Scienza e potere

16 / 2 / 2010

Che il progresso scientifico e la sua traduzione tecnologica partecipino alla determinazione delle strutture di potere e dei nessi produttivi, e ne siano, a loro volta e in larga misura, determinati, rimane – soprattutto in quest'ultima parte – un'affermazione scandalosa all'interno della comunità degli scienziati.

Nel migliore dei casi questa relazione viene riconosciuta come dato di realtà, ma non assunta come tratto intrinseco, soprattutto perché l'attività intellettuale in sé è erroneamente sovrapposta, e confusa nella sua supposta neutralità, alla sua organizzazione materiale all'interno del corpo sociale ed economico.

Parafrasando i cattivi maestri de L'ape e l'architetto, se la caduta di un sasso è certamente indipendente dai nessi sociali all'interno dei quali viene studiata, la mano che lo lancia, la sua parabola e le teste su cui cade ne sono invece certamente dipendenti. Cessa, quindi, ogni neutralità e assume tratti biopolitici nel momento in cui essa è platealmente commissionata ed utilizzata da strutture di potere che la agiscono come strumento di potere. Allo stesso modo, la scienza che la produce deve riconoscere di non essere solo una astratta attività intellettuale e deve confrontarsi con la sua realizzazione storica, interrogandosi sulle forme di quest'ultima che necessariamente la determinano o come strumento di liberazione e possibile autoderminazione o come dispositivo di dominio e controllo.

 Del resto, la potenza sul materiale e sul vivente che la scienza e la tecnologia portano non può essere ritenuta neutrale tout court in quanto è destinata ad una applicazione che è inevitabilmente un processo determinato da, e determinante di, processi sociali. Ad esempio, la ricerca farmacologica o di tecnologia medica controllata da una razionalità di mercato e protetta dai brevetti, diventa uno strumento di profitto fortemente interessato all'esistenza di malati (o sistemi sanitari) in grado di acquistare la diagnosi e la cura. Tanto che, spesso, oltre ad ignorare le necessità reali di intere popolazioni,  si allea più o meno formalmente con le strutture di controllo nel determinare la definizione di malattia e, quindi, la (ri)“produzione” di malati. La riappropiazione su larga scala della stessa ricerca – e il suo hackeraggio – attraverso un'azione di pirateria (come nel caso dei farmaci per l'hiv ri-prodotti in Brasile e Sudafrica rompendo i termini delle licenze) diventa, almeno, una sottrazione a fini sociali di un sapere che, privato e segregato nelle cattedrali della scienza (e della borsa), è stato frutto o epigono di conoscenze condivise e di uno sforzo comune di generazioni di ricercatori.

 Egualmente, il progresso delle biotecnologie in molta parte si è dato come strutturalmente connesso a meccanismi e logiche di profitto e appropiazione, imponendo la brevettabilità di specie viventi, sequenze genetiche e proteine e introducendo il rischio – se non il fatto – che l'oggetto stesso dell'indagine scientifica, che percepiamo appartenente ad un “comune naturale”, divenisse proprietà di soggetti privati e amministrato con regole di mercato. Da una parte, quindi, la genetica e le biotecnologie stanno platealmente confluendo nella costruzione di un nuovo riduzionismo sociale[1], senza una apparente reazione organizzata da parte degli scienziati a difesa della complessità di questi saperi. D'altra parte, è noto che la loro applicazione immediata ha comportato la distruzione di sistemi agricoli millenari, a totale detrimento della biodiversità – gli studi sull'importanza della quale non sono altrettanto fortemente finanziati – e della sovranità alimentare di decine di milioni di donne e di uomini, e a totale vantaggio di enormi profitti di pochi soggetti privati. Difficilmente si potrebbe sostenere che ciò sia intrinseco allo studio della biochimica e della genetica. È molto più facile, invece, sostenere che è necessario alla struttura nella quale la ricerca scientifica si dà e che informa di sé la ricerca medesima, la cui pretesa neutralità intrinseca, è quindi problematicizzata dall'impossibilità di prescindere da una struttura complessa su grande scala, che riflette i nessi sociali ed economici che la determinano.

