Diciassette cadaveri recuperati, circa duecento persone sopravvissute, più o meno altrettante disperse. Il primo naufragio nelle acque pattugliate dalle navi di MareNostrum dopo la tragedia del 3 ottobre è un vero e proprio schiaffo all’Italia ed all’Europa. Al governo italiano perché per mesi ci ha raccontato che l’operazione militare/umanitaria della Marina M. avrebbe risolto tutti mali, all’Europa perché per mesi, nonostante la strage dell’Isola dei Conigli, non ha saputo andare al di là di qualche monito ed alla ridefinizione delle regole operative di Frontex. Così un pò tutti, come chi sa di avere la coscienza sporca, scaricano le loro responsabilità trasformando l’ennesima tragedia in una occasione per far precipitare la polemica intorno al tema dell’asilo. Uno scaricabarile bizzarro tra Italia e Istituzioni europee che fa risuonare come fastidiose anche le parole di solidarietà pronunciate in queste ore. Ma state tranquilli, la politica non è per niente abituata a far seguire alle parole i fatti.
Intanto però è bene cercare di addentrarci
in questa coltre di fumo che ci viene consegnata dalle dichiarazioni
ufficiali, per evitare di diventare spettatori passivi di un orrendo
spettacolo.
Una cosa è certa. Complice il sacrificio di centinaia di vite umane (migliaia in questi vent’anni), nel corso di questi mesi, alcuni elementi hanno fatto breccia nel discorso pubblico in maniera impensabile solo fino a pochi mesi fa.
E se è vero che alle parole non seguono i fatti, è vero anche che spesso rappresentano il segno di una crisi.
Mare Nostrum doveva salvare tutti. Ed invece, nonostante i
pattugliamenti delle navi militari, che pure nel corso di questi mesi
hanno prodotto respingimenti, sparatorie e prassi illegittime a bordo
delle navi, nel Mar Mediterraneo si continua a morire. Così sembra
sempre meno un tabù pronunciare la fatidica frase "canale umanitario".
La soluzione, è evidente, non può che essere quella dell’apertura di percorsi di ingresso autorizzato e sicuro per chi fugge dalle persecuzioni.
E’ un discorso, questo, entrato nel lessico della politica (poco a dire
il vero) e di molte organizzazioni internazionali fino a poco prima
poco avvezze a sposare un’ ipotesi di questo tipo. Certo, per molti
questa stessa rivendicazione ha un valore piuttosto contradditorio,
configurandosi, nella pratica, come possibile occasione per
esternalizzare la gestione del diritto d’asilo fuori dai confini
dell’Europa, ma lo spazio che si è aperto attorno a questa ipotesi, al
di là delle modalità più disparate ed ambigue con cui poi potrebbe
essere praticata, è il segno di una crisi senza precedenti del
dispositivo di gestione dei confini dell Mediterraneo e al tempo stesso
una rivendicazione che rappresenta una forzatura del meccanismo di
controllo delle frontiere europee.
E’ forse Giusi Nicolini a proporre la versione più semplice e chiara di questa soluzione sposata ormai da migliaia di persone che hanno sottoscritto già dopo il 3 ottobre l’appello di Melting Pot Europa: "Il diritto d’asilo va chiesto a terra. Va offerto l’asilo ai rifugiati prima che salgano su quei barconi" - dice la Sindaca di Lampedusa - e la "banalità" di questa descrizione fa impallidire le retoriche di ogni parte in causa.
Ma
la partita più grossa, in questo gioco di polemiche e tentennamenti, la
fa certamente la questione dei confini interni e della cosiddetta
latitanza dell’UE. In queste ore si sprecano le dichiarazioni. Un fiume
di parole che ha fatto impazzire le agenzie di stampa. Renzi, Alfano,
Shulz, Malmström, Mogherini, La Russa, Salvini, Orlando, tutti in fila a
dire la loro sulla tragedia, tutti a commentare il dramma, tutti a
richiamare l’Europa e le sue responsabilità.
Non vi è dubbio. La questione dei confini interni all’Europa,
dal regolamento Dublino per i richiedenti asilo, alle disposizioni di
Shengen e della Direttiva 38 per gli altri soggetti (compresi i
cittadini degli stati membri) è un nodo centrale per lo stesso spazio europeo.
Non vi è oggi normativa più fastidiosa e incomprensibile di quella che
ingabbia migliaia di persone in fuga in luoghi in cui non vogliono
stare, senza permetter loro di raggiungere i parenti, gli amici, le
città in cui sperano, a torto o a ragione, di costruirsi un futuro
degno.
