La nuova strage al largo di Lampedusa riaccende la polemica sulla gestione europea dei confini: l’ipocrisia la fa da padrona

Rifugiati - Quello che l’Italia non dice, quello che l’Europa non fa e quello che possiamo fare tutti noi

13 / 5 / 2014

Diciassette cadaveri recuperati, circa duecento persone sopravvissute, più o meno altrettante disperse. Il primo naufragio nelle acque pattugliate dalle navi di MareNostrum dopo la tragedia del 3 ottobre è un vero e proprio schiaffo all’Italia ed all’Europa. Al governo italiano perché per mesi ci ha raccontato che l’operazione militare/umanitaria della Marina M. avrebbe risolto tutti mali, all’Europa perché per mesi, nonostante la strage dell’Isola dei Conigli, non ha saputo andare al di là di qualche monito ed alla ridefinizione delle regole operative di Frontex. Così un pò tutti, come chi sa di avere la coscienza sporca, scaricano le loro responsabilità trasformando l’ennesima tragedia in una occasione per far precipitare la polemica intorno al tema dell’asilo. Uno scaricabarile bizzarro tra Italia e Istituzioni europee che fa risuonare come fastidiose anche le parole di solidarietà pronunciate in queste ore. Ma state tranquilli, la politica non è per niente abituata a far seguire alle parole i fatti.

Intanto però è bene cercare di addentrarci in questa coltre di fumo che ci viene consegnata dalle dichiarazioni ufficiali, per evitare di diventare spettatori passivi di un orrendo spettacolo.
Una cosa è certa. Complice il sacrificio di centinaia di vite umane (migliaia in questi vent’anni), nel corso di questi mesi, alcuni elementi hanno fatto breccia nel discorso pubblico in maniera impensabile solo fino a pochi mesi fa.
E se è vero che alle parole non seguono i fatti, è vero anche che spesso rappresentano il segno di una crisi.
Mare Nostrum doveva salvare tutti. Ed invece, nonostante i pattugliamenti delle navi militari, che pure nel corso di questi mesi hanno prodotto respingimenti, sparatorie e prassi illegittime a bordo delle navi, nel Mar Mediterraneo si continua a morire. Così sembra sempre meno un tabù pronunciare la fatidica frase "canale umanitario". La soluzione, è evidente, non può che essere quella dell’apertura di percorsi di ingresso autorizzato e sicuro per chi fugge dalle persecuzioni. E’ un discorso, questo, entrato nel lessico della politica (poco a dire il vero) e di molte organizzazioni internazionali fino a poco prima poco avvezze a sposare un’ ipotesi di questo tipo. Certo, per molti questa stessa rivendicazione ha un valore piuttosto contradditorio, configurandosi, nella pratica, come possibile occasione per esternalizzare la gestione del diritto d’asilo fuori dai confini dell’Europa, ma lo spazio che si è aperto attorno a questa ipotesi, al di là delle modalità più disparate ed ambigue con cui poi potrebbe essere praticata, è il segno di una crisi senza precedenti del dispositivo di gestione dei confini dell Mediterraneo e al tempo stesso una rivendicazione che rappresenta una forzatura del meccanismo di controllo delle frontiere europee.
E’ forse Giusi Nicolini a proporre la versione più semplice e chiara di questa soluzione sposata ormai da migliaia di persone che hanno sottoscritto già dopo il 3 ottobre l’appello di Melting Pot Europa: "Il diritto d’asilo va chiesto a terra. Va offerto l’asilo ai rifugiati prima che salgano su quei barconi" - dice la Sindaca di Lampedusa - e la "banalità" di questa descrizione fa impallidire le retoriche di ogni parte in causa.

