Tratto da Progetto Melting Pot

Sandro Mezzadra: “I migranti sono un elemento determinante della classe lavoratrice”

Intervista di Murat Bay, attivista e giornalista curdo

31 / 7 / 2015

Si ringrazia Ilaria Rossi e Alessandro Stoppoloni per la traduzione.

Murat Bay di Sendika.org, il 29 giugno di quest’anno, ha intervistato Sandro Mezzadra dell’università di Bologna sul problema della migrazione. Sandro Mezzadra è professore associato di filosofia politica all’università di Bologna dove insegna studi postcoloniali e filosofia politica. Ha pubblicato molto sul tema della migrazione, teoria postcoloniale, sul capitalismo contemporaneo, sull’operaismo italiano e sul marxismo non ortodosso. Ha recentemente completato con Brett Neilson il libro Border as method, or, the multiplication of labor (2013, Duke University Press). I suoi scritti sono stati tradotti in dieci lingue: italiano, francese, tedesco, spagnolo, finlandese, greco, sloveno, portoghese, cinese e giapponese. Attualmente sta lavorando sul progetto europeo MIG@NET(Transnational Digital Networks, Migration and GenderOpens in a new window) ed è ricercatore anche all’interno di ARC Discovery project, Culture in Transition: Creative Labour and Social Mobilities in the Asian Century Opens in a new window.

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L’immigrazione è uno degli argomenti più importanti in Italia, ma in Medio Oriente e in Turchia non ne conosciamo i dettagli. Per questo motivo vorremmo chiederle di spiegarci le cause delle rotte migratorie e le loro ragioni di esistenza. Per esempio, la migrazione si verifica principalmente a causa di guerre o di motivi economici?

Se si guarda alla composizione della migrazione in Italia si scopre che alcune nazionalità sono molto rappresentate. Per esempio i marocchini e i rumeni che oggi non compaiono nelle notizie. Prevalgono le notizie su persone provenienti dal Mediterraneo. Queste persone vengono dalla Siria e Lei conosce bene la situazione in Siria; vengono dal cosiddetto Corno d’Africa e dall’Eritrea, in particolare dall’Eritrea, ciò ha già causato alcuni problemi perché il Corno d’Africa era stato una colonia italiana prima della seconda guerra mondiale e quindi lì c’è una sorta di eredità coloniale. Inoltre si trovano persone provenienti dall’Africa sub-sahariana, cioè dall’Africa occidentale, persone provenienti dal Mali, dal Senegal… Molte persone originarie dell’Africa sub-sahariana non arrivano in Italia dai loro paesi ma, per esempio, dalla Libia. Lei conosce la situazione in Libia. Questo basta per dire che la realtà dell’immigrazione in Italia non corrisponde necessariamente con il tipo di realtà presentata nei media.

Ancora qualche esempio: se Lei va in giro per le strade di Bologna vedrà che ci sono molti negozi gestiti da bengalesi, in molte città italiane ci sono enormi comunità latinoamericane, come per esempio quella ecuadoregna a Genova e Milano, e queste persone sono arrivate in Italia seguendo strade diverse.

Ancora una volta però leggendo le notizie si è portati a pensare che la maggior parte degli immigrati, i cosiddetti “immigrati irregolari” vengano dalla costa meridionale del Mediterraneo, però non è così. Molti di questi arrivano in Italia in modi diversi: di solito entrano legalmente nel paese e poi rimangono oltre il periodo inizialmente accordato. Se si ha un visto per novanta giorni e si rimane nel paese oltre quel limite si diventa immigrati irregolari.

Anche questo tipo di opposizione binaria che si trova sempre nelle notizie è artificiale. Perché se si guarda a ciò che sta accadendo sul territorio ci si accorge facilmente che molti immigrati che oggi si trovano in una posizione legale, in un passato più o meno remoto erano irregolari. Ciò significa che c’è una specie di produzione dell’illegalità, sa, potremmo anche dire che c’è una specie di produzione legale dell’illegalità.

