Sbarchi a Lampedusa - Il diritto di scegliere dove andare e dove restare

L’emergenza democrazia nel Maghreb e nel bacino orientale, ed il grande coraggio di voler cambiare

11 / 2 / 2011

Qualche migliaio di persone nelle ultime settimane, undici sbarchi solo nella scorsa notte, zero accoglienza, un’infinità di proclami ed allarmi; sono i numeri degli approdi sulle nostre coste in questi ultimi giorni, i numeri di una vera e propria emergenza (non per gli arrivi ma per le modalità di accoglienza) che va immediatamente risolta ma che può aiutarci a comprendere meglio cosa sta accadendo intorno a noi. Dall’altro lato del Mediterraneo invece, più che l’ emergenza umanitaria, sembrano essere di estrema attualità l’emergenza democratica scatenata dalle violenze dei regimi autoritari e la straordinaria battaglia per liberarsi dalla dittatura condotta da migliaia e migliaia di protagonisti.

Per la verità gli sbarchi non si erano mai fermati, piuttosto, erano diventati più difficoltosi e le rotte - ce lo conferma la presenza crescente di migranti africani sulla traiettoria che attraversa la Grecia - si stavano in gran parte ridefinendo in risposta ai pattugliamenti delle coste libiche.
L’imbarazzo del Ministro Maroni nel riscoprirsi debole di fronte a tanta realtà (ma attenzione perché ferito potrebbe far più male) è tale da far si che il Viminale, per non confermare lo smacco, non abbia dato ancora disposizioni per la riapertura del centro di Lampedusa (a proposito, non vorremo mica fare una battaglia adesso per riaprire quella schifezza di posto che negli ultimi tempi era diventato un vero e proprio centro di detenzione!). Rimangono terribili le condizioni di arrivo disumane, inaccettabili le notti trascorse all’addiaccio sul molo, che richiamano immediatamente la necessità di garantire, non a Lampedusa, ma nell’intera penisola, strutture adeguate di accoglienza, di assistenza legale, di assistenza sanitaria, di inserimento nei progetti di protezione di richiedenti asilo e rifugiati.

Ma l’idea che piace molto al Ministro, che insieme al Governo finanzia e sostiene quelle dittature traballanti, è quella di dover gestire una vera e propria emergenza umanitaria, forse perché il tracollo dei governi tunisino ed egiziano in questo modo sembrerebbe fare un un pò meno paura.
Intanto regna il caos: da un lato, tentate dall’intraprendere inaccettabili operazioni di respingimento (con la richiesta di intervento di Frontex per il rischio di infiltrati terroristi questa volta), dall’altro imbarazzate di fronte alla necessità di fornire accoglienza ai "potenziali" eroi della rivoluzione improvvisamente diventati clandestini da stigmatizzare, le autorità italiane tentennano e l’unica emergenza umanitaria rimane quella per lo smantellamento della garanzie del diritto d’asilo, quella che registriamo nel momento in cui quelle barche, dove sono stipati i rivoltosi in fuga, arrivano nelle nostre coste.

Ma ciò che di nuovo si aggiunge agli arrivi che stiamo registrando in queste ultime settimane, che appaiono dettati, più che dalla speranza nel sogno europeo, dalla necessità di fuggire dalle violenze e dalla repressione scatenate dai regimi contro i rivoltosi (o forse dal desiderio di raggiungere i familiari che prima di loro hanno percorso la rotta oogi resa percollibile dal venir meno dei controlli in uscita), è ciò che sta avvenendo contemporaneamente nelle piazze del Maghreb e nel bacino orientale: Egitto e Tunisia in primo piano, ma a catena anche movimenti e subbugli negli altri stati limitrofi.

Ai nostri occhi c’è un un fatto inedito che solo le trasformazioni prodotte dalla crisi strutturale che stiamo vivendo possono spiegare. E ciò che prima sarebbe potuto sembrare un racconto dal finale scontato, oggi ci ritorna ulteriori segnali dei cambiamenti in corso.
Circa una decina di anni fa, quando i processi della globalizzazione erano nel pieno del loro compimento, insieme ad una frenetica circolazione di merci e denari, la mobilità dei corpi, i movimenti migratori globali, sono diventati un nodo strutturale (ed inarrestabile) dell’assetto mondiale. Interne agli stati (è il caso della Cina), a cavallo tra i continenti (come nel caso dell’Europa) o sollecitando la frontiere interne all’Africa ed all’America, le pressioni sui confini, il loro superamento e contemporaneamente il tentativo di imbrigliarle violentemente, hanno disegnato uno scenario nuovo della cittadinanza e della sovranità statale.
Quei processi, continuamente caratterizzati dall’intreccio tra scelte soggettive e spinte del mercato globale, che si sono confrontati a lungo con i dispositivi di cattura e selezione del governo delle migrazioni, trovavano la loro contraddittoria "soluzione" in uno scenario che, pur caratterizzato da sfruttamento e dispotismo, garantiva ancora sviluppo, rigettava in avanti la contraddizione stessa, giocava sul sogno e sul desiderio, ma riusciva anche materialmente a garantire risposte spostando in avanti la soluzione, fossero anche solo speranze nell’economia globale, nelle nuove frontiere del mercato, nel sogno mai compiuto della ricchezza facile per tutti.

