Romiti e il mito della controrivoluzione

28 / 8 / 2020

Nei giorni scorsi abbiamo assistito a una vera e propria beatificazione di Cesare Romiti da parte dei media. Il “salvatore della Fiat”, il manager super-potente al servizio della famiglia Agnelli, colui che ha ripristinato l’ordine economico-poliziesco del regime di fabbrica, il comando sul lavoro salariato, la dura disciplina del padrone sullo sfruttamento degli operai. Romiti è uno degli emblemi di quel “dispotismo del capitale” di cui parlava Marx, non solo in fabbrica, ma nella società, sull’intero arco della riproduzione della vita sociale.

Poco ci interessa la figura individuale di Cesare Romiti: solo da sottolineare che la sua ascesa a manager Fiat è strettamente legata a uno dei personaggi più inquietanti e oscuri della storia italiana, Enrico Cuccia, il potentissimo banchiere fondatore di Mediobanca che era visceralmente anticomunista e un fervente ammiratore del neoliberismo dei “Chicago Boys”. Fu proprio questo personaggio a promuovere la carriera di Romiti alla Fiat, dove diventò amministratore delegato nel 1976, un anno per alcuni versi cruciale nella lotta di classe tra capitale e lavoro nel nostro paese.

Ma più che i dati biografici ed individuali, interessa il contesto storico e strutturale in cui matura, tra metà degli anni ’70 e gli anni 80, la controrivoluzione dello stato e del capitale contro le lotte operaie e l’emergere dell’autonomia di classe. Il “lungo 68” - che ha caratterizzato in maniera sorprendente e straordinaria per durata, intensità ed estensione le lotte di classe in Italia - ha davvero fatto tremare la borghesia capitalistica e l’apparato del comando statale.

Da parte di operai, studenti e proletariato sociale non vi era una mera logica rivendicativa rispetto ai padroni ed al loro stato, bensì un problema di potere. Lotta politica, fino in fondo: potere operaio contro comando del capitale, veri e propri embrioni di fabbrica e territoriali di creazione dei nuovi soviet del potere proletario. Questo processo, per quanto embrionale, maturò negli anni ’70, dopo uno straordinario decennio di lotte: l’irriducibilità operaia al capitale e al sindacato, il fondamento dell’egualitarismo, del rifiuto del lavoro salariato, della liberazione di tempo di vita rispetto alla catena di montaggio, il rapporto con gli studenti consapevoli di una formazione del tutto piegata alla logica ed esigenze del capitale, la ribellione dei corpi e delle menti allo status quo furono la base di una vera ricomposizione di classe.

Scioperi selvaggi, tumulti, sabotaggi, veri e propri momenti insurrezionali: tutti questi strumenti e questi eventi si concentrarono in quello spazio temporale, si consolidarono nell’organizzazione autonoma di classe, acquistarono una loro densità e un piano immanente di consistenza, come direbbe Gilles Deleuze. Ma anche, seguendo l’insegnamento di Marx, «gli embrioni della società futura che nascono in seno di quella vecchia», o anche del Gramsci Ordinovista, che vedeva nelle lotte operaie alla Fiat di Torino e nei consigli veri e propri organi dell’autonomia operaia, dentro e contro il sistema di dominio del capitale nel suo complesso.

La strategia padronale maturò nel corso degli anni e si perfezionò tra il 1976 e il biennio 1979-80 a partire proprio dalla Fiat, il cuore della contraddizione tra capitale e lavoro. Il capitalismo italiano aveva bisogno della collaborazione del P.C.I. e del sindacato per annientare l’organizzazione autonoma di classe, esplosa in tutta la sua potenza nel 1977. Non è un caso che nel 1976 Cesare Romiti diventi super manager Fiat, con la fama del duro dai tratti questurini e polizieschi, per riportare ordine e gerarchie di comando in fabbrica. Nello stesso anno Ugo Pecchioli, del gruppo dirigente togliattiano-stalinista del P.C.I., viene nominato responsabile della sezione “problemi dello stato del partito”, assumendo la triste figura di un vero e proprio ministro dell’interno ombra e con l’esplicito obiettivo di colpire le lotte autonome, collaborando attivamente con gli apparati polizieschi di stato per reprimere i militanti operai e proletari. Il quadro politico generale è quello del “compromesso storico” e della logica dei sacrifici enunciata da Luciano Lama e dal sindacato. La linea tracciata è chiara: non più conflitto, ma armonia tra le classi in nome dell’interesse nazionale, della produttività d’impresa, dello sviluppo, dell’uscita dalla crisi. «Sacrifici ora per stare meglio domani», insomma il solito mantra dei capitalisti e dei socialdemocratici per riprodurre su scala sempre più allargata lo sfruttamento del lavoro e la miseria.