Questi sono esempi che riguardano le ragioni per le quali i migranti arrivano in Italia o in Europa: bisogna infatti tenere a mente che molti migranti che arrivano qui vedono l’Italia come un paese di transito perché in realtà vogliono andare nell’Europa settentrionale.

Verso la parte più ricca?

Sì, ma anche per altri motivi, per esempio perché hanno dei familiari negli altri paesi. Guardi cosa sta accadendo al confine fra Francia e Italia: i migranti che erano lì volevano andare a Parigi essenzialmente perché in quella città hanno dei legami familiari, delle reti sociali.

Torno alla sua questione sulle ragioni dei migranti. Molte persone scappano, come sa, dalla guerra, dalla Siria, come abbiamo già detto, o dall’Afghanistan, dall’Iraq... C’è questo grande Medio Oriente che è oggi sconvolto dalle guerre. Questo è uno dei motivi che portano le persone a fuggire. Altri scappano dalle dittature, dalle situazioni di violenza prodotte da guerre civili. Pensi solo al Mali come esempio. E le persone arrivano in Italia in cerca di una vita migliore.

E l’hanno trovata?

Non direi che stanno trovando una vita migliore, ma c’è una specie di spinta soggettiva verso di lei. Per me questo elemento è particolarmente importante perché rifiuto di vedere i migranti come vittime.

Voglio cogliere ed enfatizzare questo elemento soggettivo. Questo è il motivo per il quale sono anni che parlo di migrazione come un movimento sociale. Ciò naturalmente non significa definire la migrazione come un movimento sociale nel senso tradizionale del termine, ma parlo di migrazione in questi termini precisamente per enfatizzare la spinta soggettiva verso una vita migliore. E quindi c’è uno scontro fra la spinta soggettiva e le condizioni oggettive della migrazione, sia nel viaggio sia nel cosiddetto paese di destinazione. Ripeto, enfatizzo questo aspetto della migrazione e parlo di migrazione in termini di movimento sociale. Ora vedo che anche Angela Davis, una icona negli anni ’70 negli Usa, comunista afroamericana, militante, prigioniera per molti anni, sta parlando di migrazione in termini di movimento sociale.

Un altro punto che dovrei almeno menzionare, per quello che riguarda i motivi delle migrazioni, è la distinzione fra coloro che richiedono asilo e i rifugiati da una parte e i cosiddetti migranti per motivi economici dall’altra. Sa, questa è una distinzione scritta nella legge, nel diritto internazionale ma anche nella legge nazionale. Ma è una distinzione molto arbitraria perché ci sono molte posizione soggettive che sfumano il confine fra il richiedente asilo e la migrazione economica. Questo è uno dei motivi che ci hanno portato a confrontarci con la crisi dell’asilo. Abbiamo bisogno di soluzioni creative perché non possiamo sbarazzarci completamente della distinzione, perché ci sono chiaramente delle condizioni chiare nelle quali si è legittimati a cercare rifugio e a richiedere asilo. Dobbiamo essere coscienti che la distinzione in sé è molto arbitraria e lo sta diventando sempre di più di fronte a una migrazione di massa.

Lei ha già risposto alla nostra prossima domanda, ma vorrei porla comunque: ci sono dei migranti, principalmente provenienti dalla Libia, dall’Eritrea o dal Sudan che stanno aspettando al confine italo-francese. Qual è il significato del principio che permette ai paesi UE di rafforzare il controllo sui loro confini in occasione di flussi migratori inattesi? Cos’è accaduto al confine fra Italia e Francia?

