Ha pianto disperatamente, il padre di Saman, quando i
familiari carnefici gli hanno annunciato che sua figlia era stata macellata.
Quegli stessi carnefici ai quali lui l’aveva consegnata. Ha pianto anche la
madre di Saman, ripetendo che “purtroppo non c’era altro da fare”. La
rispettabilità della famiglia, i doveri della casta sono stati rispettati. Il
“cosa dirà la gente” andava fatto tacere. Non era concepibile agire altrimenti.
Non è la prima ragazza pakistana che si era rifiutata di sottostare ad un matrimonio
combinato, Saman, ad essere uccisa per l’onore e per la tradizione. Solo un
paio d’anni fa, un’altra ragazza ribelle aveva anticipato la sorte di Saman.
Sono in pochi oggi a ricordarsi della vicenda di Sana Cheema, di Brescia. Anche
in quel caso, la madre piangeva e spiegava, disperata, che suo marito non era
cattivo. Che lo aveva dovuto fare. A differenza di Saman, questa giovane era
stata portata di forza in Pakistan, e là uccisa. E la giustizia di questo Paese
ha assolto i suoi carnefici. Anche per i giudici pakistani si è trattato di un
atto spiacevole ma che doveva essere compiuto.
Wajahat, regista ribelle
Sulla storia di Sana intervistai Wajahat Abbas Kazmi, regista ribelle di
origini pakistane che mi spiegò come funzionano le caste, l’elemento centrale
su cui ruota il sistema patriarcale pakistano, e quanto pesa, soprattutto per
le comunità che si costituiscono all’estero, in piccoli paesi della provincia,
la rispettabilità delle famiglie: “Per la comunità pakistana questi sono
considerati delitti d’onore che rientrano semplicemente nei doveri di un
genitore. Non parlo solo del padre ma anche della madre che, non solo lo
giustifica, ma è sempre complice. Se non hanno loro il coraggio di uccidere la
figlia ribelle, spetta ai cugini o agli zii eseguire. Anche i ragazzi sono
vittime di questo sistema, ma a pagare con la vita sono quasi sempre solo le
donne. Sin da piccole viene costruita attorno a loro una gabbia dalla quale non
riescono ad evadere. Come fa una bambina a pensare che la madre ed il padre a
cui vuole tanto bene, da grande possano ucciderla? Tutta la famiglia diventa
una trappola mortale che non lascia scampo alla vittima. Quelle che vengono
mandate a frequentare le scuole superiori sanno già che dovranno sposarsi con
un parente indicato dalla famiglia. Alcune vengono forzate a sposarsi già
prima. Il padre dice loro che se vogliono andare a scuola prima si devono
sposare. Così non scappano più. Tarpano loro le ali prima di farle uscire dal
nido. Sono comportamenti difficili da spiegare agli italiani”.
Per le famiglie, il matrimonio combinato è anche una questione economica. Un modo per tenere insieme i beni della famiglia, intesa in senso allargato, e aiutare coloro che sono rimasti in Pakistan che magari hanno contribuito alle spese del viaggio che non sono mai indifferenti. Non è una caso che le coppie forzate vengano quasi sempre formate tra cugini di secondo e anche di primo grado. La religione, diciamolo subito, non c’entra niente. Anzi, a volerla dire tutta, per l’islamismo il sistema della casta è una bestemmia, considerato che Maometto stesso le ha proibite.
“In Pakistan non sanno una minchia di cosa sia il Corano! - mi ha spiegato ridendo Wajahat - È scritto in arabo e in arabo siamo obbligati a leggerlo ma nessuno di noi parla l’arabo! Quando studiamo il Corano ripetiamo a memoria delle frasi senza capirle! Dell’Islam sappiamo quello che ci viene raccontato e quello che ci viene raccontato è solo l’aspetto maschilista e patriarcale”.
Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema ma loro viene concessa sempre una scappatoia. “I maschi possono frequentare gli italiani - mi ha spiegato Wajahat -. Se hanno una storia, nessuno li accusa di nulla. Basta che la tengano fuori dalla comunità. Anzi, viene ammirato come uno che si da da fare con le donne italiane che, si sa, non nutrono una buona reputazione. Alle ragazze tutto questo non viene concesso. E poi mi incazzo quando sento ripetere da certi personaggi italiani che si definiscono di sinistra che bisogna rispettare le culture di tutti, che bisogna evitare di dare giudizi su pratiche come i matrimoni combinato o il burka! Che idiozia! Come si fa a dire che questa è liberà? Come si fa a dire che le donne pakistane o bengalesi sono sottomesse perché amano essere sottomesse per tradizione? Su questo tema, certa sinistra non capisce un tubo proprio come la destra. Accoppare la figlia perché non si vuole sposare con chi decidi, non è cosa che si possa giustificare con la cultura! Ma donne che si ribellano, in Italia come in Pakistan ce ne sono, e sono sempre di più. Aiutiamole!”
Fidanzata con un pakistano
Laura B, studentessa di legge di Bologna, è stata per due anni fidanzata con un
ragazzo di origine pakistane. “Lui viveva due vite diverse. Aveva anche due
profili completamente distinti nei social. Era nato in Italia e aveva la
cittadinanza, così come i suoi genitori che venivano dal nord del Pakistan e
vivono in un piccolo comune emiliano. Con me e con il mio gruppo di amici
faceva l’italiano e manifestava idee politiche avanzate. Quando tornava in
famiglia, cambiava completamente. Non mi ha mai voluta presentare ai suoi e se,
fuori da Bologna, incrociavamo pakistani faceva finta di non conoscermi.
Parlavamo di sposarci, non appena fossi laureata. Poi un giorno lo hanno
portato in Pakistan con la scusa di far visita alla nonna che viveva ancora là.
Era tutto pronto a sua insaputa e lo hanno fatto sposare con una sua lontana
cugina che neppure conosceva. Quando è tornato a Bologna mi ha cercata per
dirmi che ora lui era più libero. Che con sua moglie doveva farci solo dei
figli. Che noi potevamo ricominciare come prima. Ovviamente io l’ho mandato a…”
Storia di Nazia
Le caste e i matrimoni combinati, se penalizzano anche i ragazzi, rimangono
comunque funzionali al mantenimento di un sistema patriarcale. La storia di
Nazia, che abbiamo già raccontato su Melting Pot, è esemplare di
quanto accade a tante donne pakistane. Fatta sposare “rispettando la casta e la
famiglia”, Nazia è stata spedita in Italia come un pacco postale. Il marito,
con cittadinanza italiana, l’ha tenuta segregata in casa come si usa, per dieci
anni. Manco la spesa da sola poteva fare e io ricordo ancora la sua felicità e
sorpresa quando, per la prima volta, è entrata in una supermercato. Con
quell’uomo, Nazia ha avuto due figli, cittadini italiani. Poi, quando si è
stufato di lei e si è trovata una nuova compagna (questo agli uomini è
concesso), le ha sequestrato tutti i documenti, compresi quelli dei bambini,
l’ha riportata dal fratello con la solita scusa della visita alla famiglia e
l’ha abbandonata là. Il suo destino sarebbe stato quello venir sposata una
seconda volta. Ma una donna che ha già contratto matrimonio è merce scaduta.
Sarebbe finita in una casa con un marito anziano con almeno due o tre mogli già
a carico, a far da serva. Per i suoi figli, non riconosciuti dal nuovo marito,
sarebbe andata ancora peggio perché la nuova famiglia li avrebbe sbolognati il
prima possibile e senza dote. E’ questo il fenomeno che sta alla base delle
spose bambine.
A Nazia è andata bene. Ha trovato il coraggio di ribellarsi e di
scappare. Delle attiviste dell’associazione PortoAmico, l’hanno aiutata a
recuperare i figli ed a tornare in Italia, grazie all’escamotage che i bimbi,
pur senza documenti, erano cittadini italiani. Altrimenti non ci sarebbe stato
nulla da fare. Così come è per le tante Nazie che non hanno avuto questa
fortuna, donne sposate a forza e poi rispedite in Pakistan con un destino di
umiliazioni e vendette trasversali.
