Ribellarsi al ricatto della disoccupazione

I recenti dati Istat sui livelli occupazionali e le vaghe promesse di Renzi sulla riforma del lavoro testimoniano l'urgenza di una campagna sociale diffusa per l'istituzione del reddito di base

14 / 1 / 2014

di Maurilio Pirone – Adl Cobas Emilia Romagna

La situazione del mercato del lavoro in Italia dipinta dall'ultima indagine Istat ha certificato quanto tutti sanno da tempo: il dramma dei nostri giorni è quello della mancanza di lavoro. Non è un caso che il neo-segretario del Pd Matteo Renzi abbiamo lanciato quasi in contemporanea l'idea di un Job Act che dovrebbe servire proprio a stimolare la creazione di posti di lavoro. In questa situazione rimane ingiustificatamente ai margini la discussione sul reddito di base, probabilmente l'unica vera contromossa al ricatto costante della disoccupazione.

I numeri dell'Istituto nazionale di statistica parlano chiaro: il tasso di disoccupazione è al 12,7% (livello più alto da quando sono cominciati i rilevamenti trimestrali nel '77) con punte del 41,6% per quanto riguarda i giovani; gli uomini, storicamente più protetti e meglio pagati delle donne, hanno subito una perdita percentuale di posti di lavoro maggiore, segno che nessuno è immune; le domande per i sussidi sono in aumento; in 6 anni si sono persi 1,1 milione di posti di lavoro.

Numeri che parlano chiaro e che non esauriscono la drammaticità della situazione. Mentre lo spread scende e il governo fa gli ennesimi proclami sulle prospettive chimeriche di una futura crescita, anche chi ha lavoro non se la passa meglio. Il problema non è semplicemente quello del lavoro nero o del lavoro schiavile (che in Italia esiste ancora, come testimoniato dal rogo della fabbrica di Prato poco più di un mese fa); anche i contratti regolari danno troppo spesso salari da fame: lavorare 40 ore a settimana per un rimborso spese di 400 euro impedisce a chiunque di poter essere economicamente autonomo. Il migrante cinese che vive e lavora in un capannone fatiscente e il precario cognitivo che salta da un lavoro all'altro non sono così lontani, il Capitale è in grado di integrare tra di loro condizioni di produzione ben differenti in modo tale da permettere uno sfruttamento diversificato e per questo più efficace della forza-lavoro.

Eppure poco si muove dal punto di vista del conflitto nel mondo del lavoro, se non singole categorie che faticano a trovare un piano di solidarietà sociale. È legittimo a questo punto chiedersi perché. I dati Istat servono in questo caso non solo a fotografare parzialmente uno stato di cose esistenti, ma anche ad alimentare e confermare una paura sempre più diffusa, la disoccupazione. La perdita del posto di lavoro è un'ansia costante che assilla ogni lavoratore e che smorza troppo spesso qualsiasi desiderio di protesta. Di fronte allo spettro di rimanere senza lavoro molto spesso ci si trova costretti a calare la testa e mettere in tasca pochi soldi piuttosto che protestare e così rischiare di essere licenziati. Un doppio ricatto, perché oltre alla minaccia della perdita del posto c'è sempre l'ombra di un altro lavoratore che potrebbe sostituire a minor salario quello impiegato. Il cosiddetto esercito di riserva dei disoccupati non rappresenta per forza un problema per il Capitale, anzi può costituire un utile strumento di costante controllo e ricatto della forza-lavoro. Il lavoratore finisce così per vedere nell'altro lavoratore, nel precario, nel disoccupato non un alleato, ma un nemico che minaccia la stabilità delle sue condizioni di vita. Nel tempo della crisi e dunque della ricerca di nuove forme di accumulazione e di diverse dinamiche di sfruttamento, lo spettro della perdita del lavoro è il più efficace strumento di controllo sociale a disposizione del potere, il dispositivo migliore in mano ai padroni per anestetizzare il conflitto sociale.