Il punto è che l’Europa ha un regolamento sull’asilo che viene chiamato regolamento di Dublino. Dublino fa riferimento a una convenzione per l’implementazione dell’accordo di Schengen. In questo modo l’accordo di Schengen ha in un certo senso aperto i confini interni dell’Europa, ma allo stesso tempo ha creato nuovi confini esterni: per esempio Gibilterra, prima confine storico fra Spagna e Marocco, e oggi qualcosa di diverso e di più grande. È il confine esterno dell’Unione Europea e questo significa che anche la Germania, la Finlandia, pur geograficamente lontane, sono interessate dalla gestione del confine. Quindi una delle conseguenze è stata l’introduzione del sistema di Dublino che sostanzialmente stabilisce un regolamento molto arbitrario: un richiedente asilo è obbligato a fare richiesta nel primo paese in cui lui o lei arriva. È su questa base che la Francia rifiuta di accettare i migranti che arrivano dall’Italia e che secondo l’accordo di Dublino dovrebbero chiedere asilo in Italia, non in Francia. Questo è il ragionamento del governo francese. E così hanno chiuso ancora una volta il confine fra Italia e Francia. Ciò provoca tutta una serie di complicazioni. Se io vado in Francia attraverso il confine di Ventimiglia è molto probabile che non sia controllato. Non credo che mi verrebbe chiesto il passaporto. Ma se un uomo nero, una donna nera vanno a Menton, la prima città francese oltreconfine, credo che loro verrebbero controllati.

È anche razzismo

È ciò che sto dicendo, sa, oggettivamente. Il governo francese dice di essere socialista, progressista, di non essere razzista, ma in realtà se sei nero vieni controllato. Lo stesso accade per i treni in altri confini, non solo a Ventimiglia.

Ventimiglia è ora in un certo senso una situazione interessante per il livello di consapevolezza, ostinazione e determinazione dei migranti. No so se Lei ha avuto l’opportunità di leggere alcune interviste con questi migranti, ma loro sono totalmente consapevoli della situazione e molti di loro articolano le loro rivendicazioni politicamente.

Sì, ho letto qualcosa su di loro: hanno fatto uno sciopero della fame e hanno protestato contro la situazione, ma alla polizia non importava.

Ma c’è un livello di solidarietà impressionante nei confronti di questi migranti. Ciò che mi colpisce però è il modo politico e l’articolazione delle richieste, non solo la forma della lotta, come per esempio lo sciopero della fame. E questa è per me una buona rappresentazione della sfida politica posta dalla migrazione. Ho sostenuto questa tesi anche a Padova la settimana scorsa: è una sfida politica ripensare adeguatamente non solo la composizione interna dello spazio europeo, ma anche le relazioni fra l’Europa e gli altri spazi.

Le sembra che l’UE stia lasciando l’Italia da sola? Che risultato politico avrà la minaccia dell’Italia di emettere visti per viaggiare liberamente tre mesi in Europa di fronte alla rigida posizione di Francia e Austria?

È causa di vergogna. È vero che per fare fronte alla sfida bisogna, come ho detto prima, agire a livello europeo. E questo è dovuto anche al fatto che molti migranti non sono diretti verso l’Italia. Vogliono andare in Europa. Alcuni potrebbero voler rimanere in Italia, ma altri potrebbero avere idee diverse. L’obiettivo dei migranti è l’Europa, non l’Italia. Da molti punti di vista una specie di approccio europeo è assolutamente necessario.

È chiaro che ci sono delle forti resistenze contro ciò che viene di solito definito divisione delle responsabilità (burden sharing) nel linguaggio burocratico di Bruxelles. Molti paesi dell’Europa settentrionale non vogliono partecipare a una “divisione delle responsabilità”.

Molti paesi europei sono pronti a partecipare a una guerra. In un certo senso perché la guerra può essere risolta rapidamente (ride). E all’improvviso c’è l’idea o forse la leggenda della guerra in Libia, di una guerra contro i trafficanti di essere umani. Si potrebbe notare che ci sono molti paralleli nella retorica ufficiale dei governi fra i trafficanti e i commercianti di schiavi. In questo modo hanno creato una specie di nuovo nemico dell’umanità, come venivano chiamati i pirati. Ma è chiaro che non ha senso fare una guerra contro i trafficanti. Che cosa si fa? Si bombardano le navi? È chiaro che si bombarderebbe almeno una nave con i migranti. Lo sappiamo dall’esperienza delle guerre degli ultimi anni.

