicante impianto ad Institute (USA) i sistemi di sicurezza dei reparti ad alto rischio erano impressionanti. Centinaia di valvole e circuiti secondari, giunti, flussometri, sonde termometriche, pipelines a doppia parete con azoto gassoso circolante nel mezzo la cui purezza era testata ogni dieci metri per rilevare le più piccole perdite, leghe speciali, ipersofisticate e incorruttibili. Non c'era incidente possibile che non fosse stato immaginato e per il quale non si fosse ideata una contromisura.

Eppure, nonostante tutto questo, quella fabbrica modello non era a tenuta stagna. Gli abitanti della zona percepirono immediatamente un costante odore di cavolo lesso.

Il biglietto da visita dell'isocianato di metile.

La Carbide garantiva il pubblico americano anche attraverso una apparente politica di trasparenza, dedicando un capitolo del manuale per l'uso di un impianto per la produzione di MIC alla descrizione degli orribili sintomi della sua inalazione e suggerendo un possibile rimedio: abbondanti lavaggi (il MIC è solubile in acqua quando non è in pressione), maschere ad ossigeno e broncodilatatori. Il trasporto del MIC era regolamentato minuziosamente: “tassativamente evitare itinerari affollati, tenersi lontani da città e villaggi, effettuare il minor numero possibile di soste”. Il minimo per una sostanza così rabbiosa da scatenare, al contatto con qualche goccia d'acqua o con un soffio di polvere metallica, una reazione di incontenibile violenza che avrebbe liberato, senza possibilità di evitarlo, una nube mortale.

Secondo degli studi del Carnegie Mellon Institute di Pittsburgh, secretati dalla Carbide, per effetto del calore il MIC si scomponeva in una serie di molecole, in particolare di acido cianidrico, ognuna delle quali totalmente letale. In alcuni casi, però, un'iniezione di tiosolfato di sodio poteva neutralizzare gli effetti devastanti del cianuro di idrogeno che si formava nei tessuti al contatto con l'acido cianidrico.

Per incomprensibili ragioni la Carbide tenne segrete queste informazioni e omise di inserirle nel manuale del piccolo chimico usato da chi maneggiava il MIC.

Tanto più le tenne segrete alle autorità indiane nei primi anni '70, quando si trattava di avviare la costruzione di un altro sito produttivo per il Sevin. A Bhopal. La Carbide aveva capito che “la più grande democrazia dell'India”, che già allora aveva una popolazione, in rapida crescita, di più di trecento milioni di contadini, sarebbe presto diventata uno dei più grandi mercati al mondo per i suoi prodotti. Non poteva certo lasciarsi sfuggire l'occasione.

Tuttavia, l'India presentava una legislazione piuttosto stringente in materia di impianti che producessero sostanza pericolose. In particolare, ne vietava il posizionamento a meno di una certa distanza dai centri abitati (non esattamente come a Porto Marghera).

Ma la Carbide voleva costruire la sua “bella fabbrica” alle porte di Bhopal, a un tiro di schioppo dalle decine di migliaia di contadini che si erano riversati alle cinture della città creando i quartieri della Spianta Nera.

Per questo la fabbrica divenne “innocua come una fabbrica di cioccolato”: non produceva altro che “la medicina delle piante”.

Naturalmente, a causa di congiunture economiche, la fabbrica di Bhopal non era dotata di tutti i sistemi i sicurezza della fabbrica modello di Institute. Tuttavia non c'era da temere, secondo gli ingegneri della compagnia: la sicurezza era comunque garantita.

Si avviò un grandioso processo di mitopoiesi, in capo al quale Bhopal era orgogliosa della “bella fabbrica”, orgogliosa di essere proiettata verso il nuovo millennio. Per i giovani indiani che riuscivano a studiare ingegneria o chimica la Carbide era la meta finale di un sogno. Ma lo era anche per gli abitanti della Spianata Nera che venivano formati e diventavano operai specializzati ed entravano nel grande mondo delle tute con la losanga bianca e blu della Carbide. La Safety Culture della compagnia era parte integrante dell'addestramento di operai, ingegneri e chimici. Un'intera costruzione sociale ruotava intorno alla bella fabbrica. Non si traduceva in promozione sociale, ma andava bene lo stesso: erano le “meraviglie portate nella vita” che importavano, quelle descritte dai dépliants della Carbide.