L'impatto del progresso scientifico e tecnologico sulle forme e l'organizzazione della produzione e della cooperazione sociale (che viene sussunta come fattore produttivo) ha reso la conoscenza e il suo sviluppo una delle merci più preziose, coinvolgendo infine nel postfordismo la ricerca medesima.

 La gerarchia fordista della big science legata alla “scienza di guerra”, che è stata, e continua in parte ad essere, il volano di tutta la produzione scientifica, si è in gran parte sciolta in una struttura reticolare e ibrida che deriva la sua razionalità dalle necessità di mercato e nella quale la partecipazione degli scienziati in società che sfruttano le loro ricerche non è infrequente; le strutture di potere – non più identificabili con le nude strutture statali – si presentano in quanto clienti tra, e confusi a, altri, che continuano a richiedere, ad esempio, saperi di guerra. Essi comprendono, nella nuova accezione diffusa di “guerra all'insicurezza”, mezzi di dominio e controllo, utili anche a mantenere produttiva quella stessa cooperazione sociale incorporata nelle nuove forme della produzione (anche scientifica).

 Il morphing dell'organizzazione e della razionalità della ricerca è evidente nel processo globale di riforma delle università. Nei documenti dei G8 il modello esplicito è la creazione di una larga fascia di università intese come centri di addestramento e non come dispositivi di accesso, diffusione e socializzazione del sapere, e di pochi nodi fortemente finanziati dal pubblico e rigidamente controllati dal privato nella loro razionalità, con la creazione di canali di trasferimento veloce dai loro laboratori ai mercati, sotto la forte protezione dei diritti di copyright e del sistema di brevetti.

 Riconoscendo la crisi radicale del paradigma energetico attuale, è evidente come questa organizzazione sia adatta a sviluppare un nuovo paradigma che assicuri lo stesso margine di crescita e profitto mantenendo uno stretto controllo sulla tecnologia, evitando quindi ogni scenario di socializzazione e diffusione della produzione di energia a partire da fonti diffuse e appartenenti al “comune naturale”. La produzione di energia diviene, inevitabilmente, il nodo centrale della declinazione dei futuri nessi e riassetti produttivi e, quindi, delle  conflittualità sociali che inevitabilmente dovranno vedere la riappropiazione, la riproduzione e l' “hackeraggio” dei saperi necessari. Proprio questo è il più immediato terreno per un nuovo ruolo sociale attivo degli scienziati: l'esodo e la costruzione di nuovi nessi tra le forme della cooperazione sociale e i saperi per  determinare la possibilità dell'indipendenza delle “ragioni della vita” da quelle del profitto.



[1]Mi sembra significativo e non annedottico portare ad esempio una sentenza dello scorso autunno della Corte d'Appello di Trieste che ha riconosciuto uno sconto di pena ad un imputato di omicidio in quanto portatore di una “vulnerabilità genetica” consistente in un tasso di aggressività straordinario testimoniata da analisi genetiche effettuate dall'Area di Ricerca, che è uno dei famosi “parchi tecnologici” che dovrebbero costituire l'incrocio tra le strutture di ricerca e il tessuto sociale ed economico. Per quanto in questo frangente l'esito sia stato, letteralmente, “di liberazione”, è evidente che l'accettazione di tali tecnologie come dati scientifici di realtà costituisce di fatto un quadro neo-lombrosiano che può facilmente tradursi in dispositivi di discriminazione, esclusione e, in generale, di controllo sociale basati sui profili genetici individuali (o, perché no, supposti collettivi). Dispositivi che avranno necessità di ulteriore ricerca fortemente orientata e difficilmente propensa ad un approcio critico, e in generale di saperi, know-how e tecnologie raffinati, potenzialmente oggetto di spin-off  hi-tech.

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