Inoltre trovo che questa analogia fra trafficanti e commercianti di schiavi sia veramente disgustosa per una ragione. Gli schiavi venivano catturati e trasportati in America contro la loro volontà. Questi migranti vogliano attraversare il Mediterraneo; ancora una volta l’elemento soggettivo fa, secondo me, la differenza. Se per i migranti fosse possibile prendere un traghetto e arrivare in Sicilia non ci sarebbero trafficanti. Ovviamente non sto difendendo i trafficanti che spesso sono a loro volta delle persone disgustose. È facile. Se voglio andare in Marocco prendo un traghetto e vado in Marocco, non ho bisogno di trafficanti. Credo che sia necessario stare attenti e all’erta riguardo a cosa accadrà nelle prossime settimane e mesi nel Mediterraneo. Il rischio, il pericolo di una guerra è presente.

Pensa che sarebbe stato possibile salvare coloro che sono annegati per il naufragio delle imbarcazioni su cui si trovavano?

Avrà sentito di questa operazione italiana di salvataggio lanciata dopo il tragico naufragio nel 2013. Tale operazione ha contribuito a salvare molte vite. È sicuramente criticabile, e penso anche che sia necessario criticarla, dato che era un’operazione principalmente militare. Era un’operazione in cui gli obiettivi militari erano in qualche modo strutturalmente interconnessi con gli obiettivi umanitari. Questo dice molto riguardo la natura dell’operazione.

Tuttavia, essa ha contribuito a salvare molte vite e si potrebbe addirittura estenderla ad un livello europeo. Per lo meno sarebbe una soluzione migliore rispetto a quelle che ci sono state presentate fino ad ora. Poiché ad oggi disponiamo solamente di operazioni di pattugliamento delle frontiere in quello che si definisce Mediterraneo centrale, senza che ci sia alcuna operazione ufficiale di salvataggio.

Devo dire che esistono diversi interventi di salvataggio non ufficiali. Molti movimenti sociali e organizzazioni della società civile si sono attivati per lanciare le proprie operazioni. Ad esempio, c’è un numero di telefono di emergenza che è abbastanza interessante. È stato istituito all’interno dell’iniziativa “Watch the Med”, che è possibile consultare sul web. Dunque, esistono una serie di iniziative particolarmente generose che giocano un ruolo chiave nella vicenda. Il telefono di emergenza costituisce, per esempio, una rete molto diffusa. Consiste in numeri di telefono che le persone in situazioni di emergenza in mare possono chiamare, e che permettono loro di mettersi in contatto con persone che rispondono anche dagli Stati Uniti, in modo da garantire una copertura giornaliera di 24 ore su 24. Tuttavia, non ci sono tuttora operazioni di salvataggio ufficiali.

Ora vorrei parlare della vita dei migranti e dei rifugiati una volta giunti in Europa. Per esempio, una volta qui, essi contribuiscono a cambiare qualcosa in Europa, come abbiamo già visto in Turchia: i due milioni di rifugiati in territorio turco, specialmente nelle aree prossime al confine con la Siria, hanno cambiato profondamente la composizione del territorio, il rapporto demografico di diverse città; addirittura le lingue parlate nei vari negozi, il linguaggio stesso, la cultura sono cambiati.

A questo punto la quarta domanda è: se l’afflusso di migranti può cambiare la composizione demografica dei Paesi in cui arrivano, comportando anche delle conseguenze economiche, quali sono gli esiti politici di questo fenomeno in Italia?