In capo a dieci anni però, le condizioni di mercato mutarono, il successo del Sevin in India fu inferiore alle aspettative e la Carbide decise di fermare la fabbrica. Senza smantellarla e senza metterla in sicurezza. Sostanzialmente, la abbandonò affidandola a personale sempre meno motivato e, soprattutto, sempre meno formato. Prima della fine del 1983 la metà egli ingegneri che l'avevano vista nascere, o che erano nati lì dentro, fra quelle torri e quei reattori, se andarono, incapaci di sopportarne il degrado. L'ingegner Pareek fu l'ultimo ad andarsene, lui che aveva tanto spesso rischiato consapevolmente la vita trasportando convogli di MIC da Bombay a Bhopal prima che il reparto di produzione del MIC fosse attivo. Prima di andarsene, volle mostrare a chi restava che i sistemi di sicurezza – follemente disattivati per ridurre le spese di esercizio e manutenzione - potevano essere velocemente riattivati: si arrampicò sulla torre di combustione e riaccese la fiamma, poi tornò ai serbatoi e riavviò l'impianto di raffreddamento.

Infatti, poiché l'isocianato di metile bolle a 38 gradi – e a quel punto è come una bomba incontrollabile – è necessario mantenerlo sempre attorno agli zero gradi. Tanto più in una regione dove la temperature invernale si aggira attorno ai venti gradi.

Le condutture di emergenza dovrebbero portare gli eventuali gas sviluppati in una reazione verso la torre di lavaggio, dove la soda caustica li neutralizza. Sopra a queste c'è la torre di combustione, dove una fiamma sempre accesa dovrebbe bruciare gli eventuali residui.

Tuttavia, per risparmiare qualche chilo di carbone, la fiamma era stata spenta. Per risparmiare qualche chilowatt, la camera di lavaggio era stata disattivata. Per lo stesso motivo, anche il circuito di refrigerazione era stato spento.

Il direttore designato a portare la fabbrica in stand-by, l'insigne chimico Mukund, proveniva dalle noiose fabbriche di batterie dove l'incidente più grave che possa occorrere è che te ne cada una su un piede. La “bella fabbrica” è morta. Non c'è pericolo, quindi. Una fabbrica ferma non comporta pericoli. È sostanzialmente una posizione filosofica. Che però non tiene conto delle sessanta tonnellate di MIC che ancora sono presenti nelle vasche E610, E611 ed E619. Non ne tiene conto anche perché la Carbide non ritenne di informare il suo uomo della pericolosità del composto.

Le vasche sono un gioiello di tecnologia: niente e nessuno può intaccare lo speciale acciaio inossidabile SS14 di cui sono fatte. Ma questo è vero se la manutenzione di tutto l'impianto continua a regola d'arte. Ma ormai le valvole erano arrugginite e così anche molto condotti. Le guaine dei cavi elettrici erano corrose, molti strumenti e molte sonde – comprese quelle di alcune vasche – non erano più funzionanti. Un rapporto estremamente allarmante descriveva la “reale possibilità di gravissimi incidenti” ad Institute, USA, in una fabbrica perfettamente funzionante. Soprattutto, si sottolineava, il pericolo consisteva nel fatto che si potessero innescare reazioni chimiche incontrollate all'interno delle vasche di stoccaggio del MIC. L'isocianato non è inerte: è vivo. Si modifica, si agita, si scompone. Lo stoccaggio prolungato favorisce contaminazioni interne che lo rendono altamente instabile. Tutto ciò rischia di passare inosservato sino a quando non avviene una reazione chimica improvvisa e devastante.

Questo rapporto a Bhopal non ci arriva e il direttore Mukund continuava a sognare di una fabbrica ferma che non presenta pericoli. Ranjit Dutta, che era il papà della “bella fabbrica”, ne constatò atterrito le condizioni desolanti e ne scrivette in un rapporto alla sede centrale della Carbide. Che lo ignorò come se veramente parlasse di cioccolato.