E c’è da sottolineare che leggi come quelle sulla sicurezza che hanno allungato
e complicato l’ottenimento della cittadinanza non hanno fatto altro che il
gioco di questo sistema patriarcale, penalizzando le vittime e aiutando i
carnefici. Ma questo, chi le ha scritte lo sapeva bene, giusto?
Pakistano e gay
Ho conosciuto T. H. - giovanotto di origini pakistane e nato in Italia -
qualche tempo fa ad un concorso di poesia dove si era classificato tra i primi
cinque autori premiati. Due anni dopo l’ho ritrovato per puro caso in una città
di cui non farò il nome. Era in fuga. “Sono riuscito a scappare da casa solo
perché sono un uomo e di casta alta. Mi volevano obbligare a sposare una
cugina. Ma io sono gay e ho già un ragazzo. Mi dicevano che non importava, che
una volta sposato potevo fare quello che volevo ma che la famiglia mi imponeva
di sposare questa mia cugina che era ancora in Pakistan. Io l’ho sentita via
Skype - di nascosto perché parlare con la futura moglie è vietatissimo -.
Neanche lei voleva sposarmi. Così ho deciso di scappare quando ho visto che mi
avevano comperato il biglietto per Islamabad. Siccome sono un uomo, ero io
gestire i miei documenti. Per le ragazze invece spetta al padre conservarli e
loro non ne possono entrare in possesso. Sono un’arma di ricatto. Poi, essere
di casta alta - non che la cosa a me importi, eh? - mi ha aiutato nella fuga
perché quelli più in basso non possono permettersi di agire contro di me,
perlomeno non immediatamente. Così sono scappato. Adesso vivo qui. La città è
grande e, grazie a dio, non c’è una comunità pakistana strutturata. Ho trovato
un lavoro e il mio ragazzo mi ha raggiunto. Ma ho ancora paura della vendetta
della famiglia, continuo a nascondermi e se posso non uso il mio nome. Ho
terrore di sapere cosa possano aver fatto a quella povera ragazza rimasta ad
Islamabad. Le vendette in Pakistan sono sempre trasversali”.
Il dramma della seconda
generazione
Le ragazze ed i ragazzi di seconda generazione vivono una doppia vita che causa
loro grandi sofferenze: italiani in classe e pakistani in famiglia. Sono tante
le ragazze che cercano di ribellarsi, che vorrebbero continuare gli studi,
lavorare, essere indipendenti e scegliere da loro la loro vita. Drammi ai quali
la società è indifferente. “La cosa peggiore è l’indifferenza degli italiani.
Il loro non voler capire - mi ha spiegato un giovanotto pakistano di nome Hamed
-. Gli basta che lavoriamo e che non nutriamo pretese, comprese quelle sindacali,
e va tutto bene”.
Il padre non manda più la figlia a scuola? Ho sentito presidi rispondere che spetta al genitore decidere sulla figlia, dopo gli anni dell’obbligo. Il padre ed i fratelli non permettono alla ragazza di frequentare educazione fisica perché il futuro marito potrebbe avere da ridire? Ci sono prof che si considerano progressisti che ti spiegano che bisogna rispettare le loro culture! Poi ci sono i cosiddetti mediatori culturali pakistani. Fanno comodo alle amministrazioni perché tengono sotto controllo le comunità ma a che prezzo avvenga questo controllo non gliene importa niente a nessuno.