Questa è una bella domanda, anche se difficile, specialmente se riguarda l’Italia. Perché l’Italia, come osservato da numerosi sociologi, è un Paese che ha subito una transizione parecchio repentina, passando dall’essere un Paese di emigrazione al diventare una destinazione di immigrazione. Questo passaggio è avvenuto molto in fretta.

Posso porla anche in maniera più biografica. Sono cresciuto a Genova e ho cominciato ad interessarmi alla politica verso la fine degli anni ’80, ero ancora un ragazzino. Genova era una città bianca, senza alcun dubbio, anche se c’erano alcuni marines americani di colore, e questo ci sembrava abbastanza esotico. La città era popolata da bianchi e, improvvisamente, negli anni ’90, abbiamo realizzato che la città non lo era più come prima. C’era stato un cambiamento drastico, quasi drammatico, e ciò aveva comportato una sfida anche per noi attivisti politici. Se lei visitasse una qualsiasi città italiana oggi, sarebbe una città radicalmente diversa da come era negli anni ’80.

Se posso portarle un esempio, alcuni abitanti di Venezia affermano che la città è stata nelle mani del centro sinistra fino alle ultime elezioni, che però sono state vinte dal centro destra sfruttando le tematiche dell’immigrazione e dei rifugiati e del cambiamento che questi hanno comportato per la città.

Com’è avvenuto questo cambiamento, quali sono le sue impressioni?

Non penso che questa sia la ragione principale della sconfitta del centro sinistra nel comune di Venezia. In ogni caso, questo fenomeno è iniziato già negli anni ’90. Ciò che intendo è che a Genova, per quanto riguarda la mia esperienza personale, abbiamo assistito ad uno scontro violentissimo a metà degli anni ’90, con la nuova destra che tentava di ottenere maggiori aperture politiche sfruttando le questioni dell’immigrazione. La questione principale in questo scontro era la legittimità della presenza dei migranti nella città, il che significava la presenza di “strani individui neri”.

Se si osserva la vita quotidiana, si può dire che i migranti hanno vinto questo scontro, perché al giorno d’oggi è difficile contestare la legittimità della presenza dei migranti in Italia. Penso che sia molto difficile innanzitutto perché il ricrearsi della fabbrica sociale della quotidianità si fonda sulla presenza stessa dei migranti. Lei forse saprà che molte donne immigrate lavorano come assistenti sociali in contesti domestici e spesso molto intimi, in cui molte volte si trovano proprio coloro che sono contro l’immigrazione. Questo solo per dare un’idea delle complicazioni con cui ci dobbiamo confrontare in questo momento.

Non nego che le migrazioni producano conflitti che sono spesso difficili da conciliare: esistono modi differenti di impiegare lo spazio pubblico e modi differenti di concepire le relazioni tra giovani e vecchi, tra donne e uomini, e così via. Tutto questo produce conflitti. Ma il vero problema è come gestirli. Penso che sia possibile elaborare una politica di immigrazione che si occupi anche di questi problemi, come un mezzo necessario per la produzione di nuovi spazi politici, di nuovi soggetti politici e così via.

Possiamo anche vederla da un altro punto di vista. Se si osservano le lotte sociali in Italia, esse riguardano il mondo del lavoro, il diritto all’abitazione e la previdenza sociale. Negli ultimi vent’anni, i migranti sono stati i veri protagonisti delle lotte sociali. E non solo di quelle riguardanti i diritti dei migranti, o i permessi di soggiorno, che sono per esempio quelle più importanti, ma anche delle lotte per il diritto al lavoro. Non so se ha sentito della numerosa serie di battaglie nel settore della logistica nel nord Europa. In Veneto, per esempio, ci sono state delle battaglie drammatiche nel mondo del lavoro, e queste erano battaglie fatte dai migranti. Se si guarda alle lotte per il diritto alla casa, l’occupazione di locali in cui le persone si stabiliscono senza un regolare contratto, è una sorta di tradizione in Italia. Questo tipo di pratiche fanno parte di una tradizione consolidata. Ma negli ultimi dieci o quindici anni, queste pratiche sono state riprese dai migranti, i quali si sono resi i protagonisti di queste importanti lotte sociali.

