La redazione del Progetto Melting Pot ha seguito questa iniziativa. Ne pubblichiamo il resoconto.

Riviera del Brenta - La solidarietà concreta dopo il tornado

Diario multimediale di una brigata di attivisti dei centri sociali e di rifugiati nelle zone colpite per aiutare la popolazione

13 / 7 / 2015

Partiamo molto presto, l’appuntamento è alle 7.00 nel piazzale dello Sherwood Festival. Sono passate poche ore dal tornado che l’8 luglio ha colpito i paesi di Dolo, Mira e Cazzago in provincia di Venezia. Classificato dall'Arpav, in base ai danni provocati, come EF4, ovvero con venti tra 270 e 320 km/h, il vortice ha distrutto tetti e case (400 gli edifici resi inagibili), raso al suolo edifici, sradicato alberi, trascinato via automobili. I danni, secondo una prima stima, sono di cento milioni di euro.

Oltre ai danni materiali, una persona ha perso la vita, 87 sono state ferite e 200 sfollate.

Con due van andiamo a prendere i rifugiati di Casa Don Gallo e i richiedenti asilo ospitati dalla Cooperativa Percorso vita.

Sono una ventina di ragazzi inseriti in "Welcome to Sherwood", un micro-progetto di formazione professionale che abbiamo realizzato all'interno del nostro festival. I ragazzi hanno fatto un corso per pizzaioli, uno per fonici audio, alcuni sono impiegati nel lavoro notturno di pulizia, altri al parcheggio. Due mattine alla settimana seguono anche la scuola di italiano.

In furgone carichiamo una cisterna di acqua, i nostri amici di Mira ci hanno detto che poteva servire alla popolazione. Guanti, badili e magliette del festival le dividiamo fra le macchine e i furgoni, siamo una sessantina tra attivisti dei centri sociali del nordest, collaboratori volontari e migranti.

Le immagini della distruzione provocata dal tornado le avevamo viste in televisione e nei video amatoriali pubblicati sui social network, ma appena iniziamo a vedere i danni capiamo che purtroppo ciò che avevamo visto non rendeva per nulla la gravità della situazione.

L’appuntamento è al Comune di Mira per dare le proprie generalità. I tempi sono un po’ lunghi, oltre a noi, ci son anche tantissimi cittadini, soprattutto giovani, che vogliono aiutare le persone colpite.

Seguendo le indicazioni degli amici che vivono lì, ci dividiamo in due gruppi.

La Protezione civile e le forze dell’ordine controllano la zona colpita, passano solo i mezzi pesanti che hanno iniziato a lavorare per togliere le macerie, i volontari e i residenti. Ci incamminiamo a piedi per qualche chilometro, fa molto caldo, tutti in fila indiana per permettere il passaggio dei mezzi.

Dopo venti minuti raggiungiamo la zona. Affianco alla prima casa distrutta è strano vederne un’altra completamente intatta ma, da quell'edificio in poi, lo scenario è uno scenario di guerra, come un bombardamento.

Nel Brenta vediamo due macchine, di fronte a noi, dall'altra parte della riva, c’è Villa Fini, una storica villa veneta divenuta il simbolo della devastazione che si è abbattuta su questo splendido luogo del Veneto.

Una decina di noi raggiunge una casa a due piani, il piano di sopra era crollato davanti all'abitazione. 

"Mia madre e mio fratello sono vivi per miracolo", ci racconta Francesco che ci accoglie, "la mamma è molto anziana e mio fratello è diversamente abile, giocava sempre in veranda". Ora la veranda è accartocciata su se stessa. Per entrare e tirare fuori il mobilio, e tutto ciò che si poteva salvare nel caso di crollo totale dell’edificio, abbiamo dovuto spostare tutte le pesanti macerie.

Sul ghiaino attorno alla casa, o ciò che ne resta, Francesco ci fa vedere il segno del passaggio del vortice e ci dice "Appena abbiamo visto le immagini il primo pensiero è stato sono morti". Ci porta acqua e bibite, il sole picchia molto forte.

L’altro gruppo è più numeroso, dobbiamo intervenire sulla fabbrica del padre di un amico. Vendevano infissi. E’ un vecchio edificio, molto grande e il prato che circonda la struttura è ricoperto da rami, tronchi degli alberi e oggetti di vario tipo che sono stati scaraventati lì dal vento.