Quasi in contemporanea con la fotografia dell'Istat, il nuovo segretario del Pd Renzi ha presentato la sua idea di un Job Act, un provvedimento sul lavoro che dovrebbe permettere al Paese di uscire dalla drammatica fase in cui si trova. I dati sulla disoccupazione servono in questo caso proprio a giustificare una nuova ridefinizione delle condizioni di produzione. Il possibile provvedimento include un taglio dell'Irap, la diminuzione dei contratti di lavoro, l'istituzione di un assegno universale per chi perde il lavoro, la semplificazione della burocrazia, un nuovo codice del lavoro, una legge sulla rappresentatività sindacale. Possiamo dire senza la paura di sembrare reazionari che in linea teorica si tratta di tutte idee condivisibili: le forme contrattuali (più di 40, anche se quelle maggiormente usate sono perlopiù una decina) sono una giungla funzionale allo sfruttamento, gli ammortizzatori sociali non rispondono più alle esigenze di un mercato del lavoro profondamente trasformato rispetto a quando furono istituiti, le tasse sul lavoro sono troppe, lo sanno bene le false partite Iva. Il punto però sta nel fatto che tutti questi elementi non devono servire come scusa per peggiorare le condizioni dei lavoratori su altri versanti. In altre parole, il rischio è che anche in questo caso si usi il principio del bilancino per cui si concedono diritti da una parte e se ne sottraggono altri da un'altra. Ad esempio è possibile che alla riduzione delle tipologie contrattuali faccia seguito anche un allungamento del periodo di prova (cosa che è stata già proposta), esponendo così il lavoratore al ricatto continuo del licenziamento unilaterale da parte dell'azienda. Allo stesso modo, a nulla vale far sedere i lavoratori nei consigli di amministrazione se poi i sindacati rinunciano all'elemento del conflitto per trasformarsi in istituzioni di gestione e controllo della forza-lavoro.

Di fronte dunque al ricatto costante della disoccupazione e al tentativo di riformare in senso peggiorativo il mercato del lavoro urge riportare al centro del dibattito politico dei prossimi mesi una richiesta fondamentale, l'istituzione di un reddito di base incondizionato. Sono anni che i movimenti lavorano in questa direzione e mai come adesso questo costituirebbe un contro-dispositivo efficace allo sfruttamento. Quando parliamo di reddito di base non intendiamo restringerne la validità a specifiche categorie (gli italiani, i contratti a tempo indeterminato, etc.), né farne un uso propagandistico (come recentemente ha fatto il governo Letta millantandone l'istituzione); esso rappresenta invece la migliore risposta materiale al rischio della perdita del posto di lavoro e al ricatto salariale. Istituirlo vorrebbe dire liberarsi dallo spettro della mancanza di una fonte di reddito così come fare in modo che non si sia più disposti ad accettare qualsiasi lavoro sottopagato. Il reddito di base vorrebbe dire stabilire un diritto di scelta sul lavoro, significherebbe liberare spazi di conflittualità. Permetterebbe inoltre di farla finita con una cultura lavorista per la quale bisogna mantenere certi livelli occupazionali anche se sono venute meno delle esigenze produttive. Senza di esso continueremo a essere sottoposti al ricatto della disoccupazione così come a tenere in piedi strutture produttive che non hanno più una funzionalità sociale. La classica strategia liberista ai problemi dello sviluppo economico e dei livelli occupazionali infatti è intervenire sul mercato per migliorarne e stimolarne la concorrenzialità; in altre parole si cerca di creare migliori condizioni legislative ed economiche per le aziende e gli investitori che in questa maniera dovrebbero rilanciare la produzione e favorire (indirettamente e in un secondo momento) anche i lavoratori. Si tratta evidentemente di una strategia che va dall'alto al basso e all'interno della quale i profitti finiscono per basarsi su una compressione dei diritti e dei salari dei lavoratori. Il reddito di base invece è uno strumento che parte da una prospettiva totalmente differente, ossia la redistribuzione della ricchezza; non si tratta quindi di permettere i guadagni di pochi nella speranza che poi ne lasciano qualcosa anche agli altri, ma di intervenire direttamente sulla ripartizione dei profitti. Una strategia dunque che mette al centro le fasce meno abbienti e stimola non la concorrenzialità dell'offerta, ma le potenzialità della domanda.

Occorre quindi fare in modo che nei mesi a venire ci si inserisca nel dibattito sul lavoro non solo ostacolando le proposte negative che verranno fatte, ma anche rilanciando positivamente l'esigenza di un reddito di base incondizionato.