Savianeide

17 / 12 / 2010

Qualcuno glielo dovrebbe pur spiegare a Saviano che l’appellativo “ragazzi” è suonato sempre male a tutte le generazioni che lo sono stati e alla presente che pare maturata piuttosto rapidamente alla precarietà e alla protesta –alla ribellione da dentro il disagio della precarietà. Suona paternalistico nel migliore dei casi, truffaldino diventando “i nostri ragazzi”, quando li si manda allo sbaraglio in guerra e si riportano le salme. Per fortuna qui ci si limita alla lettera foucaultianamente pastorale, nel tono predicatorio e nell’intenzione di controllo delle condotte. Con molti voli retorici su lancio di sassi, posture di corteo, codardi incappucciati , videogames, sbavature che purtroppo erano anche il limite letterario della più che pregevole inchiesta-denuncia di Gomorra. Tocchi da padre Bresciani, avrebbe scritto Gramsci.

Ma veniamo al sodo. Certo che le teste servono per pensare e non come arieti (plausibilmente i caschi miravano a proteggersi da prevedibili manganellate, non a sfondare blindati): ma il primo a usare la testa dovrebbe essere Saviano, e usare la testa significa in primo luogo attenersi alla propria esperienza vissuta. Questo aveva fatto la forza di Gomorra, questo manca nella Lettera ai ragazzi del movimento –e non è colpa di Saviano mancare certe esperienze, costretto com’è a una vita sotto scorta. Ma allora non bisogna parlarne a vanvera e a volte peggio. Saviano ha intuito che la piazza, un’intera generazione precaria, era piena di rabbia sacrosanta. Ha creduto, per sentito dire, che «poche centinaia di idioti» hanno approfittato di questo spontaneo consenso per compiere azioni violente e controproducenti, ha sovrapposto a tali vaghe sensazioni e informazioni un discutibile schema tratto dal passato (terrorismo e autonomia anni ’70, black bloc di Genova) ed è inevitabilmente incappato in errori fattuali e morali.

Se l’è presa con inesistenti camioncini equipaggiati di attempati militanti che urlavano vecchi slogan e canzoni e scandivano vetuste parole d’ordine (bada che foto e video sonorizzati possono sostituire in parte la visione diretta, indicamene uno!), non gli hanno detto che l’unico camion presente a p. del Popolo è servito a svuotare la piazza trascinandosi parte del corteo lungo il Muro Torto ed evitando di coinvolgerne lo spezzone maggiore negli scontri. Fin qui errori fattuali. Quando però si inventa che i distruttori con sciarpa, una volta arrestati, «piagnucolano implorando di chiamare a casa la madre e chiedendo subito scusa... e i delatori deboli in caserma dopo dieci minuti svelano i nomi di tutti i loro compari», qui scivoliamo nell’infamia. Li hai visti, Saviano, i terribili arrestati, ragazzini e ragazzine (non “cari ragazzi”), uscire dal tribunale di Roma giovedì mattina a piede libero, con gli occhi ancora gonfi per le botte prese, i punti in testa, le dita fratturate “resistendo” ai pubblici ufficiali, dopo 48 ore di guardina senza poter parlare con genitori e avvocati, senza aver piagnucolato o fatto delazioni? E di che? Certo, in galera (per l’esattezza in una Casa d’accoglienza) c’è ancora Attila o Tamerlano, lo spaventoso sedicenne che da solo ha picconato e bruciato una colonna di blindati: chissà quali trame occulte confesserà al Tribunale dei minori. Essere poco informati a volte induce ad affermazioni di cui vergognarsi.

Saviano ha compreso che non si tratta di un movimento di minoranza e si preoccupa di educarlo e normalizzarlo, di farne, da focolaio di sovversione, un sostegno di legalità. Prendiamolo come un riconoscimento, rispetto a certe cronache con la bava alla bocca. Ma il progetto pastorale non funziona. Non si tratta di strappare l’audience al Grande Fratello e far transumare le pecore per i floridi sentieri del buonismo di Fazio. Si ha a che fare con un movimento di gente reale che si sbatte, si è stufata e non sta usando il telecomando per lo zapping. Che fa cose giuste o sconvenienti, ma nel mondo reale. Che non si accontenta di gridare al vento le proprie verità fermandosi educatamente davanti a un cordone di camionette che delimita la zona rossa. Perché quella zona rossa è istituita a protezione della compravendita della rappresentanza parlamentare, difende Dell’Utri e Cosentino (do you know, non è della parti di Castevolturno?), separa la rissa indecorosa fra voltagabbana bidirezionali e il tumulto di una moltitudine cui viene strappato il futuro. Segna il confine fra un vitalizio di migliaia di euri, superato il traguardo fatidico dei due anni e mezzo da deputato o senatore, e pensioni, dopo 40 e più anni, al di sotto del 50% dell’ultimo stipendio –ma solo per i fortunati che conseguono da subito un impiego a tempo indeterminato!

Siamo ben lungi dal credere che il 14 dicembre sia stata l’Evento, la grande Giornata rivoluzionaria (anche quelle del passato sono spesso mitizzate): è stato piuttosto uno spartiacque (ce ne saranno altri) fra precarietà rassegnata e precarietà incazzata, il primo passo di un percorso lungo e complicato. Ma le omelie alla Saviano, troppo al di sotto di suoi più meritevoli contributi, immiseriscono l’analisi e distolgono dall’allargamento della lotta a un fronte civile più vasto. Si lasciano sfuggire la novità rispetto a situazioni già note, ripetono la storia smarrendo i contorni di quella passata e di quella presente. Ricorda, Saviano, come nel Processo di Kafka, secondo Benjamin, viene esemplificato l’Eterno Ritorno: il pittore Titorelli, nella lurida soffitta dal Palazzo di Giustizia, tira fuori un pessimo quadro da sotto il letto e all’acquirente insoddisfatto continua a somministrare mediocri paesaggi tutti eguali. Manifestanti buoni e cattivi, black bloc e book bloc, eccessi polizieschi e bankomat vandalizzati, infiltrati e ingenui...

Nessuna vicenda storica ripercorre le precedenti, tanto meno quando siamo di fronte a una moltitudine di differenze, difficile da coordinare, impossibile da ridurre all’Uno della legalità, del patto sociale o dell’utopia messianica.