La sera del 2 Dicembre 1984 è benedetta dagli astri e la città si prepara a festeggiare. Non sa che ad un operaio con la tuta bianca e blu, Ramahan Khan, viene data la consegna di effettuare un lavaggio delle condutture che portano il MIC dai reattori alle vasche. Nel passaggio l'isocianato intacca le tubature formando depositi di scorie che potrebbero poi finire nelle vasche. È necessario tenere i tubi costantemente puliti per evitare che queste scorie contaminino il MIC nelle vasche e portino a reazioni chimiche incontrollabili.

Né l'operaio né il capo turno Gauri Shankar sanno granché del funzionamento dell'impianto. Sono appena arrivati, sanno giusto leggere le note lasciate dal direttore. Non sanno nulla né del MIC né del fosgene. Le note sono anche incomplete, tralasciano un particolare tecnico che anni prima costò la vita alla prima vittima dell'impianto (ma questa è una storia che racconteremo fra poco, parlando di Porto Marghera.. in fondo, è sempre la stessa storia). E, comunque, si riferiscono ad un impianto perfettamente funzionante, non ad uno in cui valvole e pannelli mobili non sono stati sostituiti da troppo tempo e sono intaccati dalla corrosione. È molto che il lavaggio non viene effettuato e a loro sembra uno scandalo. Bisogna farlo. E lo fanno.

In breve, qualcosa va storto.. e una certa quantità d'acqua penetra nella vasca E610, che contenendo 42 tonnellate di MIC è quasi piena, contrariamente ad ogni norma di sicurezza. Infatti una vasca non andrebbe mai riempita per più di metà, in modo a potervi immettere composti stabilizzanti in caso di bisogno, o azoto in pressione per far fuoriuscire il MIC lungo le condotte d'emergenza, verso la torre di lavaggio (disattivata) e poi quella di combustione (spenta). In realtà nessuno sa con esattezza cosa ci sia nella vasca E610 e nelle altre. Dopo tanto tempo, il MIC è diventato un qualche ignoto miscuglio digrignante di reazioni chimiche dovute alle impurità accumulate che generando calore lo stanno dissociando in un mescolìo di gas letali.

L'acqua che vi penetra termina il lavoro e la vasca E610 a mezzanotte e cinque minuti esplode liberando in un'apocalisse le 42 tonnellate di morte che conteneva.

Il fatto che i venti spirino costantemente dalla fabbrica verso i quartieri della città vecchia e della Spianata Nera non è mai stato un pensiero degno di nota. Anche quella sera un bel venticello che porta le bolle dei varii gas proprio nel mezzo della città.

La morte è invisibile, non si annuncia. Le persone e gli animali stramazzano al suolo dopo pochi respiri, schiumando e rantolano, gli occhi fuori delle orbite, i polmoni esplosi, gli intestini divelti. Le stesse forze di polizia sono decimante e la follia si impadronisce della città e migliaia di persone si riversano o vengono portate all'ospedale, dove pochi medici eroicamente si prodigano per tutti. L'insigne professor Mishra, preside del Gandhi Medical College, accorre in ospedale e passa personalmente a chiamare al College tutti gli studenti di medicina, che si precipitano all'ospedale. Alcuni di loro moriranno praticando le respirazioni bocca a bocca, aspirando la morte dai polmoni devastati dei morenti.

Il ministro della Sanità non riesce a farsi dire dalla Union Carbide cosa diavolo ci fosse in quella fabbrica. La Carbide continua ad assicurare che i gas non sono tossici, che basta un fazzoletto bagnato sulla bocca. Il dottor Loya, dipendente della Carbide nel piccolo ospedale interno della fabbrica insiste anche lui sullo stesso punto. Al massimo causano qualche edema polmonare, dice. Si tratta, secondo lui, di “una specie di gas lacrimogeno”.

Testimoni di scene raccapriccianti, i medici cominciano una ricerca autonoma, pensando inizialmente al fosgene, ricordando i sintomi di quella morte di qualche anno prima: la Carbide non ha mai fornito informazioni dettagliate alla classe medica della città.

