Riflessioni sulla sentenza della Corte Europea

29 / 8 / 2009

Non è possibile una lettura “semplice” della sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani sull’omicidio di Carlo Giuliani. E’ necessario scegliere un punto di vista preciso che in questo caso, quello cioè dei fatti di Genova 2001, è diverso, antitetico, tra ciò che si può scorgere dall’angolazione di “movimento”, a quello che si sviluppa invece dalla prospettiva “democratica”. Dimostrare questa tesi significa quindi, innanzitutto, definire i punti di partenza. Iniziando ad esempio da ciò che rappresenta, nel nostro paese e in questo squarcio di tempo, la posizione “democratica”. La fine progettuale della sinistra ha prodotto uno strano essere da quelle parti: un mutante, una sorta di freak del pensiero politico, in cui il giacobinismo proprio di ogni sinistra, che serve ad alimentare la lotta politica, essenzialmente giudiziaria e moralistica, contro il nemico Berlusconi, ha rapidamente preso la scena, alleandosi con il giustizialismo di destra. Ne emerge un quadro in cui l’idea liberale di giustizia e del rapporto tra normazione e legittimità, ne escono massacrati. Per certi versi una sorta di fascismo culturale di sinistra che si gioca la partita all’ultimo sangue con il neo fascismo tecnocratico dell’altra parte, in lizza per il potere. Il sangue è quello ovviamente dei soggetti sociali “teoricamente” titolari di diritti, che stanno in mezzo e sono terra di conquista, o meglio, carne da macello. I democratici nostrani contemporanei sono un mostro, questa è la verità: pensano come Dalema, parlano come Di Pietro, amministrano come Bersani, si prostituiscono come Rutelli e usano il cilicio come la Binetti. Il loro unico progetto è convincerci che tolto Berlusconi, loro le stesse cose le fanno meglio. Non vi è alcuna alternativa, se non quella di dare più potere al carcere, ai magistrati, alla polizia, alle guerre, al controllo, alla pubblica morale teocratica a discapito dell’etica laica. Lo sfacelo è d'altronde sotto gli occhi di tutti, e la grande famiglia che si sta formano attorno al quotidiano “La Repubblica”, checchè ne dicano i “sinistri”, di fatto comprende anche le ultime falci e martello. I democratici hanno sempre pensato che bisognasse innanzitutto salvare lo Stato dopo Genova. Che bisognasse disinnescare rapidamente l’aria di rivoluzione che in quelle strade si era mescolata a quella asfissiante dei lacrimogeni. E’ per questo che quel “diritto di resistenza”, nato in Via Tolemaide, faceva paura soprattutto a loro. La destra probabilmente lo ha temuto meno, e lo ha affrontato con la guerra.

I democratici invece temono che proprio insito nel diritto a ribellarsi anche con violenza alla forza dello Stato, vi sia la loro fine in quanto garanti del rapporto, diseguale e violento, tra lo Stato stesso, tra il potere, e chi lo subisce. Per questo il loro rapporto con le “rivoluzioni” è diametralmente opposto a quello della destra. Quest’ultima le combatte con la guerra, i primi invece cercano sempre di renderle impossibili prima che partano. Le denigrano, le criminalizzano ed infine le occultano. In questo senso la sentenza di Strasburgo è certamente una sentenza “democratica”: “Placanica ha sparato per legittima difesa” ma vi sono stati a carico dello Stato “problemi procedurali e violazioni di articoli”. Si giunge fino al ridicolo risarcimento di 40mila euro per la famiglia Giuliani. Tutto in sostanza per dire che vi è un sistema che sostanzialmente funziona se gestito bene. Anzi, non serve nemmeno che effettivamente le norme vengano rispettate, perché il solo atto di riconoscere qualche violazione, è espressione di democrazia. La Corte di Strasburgo è un utile tribunato democratico in questo senso: lo fa valutando le deportazioni di massa dei migranti che continuano ad esserci, le torture e gli omicidi compiuti dalle polizie europee che continuano a ripetersi, i respingimenti illegali dei bambini afghani che scappano dalla guerra, che sono diventata prassi normale. Continua nel suo lavoro, la Corte europea, per permettere che il sistema continui a reggere, non perché esso sia messo radicalmente sotto accusa.

