Roma - Il cielo sopra Rebibbia

Storie di carcere, tra desolazione e garantismo

6 / 9 / 2012

La prima cosa che colpisce, con un rivoltamento di stomaco, sono le decine di braccia che penzolano da dietro le sbarre. Appartengono a sguardi smarriti, in cerca di qualcosa, per ammazzare quel tempo infinito che fa da spartiacque tra la tragedia e la libertà. Carcere di Rebibbia, settembre 2012.

Attraversiamo un corridoio affrescato, echi dell’antica Roma che si esprimono con i corpi scolpiti di probabili guerrieri e le linee geometriche delle bacheche in cui viene raccontata la storia del quartiere Rebibbia, dalla Preistoria sino ai giorni nostri. Superato l’ennesimo cancello, si arriva alla sezione “transiti”, il braccio dove i detenuti appena arrivati vengono “parcheggiati” in attesa che si compilino le carte di ammissione, ma soprattutto che si liberi un posto nelle celle definitive. Perché, nonostante le condizioni non siano degradate e disumane come in altre galere, anche il “carcere modello” di Rebibbia soffre del sovraffollamento.

Senza neanche bisogno di chiederlo, il comandante delle guardie, mentre ci accompagna nella visita organizzata dal consigliere regionale Fabio Nobile, racconta (sic!) l’assurdità del sistema penale, di quelle vite buttate dentro le celle, spesso per ragioni ridicole. Ha le idee chiare: il primo problema, secondo lui, sono le leggi sull’immigrazione. "Leggi troppo restrittive - racconta - che sbattono in carcere persone giunte in cerca di una nuova vita, senza niente, e che troppo spesso, in assenza di una qualunque assistenza da parte dello stato italiano, si ritrovano costrette a rubare per poter mangiare". E finiscono per scontare pene di diversi anni, costituendo oltre l’ottanta per cento della popolazione carceraria di Rebibbia. Il secondo problema, sempre dalla sua voce, sono i magistrati di sorveglianza:  “di braccio troppo corto”, racconta il comandante, indisponibili a concedere le misure alternative per le condanne minori, e costringendo così centinaia di persone alla pena carceraria. E pensare che, proprio questi magistrati, dovrebbero aver scelto la loro professione credendo fortemente nella possibilità di recupero, nella convinzione che il carcere non possa essere la soluzione a tutto. “Ci sono persone qui che scontano residui di pena anche di venti giorni, ma che senso ha tenerle in cella? Non soltanto è un’inutile tortura, ma è anche uno spreco di risorse per l’amministrazione penitenziaria”.

Entriamo in una delle celle. Colpisce l’ordine e la pulizia, che stride fortissimo con quei corpi reclusi: ogni visita si trasforma in una speranza di rompere la routine mortale del carcere. Sono in cinque, in una cella non troppo piccola. Quattro ragazzi rom e un cittadino albanese. Alle finestre saltano all’occhio delle strane grate, non le tradizionali sbarre di ferro, ma strutture più simili (e soprattutto più resistenti) alle inferriate che si usano in tante case private. Un segno che fa dimenticare, per un attimo, l'idea della galera, ma probabilmente solo per gli occhi di un visitatore, di qualcuno che sa che entro pochi minuti sarà fuori di lì.

Cominciano i racconti. Tashir, albanese, resterà in carcere per un anno e otto mesi. E’ colpevole del furto di un portafoglio con dentro dieci euro. Ha dovuto trattare con il giudice per avere uno sconto di pena, il pm avevo chiesto tre anni. L’avvocato di ufficio, senza troppi complimenti, non gli ha neanche spiegato che può ricorrere in appello. Il suo compagno di cella ci tiene però a chiarire che ora gli farà cambiare avvocato, gli farà prendere il suo, che è un amico, e sicuramente lo potrà aiutare meglio di quanto abbia fatto colui che dallo Stato era stato incaricato di difenderlo e proteggerlo da un abuso legale.

Un altro ragazzo, rom, è in cella per un residuo di pena di ventidue giorni. Dopodomani deve uscire, e non sta nella pelle. Aveva scontato una pena di due anni ad Alessandria, ma nel carcere si sono sbagliati e l’hanno liberato ventidue giorni prima. Dopo quattro mesi dalla sua scarcerazione, lo sono andati ad arrestare di nuovo per fargli finire la pena.

E ancora: Rossi, rom di 25 anni, deve scontare un anno e quattro mesi per un furto compiuto quando era minorenne. Aveva già affrontato il processo, e la pena era stata sottoposta alla condizionale. Ma l’avvocato di ufficio dell’epoca non ha proceduto con un notifica in Appello, e dopo nove anni, tramite un controllo dei documenti, Rossi è stato arrestato di nuovo, costretto a scontare la pena che non era più condizionata. A settembre si sarebbe riscritto a scuola, in un istituto odontotecnico, per completare gli studi abbandonati e prendersi finalmente il diploma. Un sogno stroncato in una notte d’estate, a ciel sereno. Hanno due ore d’aria al giorno, il resto del tempo lo passano in cella, a fissare il vuoto. Convivendo con una paura maledetta: quella del trasferimento in un altro braccio, con nuovi compagni di cella sconosciuti. Girano certe voci in carcere, e questi ragazzi sono terrorizzati all’idea di finire "con i marocchini". O, per i rom, con altri rumeni, con i quali vige un profondo odio razziale insanabile.

Storie diverse, che fanno riflettere. Non tanto sulla condizione di vita nelle carceri, oramai nota quasi a chiunque. Ma sul senso della pena, sull’idea di reclusione, sul senso di "giustizia" che si annida dietro queste condanne, l’operato dei magistrati, le infrangibili leggi di un paese che preferisce punire piuttosto che riabilitare.

Le misure cautelari alternative sono uno strumento di civiltà, quella civiltà che dovrebbe aver abolito la pena di morte perché nessun uomo può disporre della vita di un altro, e che invece ha trovato un’altra strada per uccidere: quella detentiva, quella dell’abolizione di ogni diritto (ben oltre il principio di reclusione), della costrizione dentro enormi castelli arroccati, privando migliaia di persone della prorpia dignità. Una morte molto più lenta, dolorosa e straziante. Bisognerebbe pretendere la loro applicazione, la ricerca di nuovi strumenti che portino allo svuotamento delle galere, utili solo a riprodurre i meccanismi di sofferenza sociale. Non è solo una questione di sovraffollamento, è una questione di diritto e di rispetto, di dignità.

In questo paese, le carceri svolgono il ruolo di discariche sociali, dove nascondere i problemi, anzi punire chi ha la colpa di essere povero e/o fuori dai perimetri della cittadinanza. Luoghi in cui seppellire sotto migliaia di metri cubi di cemento armato la coscienza sporca del potere e delle sue ingiustizie. Senza nessuna possibilità di riscatto nei confronti della società, l’unico interesse è punire i  "colpevoli", senza neanche la necessità di concludere il processo, visto l’altissimo numero di detenuti che scontano la pena in attesa di giudizio. Per poi, nella maggior parte dei casi, venire pure assolti.

Di nuovo, le parole del comandante delle guardie ci vengono in aiuto: “E poi dicono che siamo un paese garantista. L’unica cosa garantita, in Italia, è la detenzione”. 


*HorusProject - Roma