Chi non ha i polmoni esplosi ha gravi disturbi polmonari o gastrici, sintomi di gravissime menomazioni del sistema nervoso, ulcerazioni della cornea, rottura del cristallino, paralisi del nervo ottico. I volti tanto gonfi da nascondere gli occhi non permettono di distinguere i vivi dai morti. I vestiti, le barbe e i capelli sono impregnati di gas che avvelena anche i soccorritori.

La Carbide si guarda bene dal fornire le informazioni vitali che avrebbero permesso di salvare molte vite e i limitare i danni a migliaia di persone.

L'unico consiglio che proviene dalla compagnia è “respirate il meno possibile”.

Nel chaos di quella notte e delle tumulazioni e e dei roghi nei giorni successivi è impossibile sapere quante furono le vittime. Il numero stimato varia da 16000 a 30000. Decine di migliaia sono coloro che ancora oggi portano le stimmate di quella notte, di quella fabbrica innocua come una di cioccolato.

Il PORC

Il 7 Giugno 2010 il tribunale dello stato del Madhya Pradesh ha riconosciuto colpevoli – con una sentenza immediatamente appellata dalle parti civili – 7 dirigenti della Union Carbide colpevoli non di strage ma di “negligenza”, condannandoli ad una multa di circa 1700 euro e a due anni di prigione, ma concedendo libertà immediata dietro il pagamento di una cauzione di 400 euro. Warren Anderson, presidente della Carbide all'epoca dei fatti, è latitante (e ricco) da 20 anni.

Nel 1998 la Union Carbide patteggiò con il governo indiano un risarcimento forfettario di 470 milioni di dollari, ma cessò di esistere l'anno successivo, quando la divisione prodotti agricoli fu acquistata dalla francese Rhône-Poulenc e il restante fu rilevato, per 9 miliardi e trecento milioni di dollari, dalla Dow Chemicals, che rifiuta di assumere ogni responsabilità per l'accaduto e, quindi, di pagare qualsivoglia indennizzo alle centinaia di migliaia di sopravvissuti. Disse il suo Presidente, Frank Popoff: non è in mio potere assumere la responsabilità di un avvenimento che accadde 15 anni fa con un prodotto che noi non abbiamo mai trattato in un luogo dove noi non abbiamo mai operato.

Questo PORC, Principio dell'Obnubilazione della Responsabilità del Capitale, che non trova naturalmente enunciazione alcuna in nessun Trattato, Costituzione o corpus giuridico, è però costantemente e regolarmente praticato, messo in atto. Di fatto è enforced dalla “legislazione viva” che viene applicata nei tribunali e sui mercati.

Porto Marghera

Non è andata molto meglio a Porto Marghera, dove si è consumata un'altra PORCata, nonostante l'illusione che potrebbe coltivare in questo senso chi non ha mai sentito parlare dei vasi comunicanti. Il 2 Novembre 2001 il tribunale di Venezia, a conclusione di un processo iniziato grazie ad un esposto presentato a Felice Casson dal lavoratore Gabriele Bortolozzo – che condusse un'analisi epidemiologica su 424 colleghi, assolve i dirigenti di Montedison ed Enichem accusati di essere responsabili della morte di 157 operai e di gravi danno permanenti ad altri 103. Il 15 dicembre 2004 la sentenza di appello ribalta il senso giuridico della sentenza e, quantomeno, stabilisce un principio di giustizia e condanna cinque dirigenti a un anno e mezzo di galera.

A Porto Marghera si produceva una grande varietà di sostanze plastiche. Una delle principali per varietà possibile di prodotti finali era il PVC, policloruro di vinile, risultato della polimerizzazione del CVM, il cloruro di vinile monomero.