Ciò che è accaduto a Genova nel 2001 non ha paragoni in Europa. Solo il regime iraniano negli ultimi mesi ha ricordato come furono usati polizia e carabinieri quel luglio, in Italia. I democratici avevano preparato il dispositivo dell’ordine pubblico a Genova. Perché erano al Governo. Il Global forum di Napoli, la cui repressione fu gestita dal democratico ministro dell’Interno di allora, Enzo Bianco, aveva già dimostrato loro di che polizia stessero per servirsi, un’accozzaglia di fascisti di tutte le risme inquadrati in plotoni di picchiatori addestrati e legalmente giustificati, un po’ come li racconta Bonini in “Acab”, delegando la gestione del comando delle truppe, la guida della repressione, ad un “democratico” della statura di De Gennaro. Qual’era la strategia che volevano adottare per Genova dunque, sapendo che ci sarebbe stata una vera e propria sollevazione di popolo contro il G8? Quella di accettare la “soluzione politica”, cioè di trasferire in mezzo al mare il vertice, un po’ come fece il Canada dopo, piazzandolo in mezzo alle montagne?  Non l’hanno nemmeno presa in considerazione. Tra il popolo che insorge, anche il loro popolo, e la riconferma del potere come entità assoluta e che si dimostri solida anche se in realtà non lo è, in grado di gestire qualsiasi evento di contestazione, insomma gli ingredienti fondamentali per potersi permettere di non mettersi mai seriamente in discussione, hanno optato senza indugio per la seconda ipotesi.

Anche perché, in fondo, non è questa la contemporanea maniera di “praticare” la democrazia? Non è così, dimostrando che il potere è assoluto tanto da poter concedere la testimonianza senza modificare nulla di sé stesso, che si definisce la sua moderna, e mostruosa, natura democratica? Avevano anche un’ulteriore carta da giocare, i democratici: in caso di perdita di elezioni, come era ampiamente prevedibile, la patata bollente sarebbe toccata agli avversari. I quali, consci del rischio di partire male e proseguire peggio (le proteste successive a quelle contro il G8 non potevano trarre forza da quell’evento, ma anzi dovevano essere depotenziate subito, dagli esiti di luglio), applicarono al modello di gestione dell’ordine pubblico deciso dai loro predecessori, alcuni “accorgimenti”. A scanso di trappole. Ad esempio il ruolo di primo piano frettolosamente affidato ai carabinieri del generale Leso, nonostante sulla carta la conduzione delle operazioni di piazza spettasse alla polizia. In un articolo di analisi molti mesi dopo il luglio del 2001, proprio il generale, a cui si deve la creazione delle MSU, le unità di intervento risolutivo dell’Arma, impiegate in Iraq come in Afganistan, definisce Genova come una situazione affrontata con “tecniche di controguerriglia forse un po’ troppo pesanti”, ma sostanzialmente dichiara raggiunto l’obiettivo. La polizia, e De Gennaro, rispondono “sul campo” con la Diaz: ordinano un intervento “un po’ troppo pesante”, proprio per riequilibrare il ruolo della PS nei confronti dell’Arma dei carabinieri. Proprio per dichiarare, de facto, l’assoluta obbedienza al nuovo governo, semmai qualcuno avesse potuto dubitarne. Ma è curioso che sia proprio Sgalla, un uomo della sinistra ai vertici della polizia, a gestire pubblicamente, in una conferenza stampa proprio quella notte, la brillante operazione cilena della Diaz. E, dulcis in fundo, è curioso, o forse solo apertamente vergognoso, che il primo atto del Governo Prodi con Rifondazione nell’esecutivo e Bertinotti presidente della Camera, sia stata la nomina di De Gennaro a capo di gabinetto del ministro degli interni Amato. Per la prima volta nella storia della Repubblica un “Prefetto di prima classe” viene automaticamente promosso a membro di un governo. Pure i Prefetti hanno protestato. Da una parte i “democratici” chiedevano pubblicamente la commissione d’inchiesta parlamentare, dall’altra promuovevano De Gennaro.