Oltretutto i migranti vengono qui a lavorare, a volte in nero, senza permessi: quali sono le implicazioni del fatto che spesso vengono impiegati come manodopera a basso costo sui diritti acquisiti dalla classe lavoratrice italiana? E inoltre, come definirebbe i migranti lavoratori all’interno della classe lavoratrice?

Beh, essi fanno parte della classe lavoratrice. Se si guarda alla classe lavoratrice in Italia, attualmente, i migranti costituiscono un elemento compositivo della stessa. In modo particolare se si concepisce la classe lavoratrice con un’accezione non tradizionale e non in senso stretto. Si osservi, per esempio, la componente sociale del lavoro che viene sfruttata nel capitale; questo è il mio modo di concepire la classe lavoratrice. Quindi, per me, le donne immigrate che lavorano in ambienti domestici e come assistenti sociali sono una parte importante della classe lavoratrice operaia. Se si pensa alla classe lavoratrice industriale, specialmente per le piccole e medie industrie, che sono molto importanti in Italia, si troveranno molti migranti lavoratori.

E per ciò che riguarda i salari bassi, il lavoro nero e così via, vorrei far notare che, in Italia, prima di tutto, è stato il capitale che a sferrare un attacco, un attacco radicale, contro il movimento dei lavoratori, già dalla metà degli anni ’70. Come in molti altri posti, è stato il capitale a porsi come obiettivo la distruzione del potere del movimento dei lavoratori. E ovviamente, in seguito, si può dire che l’immigrazione, come molte altre volte nella storia, è stata strumentalizzata dal capitale per riconfigurare i rapporti lavorativi. Questo però non toglie che l’attacco sia venuto dal capitale.

Dunque, penso che sia molto importante smentire coloro che affermano che i migranti siano responsabili del peggioramento delle condizioni lavorative in Italia, perché non è vero. C’è stato un attacco del capitalismo e questo ha generato nuove condizioni per lo sfruttamento, ma anche nuovi scenari di lotta. E tuttora, è necessario uno sforzo collettivo per trovare i mezzi necessari per combattere questo sfruttamento. Vi sono una quantità di battaglie, ovviamente. Ma il problema di inventare nuove strategie di organizzazione per questo tipo di composizione sociale del lavoro è un problema che ci riguarda, e non solo in Italia.

Potrebbero cambiamenti come la rivoluzione in Rojava portare a soluzioni locali e durevoli rispetto al problema dell’immigrazione?

Ho seguito piuttosto attentamente la rivoluzione in Rojava fin dal suo inizio. Ho passato molto tempo in Germania, tra gli anni ’80 e ’90, motivo per cui ho ottimi contatti e cari amici nella sinistra tedesca, e, come ben saprà, tra la sinistra tedesca e il movimento rivoluzionario curdo vi sono ottime relazioni. Indi per cui, un mio amico, che è stato varie volte nel Rojava, mi ha tenuto informato dettagliatamente sin dall’inizio della questione. Ho perciò avuto modo di partecipare a questa rivoluzione, anche se da lontano. Ho anche scritto un articolo l’anno scorso, a fine ottobre, quando tutti pensavano che Kobane sarebbe caduta (nelle mani dell’IS, ndr). Ho scritto questo articolo intitolandolo “Kobane è sola”, il quale è stato poi tradotto in diverse lingue. Ha circolato molto, particolarmente in Italia, ma anche in altre zone dell’Europa. È stato un contributo onesto al movimento di solidarietà italiano, ma anche europeo.