La pericolosità del CVM per l'uomo è nota fino dagli anni '40 e il suo altissimo potere oncogeno dal 1969, ed esistono prove di un accordo tra industrie chimiche europee e nordamericane per mantenere il segreti i forti rischi per la salute degli addetti al CVM1. Almeno fino al 1974 gli operai di Porto Marghera sono all'oscuro di tutto e almeno fino al 1980 l'azienda non prende sostanzialmente alcuna misura precauzionale per salvaguardarne la salute:

Nei luoghi di lavoro, a Porto Marghera come altrove, si operava in mezzo a nuvole di cvm, gas incolore e inodore, leggermente dolciastro ad una certa concentrazione e dagli effetti apparentemente etilici. Inoltre, i lavoratori erano esposti alla polvere di pvc, ancor più deleteria quella prodotta con la polimerizzazione in emulsione, per la bassa granulometria che la rendeva estremamente volatile”2

La sostanza è così pericolosa che uccise persino le segretarie negli edifici amministrativi, che l'avevano respirata. Fino al 1975, racconta uno dei capiturno nella sezione del CVM, “Della nostra produzione giornaliera di cloruro di vinile, circa 340 tonnellate, ben 40 tonnellate evaporavano e raggiungevano l'atmosfera". Quasi 15.000 tonnellate di veleno cancerogeno all'anno. Ma questo non era tutto: con il riempimento manuale di sacchi da 10 chili di granulato di PVC si dovevano aggiungere, secondo Corò, 500 grammi in più per eliminare le presunte perdite da evaporazione fino alla consegna all'acquirente. "Succedeva spesso che sacchi da 25 chili esplodessero, perché la pressione gassosa del cloruro di vinile era diventata troppo alta". Secondo Fabrizio Fabbri, (il chimico che ha redatto per Legambiente il dossier “Morte a Venezia”) "Simili condizioni di lavoro possono venire chiamate solo omicidio premeditato".

Il complesso dell'Enichem ammise per esempio una volta che le sue fabbriche nel 1992 avevano riversato nell'aria in totale 2136 tonnellate di dicloroetano cancerogeno e 1036 tonnellate di cloruro di vinile. Fabbri è scettico: "Sicuramente solo una parte di verità".3

Secondo la ricostruzione di Paolo Rabitti, esperto di PVC e professore universitario, "Fino agli anni Settanta venivano continuamente raggiunti valori di cloruro di vinile fino a 40.000 ppm. Con simili concentrazioni esisteva perfino il pericolo di esplosioni. Verso il 1975 il contenuto di cloruro di vinile nell'aria venne contenuto tra 3000 e 4000 ppm. Si può ancora sentire l'odore dolciastro del monomero". Nel 1974 la concentrazione massima permessa negli USA viene abbassata a 50 ppm (parti per milione), in Germania viene virtualmente azzerata, ammettendo una concentrazione “tecnica” – ovvero un compromesso sul posto i lavoro per sostanze non completamente eliminabili per difficoltà tecniche – di 5 mg per metro cubo.

Alla Montedison, centinaia di lavoratori del ciclo del cloro furono mandati deliberatamente a morire (Bortolozzo era l'unico sopravvissuto del suo gruppo, pur avendo sviluppato il morbo di Raynaud), decimati dal “classico” angiosarcoma, la forma tumorale associata all'avvelenamento da CVM: “I documenti confermano che è più economico pagare premi di assicurazione piuttosto che investire in sicurezza del lavoro e nel riordino tecnico degli impianti" , afferma il sostituto procuratore Felice Casson4. Ma non solo i lavoratori del ciclo del cloro: negli anni '70 sono decine di migliaia i lavoratori degli impianti e dell'indotto, e le emissioni si spargono ovviamente su tutto il territorio (i dati testimoniano che nella provincia di Venezia ci si ammala di tumore 3 volte di più che nel resto della regione). E non solo nel territorio limitrofo: nel 1984 una campagna di mobilitazione riesce a fermare lo scarico di 4000 tonnellate al giorno di gessi nell'adriatico. Nel 1988 un'altra campagna ferma il traffico internazionale di rifiuti tossici che partivano da Marghera e finivano in Africa.