Alcuni iniziano a liberare il prato. Trasciniamo le sterpaglie sulla riva del fiume, con la moto sega vengono tagliati tutti gli alberi. Dopo due ore il prato è sgombro.

Altri sono sul tetto e lo liberano dalle tegole, tiriamo su le macerie. Il lavoro che si può fare manualmente è finito, ora dovranno intervenire i mezzi.

I ragazzi africani sono instancabili, la maglia del festival è madida di sudore.

Arriva la proprietaria della fabbrica, ci porta i panini e la pizza mentre un’altra signora ci ha fatto un riso freddo. Ci ringraziano, "Da soli" - dicono - "non ce l’avremo mai fatta". Mangiano con noi, lì seduti a terra nell'unico angolo ombreggiato, poi ci salutiamo. Dobbiamo raggiungere una zona molto colpita.

Alcuni iniziano a liberare il prato. Trasciniamo le sterpaglie sulla riva del fiume, con la moto sega vengono tagliati tutti gli alberi. Dopo due ore il prato è sgombro.

Altri sono sul tetto e lo liberano dalle tegole, tiriamo su le macerie. Il lavoro che si può fare manualmente è finito, ora dovranno intervenire i mezzi.

I ragazzi africani sono instancabili, la maglia del festival è madida di sudore.

Arriva la proprietaria della fabbrica, ci porta i panini e la pizza mentre un’altra signora ci ha fatto un riso freddo. Ci ringraziano, "da soli" - dicono - "non ce l’avremo mai fatta". Mangiano con noi, lì seduti a terra nell’unico angolo ombreggiato, poi ci salutiamo. Dobbiamo raggiungere una zona molto colpita.Di ritorno verso il festival, sul furgone, Eliot Awogho, che è ospitato in una delle case gestite dalla Cooperativa Percorso Vita, ci racconta la sua storia.

"Sono arrivato cinque mesi fa su un barcone, in Sicilia, ma non so dove, poi sono andato a Messina e sono rimasto lì per tre mesi.

Ho 25 anni, ho studiato all’università Scienze politiche ed educazione per 5 anni, vivevo a Abuja con mio zio, poi il 14 aprile del 2014 c’è stato un attentato di Boko Haram che ha provocato 71 morti e 124 feriti. Mio zio era uno di questi morti. Non avevo più un posto, ero molto confuso, i miei familiari sono tornati al nostro villaggio, per una settimana non ho più saputo nulla di loro. Non c’era lavoro, né sicurezza, avevo paura di Boko Haram. Sono andato in Niger a Agadez, lì ho trovato il camion per andare in Libia. Ho pagato 500 dollari per questo viaggio. Ho attraversato il deserto su un camion, eravamo tantissimi e durante il viaggio tre di noi sono caduti dal mezzo, ma l’autista non si è fermato. Gli altri erano del Ghana, Mali, Camerun. Mangiavamo biscotti, arachidi e gari. Bevevamo acqua da grandi taniche. Ci abbiamo impiegato 12 giorni. Durante il giorno faceva molto caldo e la notte era freddissimo. Siamo arrivati a Sabha in Libia. Ho lavorato più di un mese nei cantieri, qualche volte mi pagavano, altre volte no. L’ultima volta che sono andato a chiedere il denaro il padrone mi ha mandato via. Da Sabha sono arrivato a Tripoli su una Toyota, eravamo in 25, ci abbiamo messo una settimana. Non avevo soldi, né un posto dove stare. Ho lavorato per 5 mesi, dormivo in un cantiere a cielo aperto e poi ho preso il barcone. Abbiamo viaggiato 3 giorni, eravamo circa 100 sull'imbarcazione.

Ora sono qui a Padova, sono libero, non c’è Boko Haram. 

Per me oggi è stata un’esperienza molto bella, sono felice di essere venuto, ho aiutato delle persone che hanno perso tutto, come me".

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Dopo il tornado. 08072015 di Giacomo Cosua, italy.positive-magazine.com

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Video a cura di Global Project:

#EmergenzaRiviera

Riviera del Brenta - La solidarietà concreta dopo il tornado. Foto: Veronica Badolin /Awakening