Ma la partita più grossa, in questo gioco di polemiche e tentennamenti, la fa certamente la questione dei confini interni e della cosiddetta latitanza dell’UE. In queste ore si sprecano le dichiarazioni. Un fiume di parole che ha fatto impazzire le agenzie di stampa. Renzi, Alfano, Shulz, Malmström, Mogherini, La Russa, Salvini, Orlando, tutti in fila a dire la loro sulla tragedia, tutti a commentare il dramma, tutti a richiamare l’Europa e le sue responsabilità.
Non vi è dubbio. La questione dei confini interni all’Europa, dal regolamento Dublino per i richiedenti asilo, alle disposizioni di Shengen e della Direttiva 38 per gli altri soggetti (compresi i cittadini degli stati membri) è un nodo centrale per lo stesso spazio europeo.
Non vi è oggi normativa più fastidiosa e incomprensibile di quella che ingabbia migliaia di persone in fuga in luoghi in cui non vogliono stare, senza permetter loro di raggiungere i parenti, gli amici, le città in cui sperano, a torto o a ragione, di costruirsi un futuro degno.
Ma davvero siamo di fronte ad un’Europa che abbandona l’Italia?
A guardare i numeri dei rifugiati accolti dall’Italia lo scorso anno non si direbbe. Almeno confrontandoli con quelli dei maggiori paesi meta ambita dei richiedenti asilo. A fronte di 435mila domande d’asilo presentate nel 2013, la Germania ne ha raccolte 127mila, pari al 29% del totale, seguita dalla Francia, con 65mila (15%), dalla Svezia con 54mila (13%) e dal Regno Unito con 30mila (7%), a cui segue l’Italia con 28mila, domande, solo il 6% del totale.
In questo gioco di numeri e dichiarazioni che assomiglia ad una diatriba bilaterale tra UE ed Italia rimane molto di non detto. L’Italia è parte di questa Europa che commemora i morti e abbandona i vivi. Ed è la stessa che tace sulla possibilità di aprire canali umanitari, che approva norme palesemente in contrasto con l’ordinamento europeo, che abbandona i richiedenti asilo e i rifugati in un un modo molto più che disarmante. Il suo sistema di accoglienza, riconosciuto ormai in tutta Europa come inadeguato e spesso incapace di garantire protezione degna ai richiedenti asilo, fa acqua da tutte le parti, sempre dominato dal discorso sull’invasione, palesemente improvvisato, strutturalmente inadeguato, registrato ordinariamente sotto la voce "emergenza", anche a fronte dell’ultimo incremento di posti SPRAR passati in pochi anni da 3 mila a 12 mila. Si tratta di un paese in cui migliaia di rifugiati vivono in posti di fortuna o in stabili occupati, unica risorsa in grado di garantire loro un tetto certo sopra la testa. E tanto basta a giustificare le resistenze degli altri stati europei sul tema dei confini interni e del diritto di spostarsi e stabilirsi in un paese diverso da quello di primo approdo. Fino a quando il sistema italiano avrà queste caratteristiche, per gli altri stati risulterà impensabile "aprire" i confini interni perché questo significherebbe attrarre a sé migliaia di persone.

Dal punto di vista delle normative la questione presenta pressoché le stesse caratteristiche. Il sistema comune d’asilo esiste solo sulla carta, mentre proprio quello dell’accoglienza risulta essere il terreno più debole anche sul piano europeo. Gli strumenti per far fronte a situazioni come quelle di questi mesi (destinate per la verità ad aggravarsi progressivamente), sembrano assolutamente inadeguati ed obsoleti. Se ne parlò a lungo anche durante le primavere arabe del 2011, quando anche in quell’occasione l’Italia richiamava la responsabilità europea. L’opzione che l’UE offre agli stati membri è del tutto eccezionale ed è racchiusa nella Direttiva 55. Si tratta dell’istituzione della protezione temporanea a fronte di arrivi massicci di sfollati, che può essere richiesta all’UE dagli Stati. Ma anche se tale procedura fosse attivata, (cosa tra l’altro mai ipotizzata in questo periodo) non si riuscirebbe ad andare oltre ad una concezione "distributiva" dei destinatari della protezione che verrebbero destinati per quote tra i diversi paesi disponibili a farsene carico.
In tutto questo il grande assente rimane proprio il nocciolo della questione, cioè il diritto di ognuno di scegliere il luogo in cui vivere, senza il cui riconoscimento, anche il diritto d’asilo non potrà mai risultare pieno. Perché se è chiara a tutti la legittimità della fuga dalla guerra e dalla persecuzione, non esiste un conseguente dovere di accogliere chi fugge, senza che passare attraverso il vaglio di condizioni e requisiti e o di percorsi forzati e confinati.

Tutto questo, così come le dichiarazioni dei rappresentanti delle istituzioni europee che invocano i controlli delle autorità libiche per prevenire le partenze, ci aiuta a comprendere come in questa vicenda sia francamente difficile individuare buoni e cattivi.
Europa ed Italia insieme sembrano avere in comune un problema su tutti: non è tanto il fatto che nessuno venga perseguitato, torturato o muoia in mare, il loro interesse, ma che "per favore", lo faccia lontano dalle nostre coste, lì dove la coscienza della politica può dichiararsi pulita, lì dove è sempre possibile indignarsi senza assumersi le responsabilità, parlare senza fare, invocare i diritti umani senza mai farli prevalere sugli interessi del confine, che si tratti delle famiglie siriane in fuga, dei giovani che fuggono dal Corno d’Africa, delle ragazze seviziate in Nigeria, dei condannati a morte dell’Egitto o dei torturati della Libia.