Attorno a Porto Marhera al caratteristico odore dolciastro del CVM si sovrappone l'odore maleodorante delle ammine aromatiche, anch'esse molto cancerogene, che ricorda quello dei cadaveri. Su 600 ettari venivano prodotti e depositati benzina, diesel, PVC e cloruro di vinile, solventi velenosi di ogni tipo, il vecchio gas da combattimento fosgene5, utilizzato come agente reticolante. Il 28 novembre 2002 Venezia rischiò una tragedia simile a quella di Bhopal: nell'impianto della Dow Chemical esplosero due serbatoi, a 20 metri di distanza da un serbatoio che conteneva 15 tonnellate di fosgene (pochi microgrammi di fosgene sono sufficienti ad uccidere un uomo). Secondo le valutazioni di Fabbri, il chimico di Greenpeace, in caso di incidente la strage avrebbe interessato un raggio compreso tra i 4 (zona di letalità) agli 8 chilometri, includendo centinaia di migliaia di persone, compresi i turisti a Venezia.

Quello di Porto Marghera non è certamente un caso unico: ci sono in Italia più di mille aziende ad alto ed altissimo rischio (secondo gli artt. 6 e 8 della “legge Seveso”).

Il giorno prima della sentenza (quella del 2 novembre 2001) avvenne un altro fatto curioso: la Montedison patteggiò con l’avvocato dello stato un esborso di 525 miliardi di lire per indennizzo dei danni ambientali prodotti venendo esclusa dalla sentenza. Fu una scommessa, viste le richieste di danni ambientali di migliaia di miliardi dell’accusa la Montedison sperava così di risparmiare, non sapendo che invece il giorno dopo le imprese furono tutte assolte .

Su questi miliardi è nata una polemica perché non si sa bene se a 4 anni di distanza siano stati versati al Ministero dell’ambiente e come siano stati spesi.

A Marghera la Regione ha approvato il master plan per le bonifiche della aree altamente inquinate ma non si trovano i fondi per fare i lavori perché chi ha inquinato non paga, le aziende infatti sono state assolte per questa voce del processo e hanno cambiato nome decine di volte negli ultimi decenni per cui i responsabili sono irrintracciabili .

Così si cercano fondi pubblici per risanare le aree e per eseguire i lavori si presentano società costituite da raggruppamenti di grandi industrie chimiche che sono le stese che hanno inquinato; il cerchio si chiude: chi ha inquinato guadagna anche sul disinquinamento.6

Una ennesima, chiara applicazione del PORC (al momento sono ancora in corso il processo alla Solvay di Ferrara, cui sono rivolte le stesse accuse delle Montedison/Enichem e sempre per il ciclo del cloro, e il processo per il rogo alla Thyssen di Terni).

Infine

Bhopal e Porto Marghera sono due fra i molti esempi possibili, e restituiscono egregiamente la natura del rischio a cui il tecnocapitale ci espone.

Che alcuni dispositivi per la tutela della salute e dell'ambiente siano stati resi possibili dai conflitti dei decenni passati non ha evidentemente impedito né Bhopal né Porto Marghera né la crisi della biodiversità né il fatto che una quantità esorbitante di falde acquifere siano irrimediabilmente compromesse dalla presenza di composti chimici letali, né molti altri fatti che determinano la “norma” del nostro vivere quotidiano. C'è una strutturalità evidente in questa norma: non a caso un elemento di forte pregio agli occhi del capitale è l'assenza di questi stessi dispositivi e la possibilità del tecnoazzardo più puro.

Il livellamento verso il basso non si dà solo sul reddito o sui diritti di cittadinanza, ma anche su – o, forse, a partire da – la capacità vitale della biosfera ed il suo "stato di salute".

1Petrolkiller, Bettin e Dianese, Feltrinelli, 2003

2Dall'esposto che Gabriele Bortolozzo presentò alla magistratura nel 1996

3 Riadattato dal sito dell'Associazione Gabriele Bortolozzo: http://agb.provincia.venezia.it

4Dal sito dell'Associazione Gabriele Bortolozzo, cit.

5 Sulla pericolosità del fosgene, ad esempio: http://www.frankmckinnon.com/phosgene.htm

6Dal sito dell'Associazione Gabriele Bortolozzo, cit.