E anche sulla Commissione d’Inchiesta ci sarebbe molto da dire. I democratici, a differenza della destra che la temeva per danno d’immagine, hanno sempre specificato, da Violante a Di Pietro, che bisognava mettere sotto accusa manifestanti e polizia. La tesi da dimostrare, per loro, già scritta nella risoluzione di minoranza dopo la commissione d’indagine del settembre 2001, è che qualche mela marcia aveva sbagliato da entrambe le parti. Certo, il governo in carica si era dimostrato incapace, ma Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, intesi come vertici, non andavano toccati. Allo stesso modo solo una piccola parte di manifestanti violenti avevano provocato la reazione delle forze dell’ordine, poi degenerata. Vi è dunque un problema a monte di scelta di prospettive, per poter valutare ciò che oggi la Corte di Strasburgo dice su Genova. Se si sceglie la traiettoria degli attuali democratici, la decisione della Corte appare equilibrata e in qualche modo riparatrice. Solo se si considera l’attuale parabola “democratica” come parte integrante del sistema di potere che sopravviene, e questo in termini più generali potrebbe valere anche per lo stesso Obama, allora possiamo criticarla, in funzione di un’altra prospettiva.

Quella di un cambiamento radicale. Nessun democratico contemporaneo ammetterà mai, né indossando i panni del giudice, né del poliziotto, né del politico, che per avere ragione dei torti subiti a Genova, dal punto di vista della legge o della cultura dei diritti umani, bisogna riconoscere il diritto dei manifestanti a ribellarsi. Bisogna procedere per questo con un’amnistia per tutti coloro che sono stati condannati. Bisogna mettere sotto accusa, aprendo una pubblico iter di riforma, l’intero corpo di polizia e dei carabinieri. Che significherebbe ad esempio, per un democratico, vigilare sul loro operato, disarmarli quando hanno difronte gente disarmata, punirli severamente, più degli altri, quando commettono un omicidio. E far saltare teste ai loro capi, a chi comanda, quando ciò avviene. In qualche modo ha ragione qualche commentatore, come Imarisio sul corriere, che dice che questa sentenza è frutto di una “strategia sbagliata da parte dei no global” che dovevano puntare su un giudizio relativo a tutte le violazioni, le torture, i pestaggi, il massacro compiuto a Genova dalle forze dell’ordine, e non sul caso Placanica. Ma La Corte poteva, anche a partire dal caso dell’omicidio di Carlo Giuliani, esprimersi lo stesso sul resto. Non lo ha fatto con il dovuto rigore perché si sarebbe trattato di legittimare il “diritto di resistenza”, questa è la verità. Come difronte ai crimini commessi da questo governo nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo, si dovrebbe legittimare il sabotaggio e la disobbedienza alle leggi securitarie, come minimo.

Ma questa non è la prospettiva dei democratici contemporanei e dei loro tribunati nella costituzione imperiale. Uno dei sette giudici della Corte di Strasburgo si chiama Zagrebelsky. E’ italiano ed è uno dei tre che ha votato contro la condanna dell’Italia al risarcimento dei 40mila euro per violazioni gravi dei diritti e negligenza nell’accertare le responsabilità. Uno dei tre giuristi democratici che ha scritto la mozione contro Berlusconi e contro il suo attacco “alla libertà d’informazione” si chiama Zagrebelsky. Scommettiamo che non è un omonimo? Si può essere dalla parte dello Stato per Genova e allo stesso tempo “democratico” difensore della libertà di stampa? O paladino della lotta alla mafia come Caselli e poi far arrestare gli studenti dell’Onda? O scandalizzarsi difronte ai costumi sessuali del premier e girarsi dall’altra parte quando in Afghanistan ammazziamo civili a decine? O quando li lasciamo morire di sete in mezzo al mediterraneo? Forse dovremmo interrogarci tutti su quanti guasti, dentro la cultura democratica, abbia fatto l’antiberlusconismo. Che ai moderni democratici basta per lavarsi la coscienza.