Come Saman
Storie come quelle di Saman, sono frequenti in chi lavora all’interno della
comunità pakistana. Racconta Grazia Satta, attivista di PortAmico, che ha
lavorato tanti come professoressa in una superiore di Portomaggiore, in classi
con alta densità di studenti di origine pakistana: “Capita che anche le
mediatrici di cui ti fidi e che ritieni in gamba facciano il doppio gioco. Si è
rivolta a me una ragazza che, come Saman, non voleva accettare il matrimonio
combinato perché era innamorata di una ragazzo pakistano che aveva conosciuto a
scuola. Il padre l’aveva chiusa in casa ed io ho chiesto aiuto alla mediatrice
pakistana. Ma le cose non si muovevano. Quando sono riuscita a rimettermi in
contatto con Sarah, chiamiamola così, questa mi ha detto, impaurita, che la
mediatrice faceva il gioco della famiglia! Sarah, si è salvata perché ha
rinunciato ai suoi progetti. Quando ho interpellato la mediatrice, questa mi
spiega che la ragazzina è viziata e che il padre è un buon padre e che sa lui
cosa è meglio per la figlia. O forse pretendevo di conoscere meglio io, che non
sono pakistana, la situazione? La notte prima dell’inizio dell’esame di
maturità Sarah mi manda un messaggio: ‘se non sarò a scuola mandate i
carabinieri a casa, mio padre non vuole che io mi diplomi e mi ha chiuso in
casa’. Il padre ha intercettato il messaggio, ma ha avuto paura dei carabinieri
e le ha permesso di venire a scuola. Ma poi Sarah ha dovuto cedere e accettare
il matrimonio”.
“Sarah dopo il matrimonio è tornata in Italia e ci siamo incontrate ad una
festa - continua Grazia -. Mi ha abbracciato, mi ha detto che stava bene, che
ora la famiglia l’amava e che era contenta. Poi improvvisamente si è tolta la
maschera e ha cominciato a piangere a dirotto. Mi ha confessato che era
disperata e mi ha confessato che, prima di sposarsi, aveva proposto al suo
ragazzo di fuggire assieme. ‘Ma lui non ha avuto il coraggio. Diceva che ci
troveranno e ci ammazzeranno entrambi’. Poi Sarah ha smesso di parlare e ha
continuato solo a piangere”.
Società infettate dal
patriarcato
All’interno della comunità e all’ombra del patriarcato si sviluppano relazioni
sociali malate. E’ una costante di tutte le comunità patriarcali. Il maschio
che non sa imporre la sua autorità diventa l’oggetto di chiacchiere, risate
malevole, fino ad arrivare ad un vero e proprio mobbing. E anche la moglie e i figli ne subiscono le
conseguenze perché sono moglie e figli di un uomo che non sa fare l’uomo. La
ribellione di una giovane figlia è la cosa peggiore che possa capitare in
questi contesti. tutta la famiglia sarà esclusa dalle relazioni sociali e
additata con disprezzo e malevolenza. Tutto questo avrà conseguenze anche per i
parenti che vivono in Pakistan. In ambienti piccoli dove le comunità
ricostruiscono un Little Pakistan, l’effetto è devastante. Lo è molto meno, per
fortuna, nelle città dove le relazioni interculturali hanno maggiori occasioni
per svilupparsi. Ma non è una uso che gli omicidi capitino in paesi piccoli
dove si registra una grande percentuale di migranti.
Dalla parte di chi si ribella
“Su queste situazioni - conclude Grazia Satta - i servizi sociali sono
impreparati, il più delle volte non sanno neppure che esistono le caste e i
matrimoni combinati, non capiscono queste relazioni mai codificate e
sotterranee, non hanno mezzi per intervenire e hanno anche paura di essere
attaccati da destra e pure da sinistra, perché, per tanti, questi discorsi non
sono politicamente corretti. Una seria riflessione sulle migrazioni nel nostro
Paese è difficile da fare perché il dibattito è drogato da paure immotivate e fake news cavalcate dalla
destra. Se affermi che in una democrazia come la nostra una ragazza deve poter
decidere chi sposare e che il sistema della caste è semplicemente incompatibile
con i valori in cui crediamo, rischi di venir accusata di essere anti islamica
e di fare il gioco dei sovranisti. Ma l’Islam non c’entra niente qui. E neppure
il Pakistan. Un italianissimo come Pillon plaudirebbe questo sistema. Il vero
nemico è il patriarcato. Ragazze che si ribellano ce ne sono e tante. I veri
colpevoli siamo noi che non sappiamo, non vogliamo dar loro un appiglio, una
leva per spezzare le loro catene”.