Ma davvero siamo di fronte ad un’Europa che abbandona l’Italia?
A guardare i numeri dei rifugiati accolti dall’Italia lo scorso anno non
si direbbe. Almeno confrontandoli con quelli dei maggiori paesi meta
ambita dei richiedenti asilo. A fronte di 435mila domande d’asilo
presentate nel 2013, la Germania ne ha raccolte 127mila, pari al 29% del
totale, seguita dalla Francia, con 65mila (15%), dalla Svezia con
54mila (13%) e dal Regno Unito con 30mila (7%), a cui segue l’Italia con
28mila, domande, solo il 6% del totale.
In questo gioco di numeri e dichiarazioni che assomiglia ad una diatriba
bilaterale tra UE ed Italia rimane molto di non detto. L’Italia è parte
di questa Europa che commemora i morti e abbandona i vivi. Ed è la
stessa che tace sulla possibilità di aprire canali umanitari, che
approva norme palesemente in contrasto con l’ordinamento europeo, che
abbandona i richiedenti asilo e i rifugati in un un modo molto più che
disarmante. Il suo sistema di accoglienza, riconosciuto
ormai in tutta Europa come inadeguato e spesso incapace di garantire
protezione degna ai richiedenti asilo, fa acqua da tutte le parti, sempre
dominato dal discorso sull’invasione, palesemente improvvisato,
strutturalmente inadeguato, registrato ordinariamente sotto la voce
"emergenza", anche a fronte dell’ultimo incremento di posti
SPRAR passati in pochi anni da 3 mila a 12 mila. Si tratta di un paese
in cui migliaia di rifugiati vivono in posti di fortuna o in stabili
occupati, unica risorsa in grado di garantire loro un tetto certo sopra
la testa. E tanto basta a giustificare le resistenze degli altri stati
europei sul tema dei confini interni e del diritto di spostarsi e
stabilirsi in un paese diverso da quello di primo approdo. Fino a quando
il sistema italiano avrà queste caratteristiche, per gli altri stati
risulterà impensabile "aprire" i confini interni perché questo
significherebbe attrarre a sé migliaia di persone.
Dal punto di
vista delle normative la questione presenta pressoché le stesse
caratteristiche. Il sistema comune d’asilo esiste solo sulla carta,
mentre proprio quello dell’accoglienza risulta essere il terreno più
debole anche sul piano europeo. Gli strumenti per far fronte a
situazioni come quelle di questi mesi (destinate per la verità ad
aggravarsi progressivamente), sembrano assolutamente inadeguati ed
obsoleti. Se ne parlò a lungo anche durante le primavere arabe del 2011,
quando anche in quell’occasione l’Italia richiamava la responsabilità
europea. L’opzione che l’UE offre agli stati membri è del tutto
eccezionale ed è racchiusa nella Direttiva 55. Si tratta
dell’istituzione della protezione temporanea a fronte di arrivi massicci
di sfollati, che può essere richiesta all’UE dagli Stati. Ma anche se
tale procedura fosse attivata, (cosa tra l’altro mai ipotizzata in
questo periodo) non si riuscirebbe ad andare oltre ad una concezione
"distributiva" dei destinatari della protezione che verrebbero destinati
per quote tra i diversi paesi disponibili a farsene carico.
In tutto questo il grande assente rimane proprio il nocciolo della
questione, cioè il diritto di ognuno di scegliere il luogo in cui
vivere, senza il cui riconoscimento, anche il diritto d’asilo non potrà
mai risultare pieno. Perché se è chiara a tutti la legittimità della
fuga dalla guerra e dalla persecuzione, non esiste un conseguente dovere
di accogliere chi fugge, senza che passare attraverso il vaglio di
condizioni e requisiti e o di percorsi forzati e confinati.
Tutto
questo, così come le dichiarazioni dei rappresentanti delle istituzioni
europee che invocano i controlli delle autorità libiche per prevenire le
partenze, ci aiuta a comprendere come in questa vicenda sia francamente
difficile individuare buoni e cattivi.
Europa ed Italia insieme sembrano avere in comune un problema su
tutti: non è tanto il fatto che nessuno venga perseguitato, torturato o
muoia in mare, il loro interesse, ma che "per favore", lo faccia
lontano dalle nostre coste, lì dove la coscienza della politica
può dichiararsi pulita, lì dove è sempre possibile indignarsi senza
assumersi le responsabilità, parlare senza fare, invocare i diritti
umani senza mai farli prevalere sugli interessi del confine, che si
tratti delle famiglie siriane in fuga, dei giovani che fuggono dal Corno
d’Africa, delle ragazze seviziate in Nigeria, dei condannati a morte
dell’Egitto o dei torturati della Libia.