Questa corporazione sindacal-industriale-poliziesca (ricordiamo il questionario distribuito dall’allora dirigente “comunista” - oggi reazionario neo-con - Giuliano Ferrara per invitare alla delazione e individuare gli operai più combattivi), maturò una strategia di guerra aperta nel 1979, anno non a caso del teorema Calogero e del processo 7 aprile contro l’Autonomia Operaia. Gli eventi sono tutti collegati ed il ruolo controrivoluzionario del P.C.I. un dato di fatto.

Romiti-Pecchioli-Lama costruirono il piano d’attacco e i 61 licenziamenti alla Fiat di alcune avanguardie di lotta furono il banco di prova per una ristrutturazione ancor più ampia e profonda della vecchia fabbrica fordista. Da quel punto in avanti avviene un inesorabile processo di ristrutturazione della fabbrica, a partire dal 1980: i 14000 licenziamenti, poi la cassa integrazione a 0 ore per 24000 lavoratori, selezionati in base ai criteri di produttività e di protagonismo nei cicli di lotta. Insomma avviene lo smantellamento organico dell’organizzazione operaia antagonista.

E poi la “marcia dei 40000”, impiegati, quadri intermedi, capetti, crumiri, numeri esagerati dai media complici del potere Fiat e del padronato, ma efficace sul piano dell’isolamento e della divisione delle lotte operaie. Su questo, l’occupazione della Fiat, “i 35 giorni”, perse il rapporto di forza e segnò una pesante sconfitta non solo degli operai torinesi, ma dell’intero movimento di classe nel nostro paese. Le conquiste dei lavoratori, maturate nel corso di due decenni di lotte, furono divorate man mano, pezzo dopo pezzo, da una nuova forma di comando, che si va configurando come l’introduzione del “neoliberismo” in Italia, sulla scia di Thatcher, Reagan, dei “Chicago Boys”. Finanziarizzazione dell’economia, flessibilità e precarizzazione del lavoro, decentramento produttivo e delocalizzazione, disoccupazione o sottoccupazione, riduzione del costo del lavoro e bassi salari, ripristino della meritocrazia e delle gerarchie di comando: questi i capisaldi basilari della “ristrutturazione”.

La storia la scrivono i vincitori, così si dice, e la “beatificazione” di Cesare Romiti sta a dimostrarlo. Ma è proprio cosi vero? Che forse il mondo è migliorato o più felice? Che forse il mondo globalizzato sotto l’egida del neoliberismo non ci restituisce l’immagine di un aumento colossale della povertà e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura, fino al punto di non ritorno dell’attuale catastrofe ambientale e sociale?

Oggi, più che mai, si riapre l’attualità, la necessità, la possibilità della rivoluzione, non come attesa messianica o speranza futura, ma come prassi immanente di trasformazione radicale dello stato di cose presenti, iscritta nei grandi cicli di lotte moltitudinarie, che hanno “oggettivamente” un segno anticapitalista, contro i cambiamenti climatici, sulle contraddizioni intrecciate ed intimamente connesse di genere, di razza, di classe. Non ci sono mai vittorie e sconfitte definitive nella lunga tradizione della lotta di classe: essa a volte scorre sotterraneamente, tra cunicoli e gallerie, come “la vecchia talpa” di Marx, per poi emergere potentemente, quando si combinano in una certa maniere le circostanze, le ricomposizioni, le “occasioni”, rispetto alle quali Lenin diceva ai militanti Bolscevichi «bisogna trovarsi sempre pronti» e padroneggiare tutte le forme di lotta.

Oggi più che mai si riattualizza il problema del potere e del contropotere: rivolte, tumulti, insurrezioni dilagano ovunque nel mondo e alludono a un processo che va, tendenzialmente, oltre il rapporto circolare tra potere e resistenza, alludono alla necessità di un nuovo potere costituente, la creazione di nuove forme di vita e riproduzione, contro, fuori ed oltre il capitalismo.

Per questo è importante recuperare la memoria delle lotte dei cicli precedenti, ma non una memoria morta, nostalgica, meccanicistica e ripetitiva, bensì memoria viva e vivificante, che illumina il presente, che collega il passato al futuro, memoria del futuro, insomma, al di là delle discontinuità e ritmi imprevedibili del tempo storico.