In quegli stessi anni abbiamo individuato un paradigma su cui per molto tempo abbiamo costruito le pratiche e le suggestioni dei movimenti fino ai giorni nostri, un paradigma che, da solo, dava conto delle enormi spinte soggettive di superamento dei confini, ed insieme, della necessità di liberarle dai confini stessi: “libertà di movimento”, “libertà di circolazione” dicevamo. Quel sogno globale si è però infranto sugli stessi pilastri che ha costruito: lo sfruttamento della cooperazione e della vita, il parassitismo della finanza, l’interdipendenza planetaria, la violenza; e la crisi che ha prodotto, oltre che strutturale e difficilmente ribaltabile con le ricette scritte dagli stessi che l’hanno provocata, appare sempre più una crisi senza sviluppo. Così, alla ricerca dell’approdo, della fuga verso qualcosa di migliore, alla rincorsa del sogno capitalistico come esodo dalla condizione di vita, i giovani di Piazza Tahrir, sembrano aver sostituito l’indisponibilità a migrare forzatamente, a dover ricercare un altro luogo che non sia quello scelto. Come la libertà di movimento interpretava quell’epoca di sviluppo globale, il diritto di scelta sembra essere il paradigma che via via va prendendo forma: non la fine della mobilità, ma la sua autodeterminazione. Una risposta nuova della moltitudine nella crisi senza sviluppo.

Così, in Tunisia ed in Egitto, il bivio imposto tra la necessità di riciclarsi nel tessuto di corruzione e sporcizia di Ben Ali e Mubarak, o di cercare fortuna nel Vecchio continente, oggi sembrerebbe spezzato da una nuova opzione: scegliere se andare o se restare, scegliere come e cosa cambiare. Il diritto a non migrare forzatamente per esempio, come la devastazione (climatica, economica o politica) e le violenze impongono. Questa opzione, il diritto di scelta, che ha spezzato gli schemi della sudditanza ai regimi del nord-africa e della mobilità forzata, parla immediatamente il linguaggio di altre migliaia di giovani che affermano la loro scelta nel cuore dell’Europa. Quando i ricercatori decidono di non fuggire (muniti di cervello) verso i dipartimenti delle università del globo, giocando qui - contro la Gelmini - il loro futuro, affermano quella stessa necessità, non più rinviabile, non più derogabile, di autodeterminare dove e come vivere. Quando migliaia di altri giovani cresciuti nella speranza che la precarietà fosse una condizione transitoria, trasformano l’inesistente prospettiva per il futuro nella rivendicazione di diritti e reddito qui ed ora, praticano la stessa opzione. Non c’è dubbio che quella del diritto di scelta, di decidere se andare o se restare, di decidere per esempio di non essere migranti ancora, forzatamente, anche quando qui si è scelto di vivere, sempre a rischio espulsione, sempre a rischio di reincontrare il confine di fronte ad un test di lingua o ad un rinnovo del permesso di soggiorno, sia un nodo attuale anche per i migranti che vivono all’interno dei nostri confini.

E’ la fine dei movimenti migratori? No di certo, ma ciò che sta prendendo forma ha un aspetto totalmente nuovo.
C’è da chiedersi, per esempio, se gli sbarchi di questi giorni ripropongano lo schema consolidato (e piuttosto eurocentrico) che vede una sistematica e costante movimentazione di persone verso il Vecchio Continente e nella strada verso l’Europa l’unica possibile via di fuga per i popoli schiacciati da miserie ed ingiustizie. Certo, i conflitti del Corno d’Africa o quelli dell’Afghanistan “liberato, occupato e talebanizzato” non cesseranno di produrre profughi e di conseguenza forzature sui confini, così come gli sbarchi di questi giorni ed i prossimi continueranno a porre l’accento sulla centralità di riconoscere il diritto d’asilo. Ma è doveroso tener presente che quando parliamo di sbarchi, così come in passato, abbiamo a che fare con una percentuale infinitamente piccola dei migranti che fanno ingresso nel nostro paese: è un errorre assegnare alla quantità di arrivi registrati a Lampedusa il ruolo di termometro indicatore della mole di movimenti migratori che interessano complessivamente l’Italia e l’Europa. Ed allora cosa accade? Quella che sta avvenendo appare una trasformazione antropologica che sta investendo i processi migratori e più in generale i meccanismi di risposta alla crisi: non un semplice ritorno al passato ma un salto di paradigma. Lo confermano per esempio le inversioni di tendenza nei tragitti delle rimesse dall’estero: se prima i migranti in Europa sostenevano le famiglie nel paese d’origine, oggi, di fronte alla crisi che ha travolto l’economia europea, sono i familiari stessi che finanziano la permanenza dei parenti nel Vecchio continente come investimento. Nessuna cristalizzazione della mobilità, ma un suo diverso mettersi in moto. .
Non c’è nessun tentativo di semplificazione in tutto questo (e neppure certezzie valide per sempre), piuttosto la ricerca di leggere le trasformazioni che la crisi ci sta via via proponendo (è molto più facile rimanere sempre, perennemente, fermi sulle proprie convinzioni).

Di certo la legittima fuga dalla repressione violenta scatenata contro i giovani che ancora, irremovibili, affollano Piazza Tahrir ed i quartieri di Tunisi, e quindi, i numerosi sbarchi che interessano la frontiera Sud sono solo una parte di ciò che sta avvenendo.
Quello che accade lì giù, contro quei dispotici governi corrotti, è molto altro: la realtà è che insieme al diritto di chiedere asilo, quelle barche cariche di migranti in fuga richiamano le immagini delle piazze popolate di rabbia e speranza, di migliaia di giovani non più disposti alla fuga come unica prospettiva futura, alla migrazione forzata come destino, che hanno preso in mano il loro futuro, che hanno praticato cittadinanza: il loro diritto di scelta.

Nicola Grigion, Progetto Melting Pot Europa