Sono quindi uno strenuo sostenitore della rivoluzione del Rojava. Come già ho scritto nel mio articolo, penso che al giorno d’oggi, particolarmente nelle condizioni in cui versa l’odierno Medio Oriente, un’esperienza come quella del Rojava sia estremamente preziosa. È stato veramente qualcosa di importante, come un regalo, che non bisogna solo sostenere, ma anche promuovere e aiutare. Penso che la rivoluzione sia una fonte di ispirazione, anche per le battaglie che si combattono in altre parti del mondo, anche in Europa, in particolare nell’Europa meridionale.

Succede già, in un certo qual modo, e sta avendo successo. Non è la prima volta che accade nella storia, ovviamente.

C’è il problema di reinventare e di ricostruire la solidarietà internazionalista al di là della mera retorica. C’è bisogno di rifondare una nuova solidarietà internazionalista di stampo materialista, a mio avviso. Penso che molte delle esperienze che sono state fatte quest’anno nel Rojava, grazie alla rete di solidarietà, siano esperienze importanti in questo senso.

Quindi questa ideologia potrebbe essere una soluzione per il fenomeno dell’immigrazione dal Medio Oriente o dall’Africa? O sarebbe solo una parte della soluzione?

Non può necessariamente che essere una parte della soluzione, nel senso che se facessi una specie di esperimento utilizzando il modello di Rojava, e il Medio Oriente si riassestasse di conseguenza, è chiaro che il fenomeno dell’immigrazione cambierebbe. È chiaro che un Medio Oriente stabile e profondamente democratico, che oggi è un sogno distante dalla realtà, cambierebbe radicalmente le dinamiche di migrazione dal Medio Oriente all’Europa; penso che ciò sia evidente.

Non penso, però, che serva immaginare, dobbiamo invece lottare contro un mondo in cui le persone non sono libere di muoversi. Penso che a differenti tipi di mobilità corrispondano dei bisogni fondamentali, come quelli di verità e di fare esperienze in altre parti del mondo. Ciò dovrebbe far parte della nostra idea di un mondo differente. Non penso che il mondo ideale, che nella mia immaginazione è uno soltanto ed è il comunismo, sia un modo statico in cui la gente (ride) non si muove mai dal posto in cui è nata. Modi differenti di organizzare il mondo porterebbero a modi differenti di organizzare la mobilità.

Un’ultima cosa, se dovessimo riassumere, quali sarebbero le sue proposte per una soluzione?

Ho già parlato del comunismo (ride). Scherzo, ovviamente. Beh, penso che in realtà non vi sia alcuna soluzione. Mi spiace, ma specialmente in un mondo talmente lacerato e tediato dalle guerre, dai conflitti, dalla violenza, dobbiamo venire a patti con i problemi che verranno. Non riesco a intravedere nessuna facile soluzione a questo problema. Ma cerco sempre di stare dalla parte delle persone che migrano, particolarmente di coloro che vengono sfruttate durante il loro percorso di migrazione, sia nel viaggio che intraprendono sia nel posto in cui poi lavorano. Sicuramente non penso che un’Europa democratica sia un’Europa che fortifica le sue frontiere. A meno che non ci sia un cambiamento su questo versante, e a meno che non si capisca che non è tollerabile una situazione in cui io posso prendere un traghetto e andare in Marocco, mentre un ragazzino da Casablanca non può prendere un traghetto e venire in Europa. Fino a quando questa situazione non sarà riconosciuta come un problema fondamentale dell’Europa, sarà difficile trovare delle soluzioni.

Ne sono consapevole.

Non dico di aprire le frontiere, sarebbe complicato. Dico invece che dobbiamo lottare contro la violenza ai confini; le violenze compiute alla frontiera si riproducono anche all’interno dell’Europa stessa, tra i cittadini europei, nei mercati del lavoro europei, in ogni fabbrica in cui ci sarà un migrante lavoratore, per esempio. Anche nelle fabbriche si verificano episodi di violenza come alla frontiera, e se non lottiamo contro questo fenomeno, sarà difficile pensare che si possa consolidare una sorta di unità e di solidarietà all’interno della classe lavoratrice.