E’ allora legittimo
guardare all’Italia che richiama la necessità di apertura delle
frontiere interne come ad una pioniera in questo spazio di egoismi e
chiusure? Per rispondere basta spostare di poco lo sguardo dal
Canale di Sicilia ai porti dell’Adriatico, lì dove le autorità italiane,
impegnate in una battaglia a suon di dichiarazioni contro l’UE,
respingono i migranti in fuga dalla Grecia sui tragehtti.
E quindi possibile rappresentare ancora l’Italia come lo Stato della
barbarie contro i migranti a fronte di un’ Europa garante dei diritti?
Il rifinanziamento di Frontex, le gabbie di Dublino, la gestione delle
frontiere greche, così come di quelle spagnole, l’irrinunciabile
presenza dei campi di detenzione come condizione di appartenenza
all’UE, il suo continuo richiamo a pattugliamenti e controlli, la lotta
retorica ai trafficanti, ci dicono assolutamente il contrario.
La
verità è che dopo anni di politiche europee incentrate sull’utilizzo
selettivo del confine, a fronte di un importante proccesso di
"attrazione" di forza lavoro, dopo la crisi dell’Eurozona e la
contemporanea esplosione di conflitti intorno ai suoi confini, l’Europa
si trova completamente spoglia di fronte a questo scenario.
I suoi dispositivi, che hanno sempre pensato al diritto d’asilo come ad
un meccanismo residuale, si trovano oggi di fronte ad una vorticosa
sollecitazione. Migliaia di persone la cui condizione è
immediatamente riconducibile alle categorie richiamate dalla Convenzione
di Ginevra e dalle direttive in materia d’asilo stanno mettendo in
crisi come non mai la geometria europea di gestione delle frontiere.
Non che i processi migratori degli ultimi anni siano mai stati
pacificati e normalizzati. Ciò che è però certo oggi è che il deficit di
legittimità della politica europea dei confini presenta un carattere
disarmante. E questo spazio aperto è anche una occasione imperdibile per
cercare di cambiare il segno a questa Europa che sta stretta a molti.
Il rischio, altrimenti, è quello di consegnarla nelle mani di chi sulla
pelle dei migranti ha costruito fortune elettorali, economiche,
politiche. Quelle dei respingimenti e del razzismo, ma anche quelle
dell’accoglienza caritatevole e del "perbenismo".
Affermare uno
spazio Euromediterraneo della libertà di movimento, della libertà di
restare o di scegliere dove andare, non è più una questione rinviabile.
Si tratta di una cifra fondamentale per l’Europa.
Abbiamo cercato di metterlo nero su bianco sulla carta solo pochi mesi
fa, quando in molti siamo scesi sull’isola per scrivere la Carta di Lampedusa.
Oggi si tratta di praticare quanto affermato. Non è certo cosa facile,
non fosse altro perché centinaia di associazioni e collettivi si trovano
a confronto con un’enorme macchina politica, militare, culturale, che
lavora continuamente per trovare il modo migliore per riconfermarsi. Ma
alcune cose sembrano alla nostra altezza.
Di fronte a migliaia di persone accolte poco e male possiamo dare forza
ad una rete di sostegno ed accoglienza da Sud a Nord, intrecciando le
tante realtà europee che si stanno muovendo nella stesa direzione.
Possiamo insieme lanciare una sfida materiale ai confini che frammentano
l’Europa al suo interno per praticare la libertà di movimento. Ma
abbiamo anche la necessità di riconnettere queste dimensioni con le
tante occasioni in cui i movimenti mettono in discussione l’attuale
gestione della ricchezza. Perché se è vero che questo paese è tra i
peggiori d’Europa quanto a garanzie per i rifugiati, è vero anche che
qualsiasi ipotesi di accoglienza, pessima o degna che sia, non può che
fare i conti con uno scenario di crisi di drammatico, in particolare nel
Sud dell’Europa, tale da rendere inconcludente ogni sforzo, anche il
migliore, perché le migliaia di persone che fuggono dalle guerre possano
vivere una vita degna. Ed allora, la rivendicazione di percorsi
di accoglienza degna, non può che intrecciarsi alle battaglie per il
reddito e la casa, per nuovi dispositivi di redistribuzione della
ricchezza. Allora si che potremmo riscoprire senza difficoltà che c’è
posto per tutti.