E’ allora legittimo guardare all’Italia che richiama la necessità di apertura delle frontiere interne come ad una pioniera in questo spazio di egoismi e chiusure? Per rispondere basta spostare di poco lo sguardo dal Canale di Sicilia ai porti dell’Adriatico, lì dove le autorità italiane, impegnate in una battaglia a suon di dichiarazioni contro l’UE, respingono i migranti in fuga dalla Grecia sui tragehtti.
E quindi possibile rappresentare ancora l’Italia come lo Stato della barbarie contro i migranti a fronte di un’ Europa garante dei diritti? Il rifinanziamento di Frontex, le gabbie di Dublino, la gestione delle frontiere greche, così come di quelle spagnole, l’irrinunciabile presenza dei campi di detenzione come condizione di appartenenza all’UE, il suo continuo richiamo a pattugliamenti e controlli, la lotta retorica ai trafficanti, ci dicono assolutamente il contrario.

La verità è che dopo anni di politiche europee incentrate sull’utilizzo selettivo del confine, a fronte di un importante proccesso di "attrazione" di forza lavoro, dopo la crisi dell’Eurozona e la contemporanea esplosione di conflitti intorno ai suoi confini, l’Europa si trova completamente spoglia di fronte a questo scenario.
I suoi dispositivi, che hanno sempre pensato al diritto d’asilo come ad un meccanismo residuale, si trovano oggi di fronte ad una vorticosa sollecitazione. Migliaia di persone la cui condizione è immediatamente riconducibile alle categorie richiamate dalla Convenzione di Ginevra e dalle direttive in materia d’asilo stanno mettendo in crisi come non mai la geometria europea di gestione delle frontiere. Non che i processi migratori degli ultimi anni siano mai stati pacificati e normalizzati. Ciò che è però certo oggi è che il deficit di legittimità della politica europea dei confini presenta un carattere disarmante. E questo spazio aperto è anche una occasione imperdibile per cercare di cambiare il segno a questa Europa che sta stretta a molti. Il rischio, altrimenti, è quello di consegnarla nelle mani di chi sulla pelle dei migranti ha costruito fortune elettorali, economiche, politiche. Quelle dei respingimenti e del razzismo, ma anche quelle dell’accoglienza caritatevole e del "perbenismo".

Affermare uno spazio Euromediterraneo della libertà di movimento, della libertà di restare o di scegliere dove andare, non è più una questione rinviabile. Si tratta di una cifra fondamentale per l’Europa.
Abbiamo cercato di metterlo nero su bianco sulla carta solo pochi mesi fa, quando in molti siamo scesi sull’isola per scrivere la Carta di Lampedusa. Oggi si tratta di praticare quanto affermato. Non è certo cosa facile, non fosse altro perché centinaia di associazioni e collettivi si trovano a confronto con un’enorme macchina politica, militare, culturale, che lavora continuamente per trovare il modo migliore per riconfermarsi. Ma alcune cose sembrano alla nostra altezza.
Di fronte a migliaia di persone accolte poco e male possiamo dare forza ad una rete di sostegno ed accoglienza da Sud a Nord, intrecciando le tante realtà europee che si stanno muovendo nella stesa direzione. Possiamo insieme lanciare una sfida materiale ai confini che frammentano l’Europa al suo interno per praticare la libertà di movimento. Ma abbiamo anche la necessità di riconnettere queste dimensioni con le tante occasioni in cui i movimenti mettono in discussione l’attuale gestione della ricchezza. Perché se è vero che questo paese è tra i peggiori d’Europa quanto a garanzie per i rifugiati, è vero anche che qualsiasi ipotesi di accoglienza, pessima o degna che sia, non può che fare i conti con uno scenario di crisi di drammatico, in particolare nel Sud dell’Europa, tale da rendere inconcludente ogni sforzo, anche il migliore, perché le migliaia di persone che fuggono dalle guerre possano vivere una vita degna. Ed allora, la rivendicazione di percorsi di accoglienza degna, non può che intrecciarsi alle battaglie per il reddito e la casa, per nuovi dispositivi di redistribuzione della ricchezza. Allora si che potremmo riscoprire senza difficoltà che c’è posto per tutti.